La fine della cybersecurity non è la previsione di un esperto di sicurezza bollito, bensì il titolo in prima pagina di una delle più prestigiose riviste del mondo, la Harward Business Review.

Un titolo inaspettato che nei primi istanti ha fatto tremare le mura delle stanze dei bottoni, laddove si annida il potere di chi controlla e guida le strategie globali di cybersecurity.
Pochi secondi di panico che hanno presto lasciato il posto a qualcosa di più interessante e utile per imbastire un nuovo e stimolante ragionamento, rivolto proprio alla gestione della sicurezza cibernetica. Un’occasione da cogliere per fare il punto della situazione di un fenomeno destinato a dilagare senza precedenti. Altro che fine della cybersecurity, tutt’altro. Si conclude il periodo che ha considerato la cybersecurity come un costo, e si apre una nuova fase ricca di opportunità che la percepisce come un investimento.
Aumenta la complessità dell’impianto tecnologico, aumentano gli oggetti interconnessi tra loro, migliorano i software per la protezione dei dati, ma, purtroppo, aumenta l’impreparazione del personale incaricato di gestire l’intera infrastruttura. Ancora una volta il fattore umano torna prepotente al centro della scena, anche se riposizionato, dimostrando quanto l’intera filiera della sicurezza possa essere contaminata e compromessa in qualsiasi momento a causa di una gestione superficiale del personale aziendale.
A sostenere questa tesi è lo slogan lapidario di Kevin Mitnick, l’hacker più famoso del mondo: “You could spend a fortune purchasing technology and services, and your network infrastructure could still remain vulnerable to old-fashioned manipulation”.
Lui di fattore umano se ne intende eccome. I prodotti e i servizi per la messa in sicurezza dei dati saranno sempre necessari, ma occorre investire e migliorare la formazione continua del personale.
Una formazione che deve cambiare il suo paradigma, offrendo agli utenti un nuovo approccio alla “cyber education”, fondata sulle collaborazioni con i centri di ricerca, sempre più di carattere interdisciplinare. Insomma, dalla segretaria all’amministratore delegato, concetti come “Incident Response Plan” o “Detection & Response” devono essere integrati a pieno titolo nella cultura aziendale.
Ogni forma di lacuna, in termini di scarsa preparazione e mancata consapevolezza, può trasformarsi in una potenziale vulnerabilità. Cosa fare quindi per evitare che ciò accada, soprattutto in presenza di nuove minacce cyber capaci di sfruttare una profilazione utente senza precedenti? Semplice, collaborare e condividere senza se e senza ma.
Per esempio, chiedendo agli addetti ai lavori di condividere in una piattaforma comune i registri digitali (log files) in cui sono registrati i tentativi di attacco che l’azienda ha subito.
In altro modo, gli attaccanti saranno sempre un passo avanti rispetto ai difensori. E i primi, contrariamente ai secondi, non devono mettersi d’accordo, non devono collaborare e soprattutto non devono sottostare ad alcun regolamento, ma possono sfruttare le risorse gratuite della rete per la raccolta a strascico dei big dati da dare in pasto agli algoritmi per l’apprendimento automatico di intelligenza artificiale. A loro basta un semplice messaggio di phishing per raccogliere senza sforzo numerosi e continui feedback, usati per migliorare giorno dopo giorno la qualità dell’inganno emotivo inserito nel messaggio di posta elettronica.
Di fronte a un incremento della criminalità informatica organizzata e resiliente, che può contare su risorse gratuite in cui trovare script, applicazioni e reti neurali, soltanto un cambio di mentalità potrà ridurre la distanza tra chi ha il piacere di attaccare e chi, invece, ha l’obbligo e il dovere di difendere.
In altro modo, non dovremo stupirci se un giorno, non troppo lontano, grazie alla fragilità emotiva di un collaboratore distratto, le città potrebbero cessare di erogare energia elettrica, sempre più necessaria per tenere in vita la neo costituente società digitale.
Testo a cura di Lorenza Bernasconi, CFO Gruppo Sicurezza SA, Savosa
La fine della cybersecurity
/in Digitalizzazione, TematicheLa fine della cybersecurity non è la previsione di un esperto di sicurezza bollito, bensì il titolo in prima pagina di una delle più prestigiose riviste del mondo, la Harward Business Review.
Un titolo inaspettato che nei primi istanti ha fatto tremare le mura delle stanze dei bottoni, laddove si annida il potere di chi controlla e guida le strategie globali di cybersecurity.
Pochi secondi di panico che hanno presto lasciato il posto a qualcosa di più interessante e utile per imbastire un nuovo e stimolante ragionamento, rivolto proprio alla gestione della sicurezza cibernetica. Un’occasione da cogliere per fare il punto della situazione di un fenomeno destinato a dilagare senza precedenti. Altro che fine della cybersecurity, tutt’altro. Si conclude il periodo che ha considerato la cybersecurity come un costo, e si apre una nuova fase ricca di opportunità che la percepisce come un investimento.
Aumenta la complessità dell’impianto tecnologico, aumentano gli oggetti interconnessi tra loro, migliorano i software per la protezione dei dati, ma, purtroppo, aumenta l’impreparazione del personale incaricato di gestire l’intera infrastruttura. Ancora una volta il fattore umano torna prepotente al centro della scena, anche se riposizionato, dimostrando quanto l’intera filiera della sicurezza possa essere contaminata e compromessa in qualsiasi momento a causa di una gestione superficiale del personale aziendale.
A sostenere questa tesi è lo slogan lapidario di Kevin Mitnick, l’hacker più famoso del mondo: “You could spend a fortune purchasing technology and services, and your network infrastructure could still remain vulnerable to old-fashioned manipulation”.
Lui di fattore umano se ne intende eccome. I prodotti e i servizi per la messa in sicurezza dei dati saranno sempre necessari, ma occorre investire e migliorare la formazione continua del personale.
Una formazione che deve cambiare il suo paradigma, offrendo agli utenti un nuovo approccio alla “cyber education”, fondata sulle collaborazioni con i centri di ricerca, sempre più di carattere interdisciplinare. Insomma, dalla segretaria all’amministratore delegato, concetti come “Incident Response Plan” o “Detection & Response” devono essere integrati a pieno titolo nella cultura aziendale.
Ogni forma di lacuna, in termini di scarsa preparazione e mancata consapevolezza, può trasformarsi in una potenziale vulnerabilità. Cosa fare quindi per evitare che ciò accada, soprattutto in presenza di nuove minacce cyber capaci di sfruttare una profilazione utente senza precedenti? Semplice, collaborare e condividere senza se e senza ma.
Per esempio, chiedendo agli addetti ai lavori di condividere in una piattaforma comune i registri digitali (log files) in cui sono registrati i tentativi di attacco che l’azienda ha subito.
In altro modo, gli attaccanti saranno sempre un passo avanti rispetto ai difensori. E i primi, contrariamente ai secondi, non devono mettersi d’accordo, non devono collaborare e soprattutto non devono sottostare ad alcun regolamento, ma possono sfruttare le risorse gratuite della rete per la raccolta a strascico dei big dati da dare in pasto agli algoritmi per l’apprendimento automatico di intelligenza artificiale. A loro basta un semplice messaggio di phishing per raccogliere senza sforzo numerosi e continui feedback, usati per migliorare giorno dopo giorno la qualità dell’inganno emotivo inserito nel messaggio di posta elettronica.
Di fronte a un incremento della criminalità informatica organizzata e resiliente, che può contare su risorse gratuite in cui trovare script, applicazioni e reti neurali, soltanto un cambio di mentalità potrà ridurre la distanza tra chi ha il piacere di attaccare e chi, invece, ha l’obbligo e il dovere di difendere.
In altro modo, non dovremo stupirci se un giorno, non troppo lontano, grazie alla fragilità emotiva di un collaboratore distratto, le città potrebbero cessare di erogare energia elettrica, sempre più necessaria per tenere in vita la neo costituente società digitale.
Testo a cura di Lorenza Bernasconi, CFO Gruppo Sicurezza SA, Savosa
Efficienza nei processi aziendali. Ancora carta?
/in Sostenibilità, TematicheIn Svizzera vengono (ancora) prodotte 800 milioni di fatture cartacee all’anno. Nell’era della trasformazione digitale, la contraddizione è più che mai evidente. Colpa di processi aziendali acquisiti e spesso difficili da ridisegnare. Ma ci conviene ancora rimandare il cambiamento?
Nel pieno della trasformazione digitale, molte organizzazioni vivono ancora anacronistiche contraddizioni in grado di annullare qualsiasi sforzo futuristico. Partiamo dai processi aziendali: mentre le start-up partono dall’indubbio vantaggio di poterli (e spesso doverli) disegnare da zero, le organizzazioni consolidate talvolta sembrano legate a schemi, attitudini e abitudini che rischiano di rallentare, se non bloccare, il difficile guado verso l’efficienza. A titolo di esempio, basti pensare che in Svizzera vengono ancora prodotte 800 milioni di fatture cartacee all’anno. Nate da un gestionale, riprodotte su carta e reintrodotte in un altro gestionale a costi esorbitanti. La semplice migrazione verso soluzioni di e-invoicing permetterebbe un risparmio fino a poco più di 20 CHF per fattura, per un potenziale di risparmio totale che supera i 16 Miliardi di Franchi. Ma gli effetti di un processo digitalizzato, potrebbero portare il risparmio a cifre decisamente superiori; la fattura elettronica sarebbe infatti il primo passo verso la semplificazione dei processi approvativi, velocizzando i tempi di pagamento e limitando drasticamente attività poco produttive, come la riconciliazione dei pagamenti con fatture e relativi ordini d’acquisto, fino all’archiviazione.
L’efficienza dei processi spesso trova un ostacolo nella validità legale di alcune tipologie di documenti. L’idea che una firma autografa sia un passaggio obbligato nel conferire piena legalità ad un documento, sembra scoraggiare qualsiasi tentativo di ottimizzazione. È vero solo in parte; se il Canton Ticino spende ancora più di 8 Milioni di Franchi in francobolli, lo si deve all’attuale assetto legislativo, che impone l’uso della posta raccomandata per talune comunicazioni. Nondimeno, già oggi è possibile firmare digitalmente documenti con carattere legale probatorio. Grazie alla Legge Federale sui servizi di certificazione nel campo della firma elettronica e di altre applicazioni di certificati digitali e l’Ordinanza sulla tenuta e la conservazione dei libri di commercio consentono la gestione legalmente valida (firme incluse) dei documenti elettronici. Anche in mobilità.
Se è così semplice digitalizzare documenti, anche preservando il loro valore legale, come si spiega allora l’apparente pervicacia con cui molte organizzazioni rimangono attaccate al supporto cartaceo? Nella maggior parte dei casi, la sfida maggiore e di conseguenza l’ostacolo apparentemente invalicabile, è rappresentato dalla necessità di ridisegnare completamente i processi. Un passo che comporta necessariamente investimenti. Più grande e complessa è l’organizzazione, maggiore sarà l’ampiezza dell’impatto determinato dalla reingegnerizzazione dei processi, spesso resi complicati da aggiunte e personalizzazioni accumulate in anni di crescita del business. In alcuni casi, una possibile soluzione è offerta dagli standard di processo ed eventualmente dai servizi BPO (business process outsourcing) ma attenti alle integrazioni. I sistemi aziendali e del provider devono poter parlare la stessa lingua. Sembra una banalità, ma spesso è proprio qui che si nascondono nuove inefficienze.
Testo redatto da
Carlo Secchi, Sales Director Swisscom (Svizzera) SA Enterprise Customers, Bellinzona
Pagamenti senza contanti: tendenze e nuove tecnologie
/in Finanza, TematicheQuando le tecnologie del futuro sbarcano nella quotidianità di tutti
Sia nel privato che in ambito professionale le innovazioni tecnologiche contribuiscono a rendere più efficiente la nostra vita: elettrodomestici intelligenti, come ad esempio i robot aspirapolvere, erano fino a qualche anno fa gadget stravaganti – mentre oggi semplificano la quotidianità in moltissime case. Lo stesso vale per i nuovi metodi di pagamento e le soluzioni senza contanti: fino a tempi recenti, poter pagare con lo smartphone o un wearable sarebbe sembrata pura fantascienza, nel frattempo acquistare «direttamente con un gesto del polso» o con il cellulare è una realtà diffusa.
Carte di pagamento e app per smartphone
Al giorno d’oggi le tecnologie si evolvono – parallelamente alle nostre abitudini – molto più rapidamente che in passato. Per quanto riguarda i pagamenti, ormai si tende a optare sempre di più per le soluzioni «senza contanti». Sia in ambito privato che per i pagamenti business: chi effettua spesso viaggi d’affari, ha già la mente occupata da tanti pensieri, e grazie ai mezzi di pagamento pratici e sicuri, può concentrarsi sull’essenziale evitando così la gestione estenuante di contanti in tutte le valute possibili.
Prosegue inoltre la tendenza, osservabile da qualche tempo, verso la «cashless society»: così ad esempio la Svezia ha deciso di abolire completamente il contante. Importi anche minimi vengono pagati con la carta – e sempre più frequentemente via smartphone. Anche gli svizzeri scelgono sempre più spesso lo smartphone quando sono alla cassa: se si considera che ormai la maggior parte delle persone ha il cellulare perennemente in mano, i pagamenti nei negozi, ma anche nelle app o nei siti web possono davvero essere fatti in pochi istanti.
Inoltre le transazioni via Apple Pay, Samsung Pay, Fitbit Pay, Garmin Pay, Swatch PAY! e altre app per pagamenti sono estremamente sicure: infatti nel processo di pagamento non vengono trasmessi né i dati della carta né quelli personali. Al loro posto viene generato un device account number – un cosiddetto token – che è attribuito alla carta di pagamento.
E cosa ha in serbo per noi il futuro? Ciò che può sembrare avveniristico è già realtà – come ad esempio le conferme di pagamento mediante dati biometrici, con impronte digitali, scansioni dell’iride o del viso. Altre invenzioni, come le automobili che pagano il parcheggio da sole o i frigoriferi che segnalano quando il latte è vicino alla scadenza e addirittura lo riordinano autonomamente, entreranno a far parte della quotidianità molto prima di quanto pensiamo. Lasciamoci sorprendere!
Testo redatto da
Beat Weidmann, Head of Distribution Channels & Sponsoring, Cornèrcard
Un buon equilibrio tra fiscale e sociale
/in Comunicazione e mediaL’opinione di Glauco Martinetti, Presidente Cc-Ti, in merito alla votazione federale inerente il progetto AVS-riforma fiscale.
La campagna in favore della legge sulla riforma fiscale e il finanziamento dell’AVS (RFFA) è stata lanciata ufficialmente anche in Ticino lo scorso 9 aprile. Questo pacchetto fornisce una soluzione pragmatica a due problemi urgenti per il nostro paese e consolida le condizioni quadro essenziali per un’economia prospera.
I consiglieri federali Alain Berset e Ueli Maurer erano entrati nel vivo del tema a livello svizzero lo scorso febbraio difendendo insieme la legge sulla riforma fiscale e il finanziamento dell’AVS, sulla quale saremo chiamati ad esprimerci il 19 maggio. Il loro messaggio era chiaro: questo pacchetto eterogeneo è un buon compromesso, realistico e capace di rilanciare due progetti di capitale importanza che sono stati respinti nel recente passato: l’imposizione delle imprese e il finanziamento delle pensioni. Inutile sottolineare quanto sia vitale questo progetto per l’economia del nostro paese e per il benessere di tutti, visto che la RFFA prevede l’abrogazione degli statuti fiscali speciali che pongono problemi a livello internazionale e al contempo garantisce la stabilizzazione dell’AVS. Si tratta di una soluzione di compromesso che non ha alternative.
Più modi per investire
In Ticino la campagna in favore del progetto AVS-riforma fiscale è stata lanciata il 9 aprile da un comitato interpartitico a cui ha aderito, insieme ad altre associazioni economiche, anche la Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del Cantone Ticino (Cc-Ti).
Da un punto di vista imprenditoriale, l’aggiornamento del nostro sistema fiscale permette di rafforzare le condizioni quadro del paese e allo stesso tempo la sua attrattività. Il pacchetto fiscale ha come scopo quello di abolire i regimi fiscali speciali, non più accettati a livello internazionale. Questo porterà a un riequilibro della fiscalità delle aziende, con un aumento per quelle che beneficiano oggi di tali statuti e una diminuzione per tutte le altre imprese. Ciò significa che si ridurrà in modo sostanziale la tassazione soprattutto delle PMI, che, non dimentichiamolo, sono la spina dorsale dell’economia elvetica, visto che si tratta di circa 500’000 aziende. Invece, molte delle tanto deprecate multinazionali subiranno un aumento dell’imposizione fiscale, quindi è assolutamente sbagliato parlare di regalo alle aziende internazionali, come fanno gli oppositori. Da sottolineare è il fatto che le aziende per le quali vi sarà un aumento di imposte appoggiano la riforma, perché questa in cambio garantisce un sistema fiscale sicuro e stabile. Per non penalizzare l’innovazione, il progetto in votazione prevede deduzioni per la ricerca e lo sviluppo e i brevetti. Questo contribuirà in modo decisivo a mantenere alta la competitività svizzera, visto che il nostro paese rimarrebbe terreno molto interessante per tutte le aziende innovative, che avrebbero a avrebbero a disposizione più risorse da investire nella ricerca e nell’innovazione.
Come detto sopra, i contrari denunciano i “regali fiscali ” concessi alle grandi aziende, che “prosciugheranno le entrate pubbliche”. Sbagliato. Sarebbe proprio il rifiuto del progetto in votazione che potrebbe mettere a rischio i conti dello Stato, perché la RFFA metterebbe la Svizzera su una lista grigia – o forse addirittura nera – dei paradisi fiscali, che comprometterebbe in maniera sostanziale il nostro tessuto economico. È quindi essenziale che questa riforma venga accettata, visto che risponde a una parola d’ordine chiara: equilibrio. Il compromesso tra aspetto fiscale ed elemento sociale è la chiave del successo, che auspichiamo per la RFFA il prossimo 19 maggio.
La manualità resta imprescindibile
/in Comunicazione e mediaNell’intervista ad Andrea Gehri, Direttore Gehri Rivestimenti SA, affrontiamo i temi dell’innovazione legati allo specifico comparto settoriale dell’artigianato.
Lo studio BAK ha evidenziato un’economia dinamica, con una forte connotazione innovativa. Nell’artigianato in che modo si traduce quest’affermazione?
L’artigianato fa leva su componenti legate all’abilità ed alla creatività. La dinamicità è senza ombra di dubbio legata alla capacità di proporre con innovazione, qualità e sostenibilità, soluzioni che incontrino i gusti del cliente e soddisfano le tendenze del mercato. Più è alto il gradimento, più è garantito il successo dell’opera creata dall’artigiano che sforna soluzioni attraverso un paziente e preciso lavoro manuale.
L’innovazione presuppone la centralità dell’essere umano, che sviluppa e crea rinnovate idee. Come incentivare maggiormente l’orientamento scolastico e professionale sulle professioni artigianali?
I giovani devono poter accedere alle formazioni artigianali e i canali per promuovere tali professioni devono essere potenziati a livello scolastico e d’orientamento. Troppo spesso i giovani vengono dirottati verso le nostre professioni, solo dopo aver sondato soluzioni alternative in settori dell’economia terziaria. La centralità dell’individuo nell’artigianato costituisce le fondamenta per sviluppare nuove idee. L’integrazione della tecnologia fa dell’artigiano un lavoratore che riesce ad offrire un prodotto sempre più performante. Il potere di innovazione, tipicamente svizzero, è intriso nella nostra cultura di artigiani e dev’essere tramandato alle future generazioni.
Progetto AVS-riforma fiscale: un’occasione da non perdere
/in Comunicazione e mediaL’opinione di Cristina Maderni, Vice Presidente Cc-Ti, Presidente Ordine dei Commercialisti del Cantone Ticino, Presidente FTAF e deputata al Gran Consiglio.
Le imprese che perderanno lo statuto speciale e che pagheranno più imposte sono comunque favorevoli ad una riforma che permetterà alla Svizzera di evitare di essere inserita su liste grigie o addirittura nere, ciò che andrebbe a compromettere seriamente il loro operato e metterebbe a rischio la loro competitività a livello internazionale. Potranno così beneficiare di una sicurezza giuridica indispensabile per la pianificazione e gli investimenti. Tengo a sottolineare che la riforma non sarà un regalo alle multinazionali, anzi esse pagheranno di più, ma il loro onere fiscale rimarrà interessante nel confronto internazionale e, inoltre, non rischieranno più di essere tassate due volte in altri Paesi. Il Ticino dovrà da parte sua affrontare la sfida di rimanere in linea con gli altri Cantoni per restare competitivo in termini di aliquota applicabile.
La bocciatura nel 2017 (a livello nazionale, ma non in Ticino) della Riforma III delle imprese ha portato ad un nuovo pacchetto di strumenti fiscali volto a gestire al meglio questo importante cambiamento di paradigma fiscale, pacchetto che considero equilibrato. Un suo elemento importante sono le deduzioni che favoriranno la ricerca e lo sviluppo e che sono riconosciute a livello internazionale. Per esempio, le spese di ricerca e sviluppo realizzate in Svizzera potranno essere dedotte in ragione del 150% al massimo e i redditi derivanti dai brevetti potranno essere dedotti del 90% al massimo.
La Svizzera non può più permettersi di evitare di affrontare il problema della fiscalità delle aziende e questo progetto è una valida soluzione. Inoltre, consentirà di rafforzare il nostro principale pilastro della previdenza sociale e di guadagnare tempo in vista di una riforma strutturale dell’AVS. La riforma permetterà di consolidare le condizioni quadro essenziali per un’economia prospera. È quindi un’occasione da non perdere.
Per questa ragione invito ad appoggiare il progetto AVS-riforma fiscale il prossimo 19 maggio. Un sistema fiscale equilibrato per una Svizzera competitiva e attrattiva.
Forte crescita nell’industria automotive messicana
/in Internazionale, TematicheCon la ratifica dell’accordo commerciale USMCA l’industria automotive messicana torna a livelli di stabilità. Forti investimenti esteri, una produzione dei veicoli in crescita (3.9 milioni nel 2018) e 800’000 collaboratori salariati qualificati e competitivi sono fattori che spiegano la presenza di 21 original equipment manufacturer (OEM) che producono in Messico.
Panoramica sull’industria automotive in Messico
21 OEM automotive tra cui Volkswagen/Audi, Mercedes-Benz, BMW, Ford, Toyota e Kia producono in 14 Stati messicani. Tra il 2000 e il 2017, è stato investito nell’industria automotive il 12% degli investimenti esteri diretti totali o 60 miliardi di dollari USA.
Grazie alla stretta integrazione nel mercato nordamericano, il Messico è uno dei principali produttori ed esportatori di veicoli (11% delle esportazioni messicane nel 2017) e di ricambi auto (6.7%). L’industria messicana ha prodotto 3,9 milioni di auto nel 2018 e ha registrato un incremento del 6% nelle esportazioni di automobili, affermandosi come il 4° principale esportatore. Nonostante i cambiamenti politici ed economici, il Messico si conferma il settimo produttore principale di veicoli leggeri a livello globale e il più grande in America Latina. L’industria e il governo prevedono una crescita continua che raggiungerà, entro il 2020, i quasi 5 milioni di veicoli prodotti ogni anno.
Nel Paese messicano, l’industria automotive offre oltre 800’000 posti di lavoro diretti. Si tratta del secondo ramo maggiore dopo la produzione alimentare che corrisponde al 2.9% del PIL mostrando una crescita significativamente più elevata (94% crescita del PIL vs. 2% in media). ….continua a leggere
Articolo tratto da Switzerland Global Enterprise (S-GE) ©
Dal “gazosat” all’imprenditore
/in Organizzazione, TematicheNell’intervista a Daniele Cattaneo, Direttore Succ. E. Brughera SA, scopriamo come è evoluta la figura dell’imprenditore nel mondo del commercio.
È cambiato in modo sostanziale seguendo l’evoluzione dei tempi. In una battuta siamo passati dal “gazosat” all’imprenditore. Dalla piccola ditta di allora, che impiegava 5 dipendenti e vendeva aranciate e gazzose, siamo giunti all’azienda di oggi che dà lavoro a 60 impiegati e che commercia acque minerali, birre e alcolici. Negli anni abbiamo sviluppato un servizio sempre più moderno, avvalendoci della tecnologia necessaria, di una logistica sempre più performante, di un’organizzazione efficiente e di mezzi di trasporto all’avanguardia. Nell’ultimo ventennio è stata potenziata la distribuzione al dettaglio, soprattutto sul mercato ticinese con l’acquisizione di piccole e medie aziende del settore.
Si parla molto di sostenibilità. Al vostro interno come viene impostato questo aspetto?
Essere sostenibili in un’azienda incentrata sulla distribuzione è possibile unicamente se ci si impegna ad avere un parco veicoli moderno e rispettoso dell’ambiente come il nostro. Inoltre è importante avere uno sguardo attento all’organizzazione che deve essere il più razionale possibile per evitare viaggi inutili e a vuoto. Da circa un anno abbiamo anche piazzato sul tetto della nostra sede di Mezzovico un impianto fotovoltaico per la produzione di energia. Ma nonostante tutto, i nostri sforzi per essere sostenibili sono spesso “vanificati” da un traffico in costante aumento.
Crescere ed aggiornarsi costantemente
/in Risorse umane, TematicheGrazie al ciclo formativo della Scuola Manageriale in partenza in settembre, i nuovi leader di domani potranno formarsi con la Cc-Ti ed ottenere un attestato federale.
Aggiornamento delle competenze, sviluppo personale, realizzazione di nuovi obiettivi. Sono alcuni degli scopi che ci si pone quando si inizia a frequentare un percorso di formazione professionale superiore. Se fino ad alcuni anni fa le conoscenze acquisite durante la formazione scolastica potevano essere sufficienti per la maggior parte della vita lavorativa, oggi non bastano più. Occorre incrementare la propria istruzione ed ampliare il bagaglio di competenze con una formazione continua e “on the job”, così da stare al passo con un’economia dinamica e sempre più al passo con le trasformazioni tecnologiche.
In questo senso, la Cc-Ti, facendosi interprete delle necessità delle aziende associate, propone con rinnovato entusiasmo un’edizione della Scuola Manageriale che prepara professionisti provenienti da settori diversi alla gestione di una PMI. Il corso “Specialista della gestione PMI” riparte in settembre con una nuova edizione, nella quale si approfondiranno i temi della gestione generale dell’impresa; di leadership, comunicazione, gestione del personale; organizzazione; contabilità; marketing, pubbliche relazioni, rapporti con i fornitori e la clientela e diritto in materia di gestione PMI. In questa video intervista con Roberto Klaus, Direttore SSIB Ticino, scopriamo le novità in corso. Buona visione!
Contattateci per tutte le informazioni del caso! Saremo lieti di potervi rispondere.
La vendita internazionale a livello giuridico
/in Internazionale, TematicheLa compravendita commerciale internazionale è soggetta a regole uniformi: focus sulla Convenzione di Vienna.
Si è registrata nel corso del ‘900 la tendenza da parte della comunità interessati al fenomeno del commercio internazionale a cercare di realizzare forme di disciplina uniforme a livello internazionale, e specificamente nelle materie dei contratti di compravendita e di trasporto, o quantomeno rivolte a favorire lo sviluppo di prassi spontanee da parte degli operatori (per esempio in tema di tecniche di pagamenti o di ripartizione degli oneri economici connessi alla vendita) alle quali si è venuti via via riconoscendo, in misura variabile, la valenza di fonti giuridiche di regolamentazione. Oggi il quadro normativo è dunque composto da fonti primarie come la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di cose mobili, e fonti consuetudinarie integrative come le norme uniformi in materia di crediti documentari e gli Incoterms, raccolti dalla Camera di commercio internazionale di Parigi.
La compravendita commerciale internazionale, dal canto suo, si pone come operazione evidentemente distante – da un punto di vista economico e sociologico – dalla vendita di beni di consumo o di beni durevoli con destinazione personale; data la sua dimensione internazionale e la sua funzione commerciale cui è rivolta, la vendita di merci ha ricevuto da tempo attenzione proprio in sede di elaborazione di discipline uniformi a livello internazionale. In particolare, è stata approvata la convenzione di Vienna dell’11 Aprile 1980, ancora oggi lo strumento internazionale di diritto privato con maggiori adesioni a livello internazionale, proprio per disciplinare i contratti di vendita tra soggetti con sedi di affari in Stati diversi.
La Convenzione si occupa della forma del contratto, dei modi per il raggiungimento dell’accordo vincolante e delle obbligazioni delle parti del contratto, nonché dei rimedi in caso di inadempimento. Ma aldilà delle singole specifiche soluzioni normative rispetto a determinate criticità contrattuali, comunque, la Convenzione di Vienna resta un capitolo esemplare nel percorso della comunità internazionale alla ricerca di soluzioni condivise ed ispirate a principi generali tendenzialmente comuni agli Stati membri, oltre che per il tentativo di integrare le norme “ufficiali” approvate dagli Stati con quelle provenienti “dal basso“, cioè dagli usi dei “merchants”.
Testo redatto da
Prof. avv. Fabio Toriello
Lugano
La tematica trattata in questo articolo verrà affrontata anche in un corso che si terrà il prossimo 7 maggio. Per maggiori informazioni ed iscrizioni al pomeriggio formativo “La vendita internazionale dal punto di vista giuridico” clicca al seguente link.