L’importanza degli accordi di libero scambio

«La Svizzera include sistematicamente nei suoi accordi di libero scambio disposizioni giuridicamente vincolanti sulla protezione dell’ambiente e dei lavoratori». Il popolo svizzero è stato chiamato alle urne accettando l’accordo di libero scambio con l’Indonesia. Ecco qualche spunto di riflessione per evidenziare la rilevanza del libero scambio per l’economia svizzera: la liberalizzazione del commercio internazionale ottimizza il benessere collettivo, per cui la Svizzera ne beneficia in modo positivo.

Nel mondo le risorse naturali sono ripartite irregolarmente. Alcuni Stati non sono autosufficienti, non producono tutti i beni e i servizi di cui necessitano in modo autonomo.
È questa una delle ragioni per cui sono nati gli accordi di libero scambio. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il commercio internazionale ha continuato a crescere. Un tale incremento coincide naturalmente con l’aumento degli accordi di libero scambio, che si posizionano come garanti della prosperità.
Una politica aperta, che mette in luce il libero scambio ha l’obiettivo di ridurre le barriere doganali e favorire l’estensione dei mercati, aprendo nuovi sbocchi per l’esportazione.
Alcune teorie economiche affermano che la libertà degli scambi conduce le Nazioni a specializzarsi nella produzione di beni fabbricati a costi contenuti. Ne risulta un incremento per il reddito mondiale. L’apertura dei mercati genera consequenzialmente una pressione concorrenziale che indirizza alcuni Paesi all’adozione di politiche protezionistiche, di limitazione ai prodotti esteri sui mercati interni.

Liberalismo vs. neomercantilismo

Il commercio mondiale è frequentemente confrontato con un contrasto tra la libertà di scambio e interventismo statale. Molto spesso esistono ragioni oggettive per la promozione del protezionismo. Una limitazione della concorrenza estera può, per esempio, consentire la salvaguardia degli impieghi, delle attività ritenute indispensabili (l’agricoltura) e di favorire lo sviluppo di nuove attività.
Resta il fatto che alcune pratiche possano risultare – sul lungo termine – addirittura dannose per la comunità internazionale. Una riduzione delle importazioni di un attore genera inevitabilmente una diminuzione delle esportazioni per altri. Questa dinamica mette in difficoltà la dinamicità economica globale. Inoltre, una politica protezionistica rischia di rendersi responsabile di una guerra commerciale latente. D’altro canto, la libera circolazione dei prodotti – che corrisponde allo stato naturale dell’economia – presuppone, per sua natura, un incremento della domanda. L’esistenza della concorrenza favorisce l’innovazione e, in questo senso, il libero scambio permette di produrre di più e meglio, costituendo un fattore chiave dello sviluppo economico. Contemporaneamente il libero scambio protegge le relazioni internazionali, portando i Paesi a limitare eventuali conflitti con i propri partner commerciali.

Gli accordi di libero scambio

Il libero scambio nasce dove possibile concertare accordi puntuali specifici. Oltre alla Convenzione AELS e all’accordo di libero scambio con l’Unione europea (UE), la Svizzera dispone di una rete di 32 accordi di libero scambio con 42 partner. Tali accordi sono di solito conclusi nell’ambito dell’Associazione europea di libero scambio (AELS); la Svizzera può però stipulare accordi di libero scambio anche al di fuori dell’AELS, così com’è avvenuto con il Giappone e la Cina.
Un accordo di libero scambio (ALS) è un contratto tra due o più Stati atto a favorire il commercio internazionale tra questi. In questi accordi vendono siglati e determinati, con le parti, trattamenti preferenziali per ovviare a oggettive complessità nei rapporti commerciali esistenti tra i Paesi (una panoramica degli accordi di libero scambio della Svizzera è disponibile su www.seco.admin.ch).
I trattati dell’Organizzazione Mondale del Commercio (OMC) permettono tali accordi preferenziali solamente a certe condizioni.
L’accordo principale di libero scambio “prima generazione” regolamenta la circolazione delle merci (in particolar modo per l’abolizione o la diminuzione dei dazi doganali e altre restrizioni) e – in alcuni casi – disposizioni sulla protezione dei diritti di proprietà intellettuale. Nell’accordo viene regolato il commercio di prodotti industriali (capitolo HS 25-97), prodotti ittici e prodotti agricoli trasformati. Il commercio di prodotti agricoli di base è oggetto di accordi agricoli bilaterali separati.
L’accordo di “seconda generazione” comporta un’intesa più ampia del basilare commercio delle merci e può elencare, per esempio, l’intesa sul commercio dei servizi, investimenti, concorrenza, appalti pubblici e anche sulle disposizioni sulla sostenibilità commerciale.

Il futuro accordo con il Mercosur
Nel 2019 gli Stati dell’AELS (fra cui la Svizzera) e quelli del Mercosur, ossia il mercato dell’America latina (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay), hanno concluso le negoziazioni per un futuro accordo di libero scambio. Ciò significa che quasi il 95% delle esportazioni svizzere verso i Paesi del Mercosur (260 milioni di consumatori) potranno essere esonerate dai diritti doganali. Gli accordi di libero scambio comportano un capitolo importante contenente delle disposizioni obbligatorie in materia di sviluppo sostenibile. I diritti della popolazione indigena sono parte integrante dell’accordo.

La diplomazia commerciale elvetica

Per sua natura, la Confederazione Svizzera è orientata ai mercati esteri e questi rapporti internazionali costituiscono uno degli obiettivi centrali della politica economica rossocrociata.
La Confederazione è cosciente dell’importanza della liberalizzazione del commercio mondiale e opera insieme all’OMC in favore del multilateralismo. Il nostro Paese persegue quindi il rafforzamento della sua rete di accordi al fine di garantire alle aziende elvetiche un mercato internazionale almeno equivalente a quello dove operano i principali concorrenti esteri.

Nel 2018, gli importatori e i consumatori svizzeri hanno risparmiato in totale 2,5 miliardi di franchi per dazi doganali grazie all’applicazione di accordi di libero scambio. Il tasso di utilizzo medio degli ALS è del 73% per le importazioni in Svizzera. Il maggiore potenziale di risparmio sulle importazioni riguarda la plastica, il formaggio o la carta. Se si considerano i Paesi d’origine, i risparmi più importanti sono realizzati sulle importazioni provenienti dalla Germania, dall’Italia, dalla Francia, dalla Cina e dall’Austria. Per quanto concerne le esportazioni, gli autori dello studio hanno potuto esaminare gli scambi con alcuni Paesi con i quali la Svizzera ha concluso un ALS. Per Paesi come l’UE, la Cina, il Giappone, il Canada e il Messico, il tasso di utilizzo è stato nel 2018 dell’80%. Espresso in franchi svizzeri, ciò rappresenta un risparmio annuo in dazi doganali di 1,8 miliardi di franchi. In materia di esportazioni, sono gli orologi, le macchine e i metalli preziosi che permettono i maggiori risparmi. I dati mostrano chiaramente che le imprese svizzere utilizzano già molto spesso i vantaggi offerti dagli accordi di libero scambio. Un potenziale di risparmio ancora non sfruttato è identificato principalmente dal lato delle importazioni provenienti dalla Cina e dalla Germania.

La rete degli accordi di libero scambio della Svizzera

Fonte foto: Segreteria di Stato dell’economia – SECO

La reticenza della società civile

Malgrado l’importanza per le nostre aziende esportatrici, gli accordi di libero scambio non sono ancora ben visti. Alcune persone associano gli accordi di libero scambio a un consumismo eccessivo, mettendone in discussione i reali effettivi benefici.
La Svizzera si batte per affiancare alla ricerca di crescita ed espansione con le esigenze di uno sviluppo sostenibile. Sistematicamente la Confederazione include nei propri accordi di libero scambio delle disposizioni giuridiche per salvaguardare sia l’ambiente che i lavoratori. Queste disposizioni vengono applicate a tutti i settori compresi nell’ALS, tenendo conto anche della produzione agroalimentare, intendendo concretizzare gli impegni di tutte le parti nel segno dello sviluppo sostenibile coordinato dalle Nazioni Unite. Gli accordi di libero scambio attuali contengono, di conseguenza, anche gli aspetti sociali e ambientali legati al commercio.
È fondamentale che gli Stati si adoperino in favore della socialità e dell’ecologia.

Questa sensibilità mirata e attenta dovrà continuare ad essere chiara. L’approccio liberale e pragmatico della Confederazione merita di essere sostenuto.
L’accordo con l’Indonesia è stato quindi approvato dai cittadini svizzeri con una maggioranza del 51,6% nella votazione del 7 marzo 2021.

L’accordo commerciale con l’Indonesia
L’accordo di libero scambio con l’Indonesia riduce notevolmente gli elevati dazi all’importazione che colpiscono gli esportatori elvetici, rafforza la protezione della proprietà intellettuale, elimina gli ostacoli tecnici al commercio e accresce la sicurezza degli investimenti. Il 98% dei dazi all’importazione riscossi attualmente saranno completamente aboliti per gli esportatori svizzeri. Occorre sottolineare come l’accordo con l’Indonesia non introduca il libero scambio per l’olio di palma; le concessioni doganali accordate a questo prodotto sono legate a delle esigenze in materia di sostenibilità. Il testo include invece disposizioni sull’ambiente e sulle normative legate al commercio, come pure ai diritti umani.


Fonte del testo: Plein Centre, gennaio 2021

Riaperture con sistema, lo richiede l’economia

Nel quadro della breve consultazione dei cantoni aperta la scorsa settimana dal Consiglio federale sulle misure concernenti la gestione della pandemia da COVID-19, la Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del cantone Ticino (Cc-Ti) ha preso posizione attraverso le associazioni economiche di riferimento nazionali. La Cc-Ti ha, in sostanza, valutato positivamente il fatto che vi sia una strategia di apertura legata alla valutazione del rischio. Tuttavia, occorre maggiore chiarezza sui parametri utilizzati e tale analisi va svolta non con cadenza mensile ma piu breve. Rilevanti a nostro avviso sono le cifre riguardanti le ospedalizzazioni, il tasso di occupazione nei letti dei reparti di terapia intensiva, l’incidenza sui 7 giorni, il tasso di positività e i luoghi di contagio.

Per la valutazione del rischio è indispensabile seguire la logica della protezione mirata, cioè della protezione delle persone più fragili.
Decisivo è applicare in modo coordinato tutto il pacchetto di misure, cioè i vaccini, i test (compresi quelli salivari che andrebbero usati in maniera più massiccia), il Contact Tracing (che va decisamente migliorato) e le misure di protezione (mascherina, lavaggio delle mani, distanze).
Si chiedono inoltre aperture più ampie di quelle prospettate, già dal 1° marzo 2021 o comunque al più tardi il 22 marzo 2021, come chiesto dal Consiglio di Stato e da diverse associazioni di categoria. Da mesi insistiamo sul fatto che le attività che possono essere esercitate in sicurezza e qui lo ribadiamo. Riteniamo positivo che anche il Consiglio di Stato stia iniziando a sposare questa linea.Infine, le regole sui casi di rigore vanno meglio precisate, ad esempio per quanto concerne le chiusure parziali ordinate dalle autorità, che devono essere considerate equivalenti a chiusure totali.


Qui di seguito, nel dettaglio, quanto formulato dalla Cc-Ti:

  • Strategia di apertura legata alla valutazione del rischio: la nostra valutazione è positiva, anche perché sono stati elencati in modo chiaro i parametri che si intendono utilizzare per valutare il rischio. Sulla fondatezza di alcuni di questi parametri esprimiamo comunque qualche dubbio, perché non sembra che tutti i dati raccolti siano affidabili e completi, come del resto dichiarato anche dalla task-force nazionale nella conferenza stampa del 16 febbraio scorso. In taluni casi si parla di valutazioni, simulazioni e proiezioni, ma sembrano mancare dati certi e affidabili. Esortiamo pertanto l’Autorità Federale a una grande attenzione su questi punti, perché la decisione su chiusure molto rigorose e dalle conseguenze economiche e sociali enormi deve essere basata su dati assolutamente fondati.

Inoltre, una valutazione a scadenza mensile è troppo dilatata nel tempo. Riteniamo che sia possibile avere indicazioni utilizzabili in un termine di due o massimo tre settimane.

In generale comunque ribadiamo che il principio di una strategia di aperture basta sulla valutazione dei rischi è corretta.

E’ importante che la logica della protezione mirata seguita a suo tempo dal Consiglio federale e approvata dal Parlamento sia applicata in maniera sistematica. E’ infatti il complesso delle misure che interrompe le catene di contagio, cioè i vaccini, i test (compresi quelli salivari che andrebbero usati in maniera più massiccia), il Contact Tracing (che va decisamente migliorato) e le misure di protezione (mascherina, lavaggio delle mani, distanze).

La logica della protezione mirata si concentra su persone particolarmente a rischio e permette un allentamento delle misure più rapido e ampio. La strategia di apertura proposta dal Consiglio federale non tiene sufficientemente conto di questo aspetto, poiché riconduce il rischio solo alla situazione epidemiologica e trascura l’impatto delle misure per contrastare tale situazione. Con la logica della protezione mirata è possibile differenziare la valutazione del rischio e quindi di adattare anche la strategia di apertura al rischio globale.

  • Valutazione del rischio: come detto sopra, il Consiglio federale ha annunciato di voler giudicare il rischio sulla base di più indicatori, nessuno dei quali sarebbe esclusivo e che non sarebbero cumulativi. Il principio di avere più indicatori è corretto. Il rischio è però che non vi sia chiarezza su quali indicatori siano utilizzati per le decisioni prese di volta in volta. Proponiamo pertanto che si tenga conto delle cifre riguardanti le ospedalizzazioni, il tasso di occupazione nei letti dei reparti di terapia intensiva, l’incidenza sui 7 giorni, il tasso di positività e i luoghi di contagio.
  • Prime aperture a partire dal 1°marzo 2021: concordiamo sulle riaperture dei negozi e su alcuni allentamenti per la vita sociale. Va da sé che tutte le attività legate al commercio e simili, consulenze, visite, ecc., possono essere aperte e le limitazioni degli orari di apertura e dell’assortimento vengono a cadere. È fuori discussione che restano in vigore e vanno applicati i piani e le misure di protezione nel commercio e per le manifestazioni.
  • Seconda tappa di apertura: non riteniamo invece appropriato quanto previsto dal Consiglio federale per una seconda tappa di aperture e allentamenti. E’ un piano esitante e che non tiene conto della logica della protezione mirata. Per questo impedisce di avere visioni quanto a una possibile normalizzazione e penalizza pesantemente le attività ancora chiuse (ristoranti, fitness ecc.) che si trovano nell’impossibilità di pianificare un’uscita da una crisi che ormai è strutturale. Riteniamo che, con le misure di protezione attuali e già attuate negli scorsi mesi, le attività ora chiuse possano riprendere il 1° marzo 2021.

O comunque non più tardi del 22 marzo 2021, come chiesto dal Consiglio di Stato ticinese e, ad esempio, dall’associazione di categoria dei ristoratori, giustamente preoccupati anche in vista del periodo pasquale che, evoluzione sanitaria permettendo, deve poter essere pianificato anche per evitare eccessivi assembramenti improvvisi e difficilmente controllabili.

Va tra l’altro ricordato che le aziende non si aprono e si chiudono premendo un bottone, ma necessitano di tempo per organizzarsi.

  • Casi di rigore: riteniamo indispensabile e urgente l’applicazione delle misure per casi di rigore secondo la volontà del legislatore e l’ordinanza della Confederazione. Questo vale in particolare per le chiusure di aziende ordinate dalle Autorità. Ad esempio, la chiusura parziale deve essere considerata come chiusura totale e l’indennizzo per la cifra d’affari va adattato di conseguenza. Si tratta di una misura urgente, perché i fallimenti non attendono gli indennizzi.

Vanno considerate anche le aziende create dopo il 1° marzo 2020, perché la loro esclusione forfettaria non è giustificata.

Per ristabilire la proporzionalità nel contesto della gestione della pandemia e per dare una prospettiva alla Svizzera, riteniamo importante che vengano riprese le misure proposte dalle associazioni di riferimento nazionali, cioè:

  • Da subito: l’allentamento del lockdown con aperture laddove si possono sfruttare spazi all’aperto, come le terrazze. L’apertura degli spazi commerciali, gestita con le misure di protezione note, compresi i showroom, con la possibilità di acquisti su appuntamento e vendita all’esterno, così come le manifestazioni fino a 50 persone.
  • Dal 1° marzo 2021: la fine del lockdown con l’apertura completa del commercio al dettaglio e di attività economiche simili, così come i ristoranti, i centri fitness e le manifestazioni sino a 100 persone.

Per le manifestazioni sportive, culturali ecc., vanno valutati anche determinati tentativi di apertura, come sta attualmente studiando la Francia che organizzerà a breve alcuni concerti di prova, con la collaborazione e la supervisione delle Autorità sanitarie. Con test all’entrata, contact tracing e test post-evento, per capire in che misura vi siano rischi accresciuti e contagi effettivi.

Chiediamo che le Autorità elvetiche prestino attenzione a questi esperimenti, che potrebbero dare indicazioni molto interessanti.

Riteniamo comunque che siano già date le condizioni per valutare l’apertura al pubblico di eventi sportivi e culturali che disponevano a suo tempo di misure di protezione efficaci, nella misura di 1/3 dei posti fissi seduti.

Il telelavoro deve tornare a essere consigliato e non obbligatorio.

  • Entro giugno 2021: conclusione del programma completo di vaccinazione della Confederazione, il che comporta un’intensificazione mirata della campagna di vaccinazione.
  • Sempre e in parallelo a queste misure: l’estensione dei test e l’intensificazione e la digitalizzazione del Contact Tracing, per interrompere le catene di contagio, il che corrisponde alla strategia della protezione mirata.

Sempre e in parallelo a queste misure: l’elaborazione di un chiaro e trasparente «Dashboard» nazionale che permetta una gestione pianificabile della pandemia. Gli indicatori dovrebbero essere i dati sulle ospedalizzazioni, sull’occupazione di letti in terapia intensiva, quelli dell’incidenza sui 7 giorni, il tasso di positività e i luoghi di contagio.

UNA chiusura, TANTE chiusure

La mancata attività di un settore trascina inevitabilmente con sé centinaia di realtà, microimprese e piccole aziende, spesso a conduzione famigliare, che di fatto stanno perdendo una fetta del loro mercato più importante e che non sanno più come fare quadrare i conti.

© ISTOCKPHOTO.COM/ANDRII YALANSKYI

Solo poche settimane fa l’Interprofessione della Vite e del Vino aveva lanciato un SOS a nome di tutta la filiera dell’agroalimentare: allevatori, contadini, alpigiani, panettieri, macellai e tante altre categorie produttive che, anche se non toccate direttamente dal semi-confinamento, sono in sofferenza per la prolungata chiusura dei loro clienti abituali (ristoranti, bar, banchettistica, eventistica, ecc.). In crisi c’è tutta una filiera dimensionata direttamente sul territorio che assicura peraltro anche buoni sbocchi occupazionali nelle valli e nelle zone rurali. Un settore che, abbinato al turismo, rappresenta il marchio dell’identità territoriale, con un potenziale di crescita notevole, tant’è che sin dal 2008 è stato inserito nei Programmi di attuazione della politica regionale del Cantone. L’agroalimentare è, per esempio, una componente strategica di un’altra filiera fondamentale per l’economia, quella dell’industria delle vacanze: hotel, garni, campeggi, B&B, ristorazione, bar, negozi, musei, ritrovi, offerta culturale e d’intrattenimento, servizi per il tempo libero, trasporti e agenzie di viaggio, sono gli anelli della catena del turismo che rappresenta una delle più importanti voci del PIL cantonale. Molti albergatori in questi mesi si sono ritrovati col deserto attorno e, fatti quattro conti, hanno deciso, ragionevolmente, di chiudere temporaneamente per evitare il totale fallimento. Se si pensa che su un buon albergo gravitano in media 300 attività indotte, tra fornitori e servizi esterni che sono pure rimasti con le mani in mano, si può immaginare quanto possano essere ingenti le perdite per tutti.

La chiusura di bar e ristoranti, fermi ormai dalla fine del novembre scorso, si ripercuote su tutto un tessuto economico e sociale, poiché il modello della filiera presuppone per sua natura l’interazione e la sinergia tra una molteplicità di operatori, con benefici e vantaggi reciproci. Se la serrata degli esercizi pubblici dovesse protrarsi, compromettendo con la Pasqua anche l’avvio della nuova stagione turistica, le conseguenze sarebbero catastrofiche. Avevamo già citato anche alcune cifre significative dell’importanza anche dei club sportivi
per l’economia cantonale, osservando i numeri dell’hockey su ghiaccio e calcio della stagione 2018-2019: 66 milioni di franchi di cifra d’affari, 440 collaboratori sotto contratto (indeterminato o determinato), 350 collaboratori esterni, 1’200 fornitori esterni, 402’000 spettatori paganti, oltre 1’700 ragazzi e ragazze dei settori giovanili in formazione. L’azienda “sport in Ticino” si è dimostrata strettamente legata e correlata al nostro territorio e ogni limitazione anche in questo campo ha ripercussioni fortissime sui diretti collaboratori ma anche su centinaia di fornitori. Abbiamo la fortuna di avere un tessuto economico diversificato, per cui spesso le difficoltà di un settore sono compensate da altri. Ricordiamo, ad esempio, che durante il lockdown primaverile l’industria fortunatamente aveva potuto continuare a lavorare, seppure a ritmi ridotti, in tutta sicurezza, rivelandosi fondamentale per il mantenimento di un sostenibile andamento economico generale. Ma, nel caso concreto, se non si riuscirà a far continuare a funzionare il sistema economico con troppe limitazioni, non si potranno più limitare i danni. È ovvio che in un meccanismo complesso e interconnesso come quello economico, ogni piccolo ingranaggio che si blocca ha conseguenze su molti altri. Vale per tutti i settori, nessuno escluso.

L’emergenza sanitaria ha innescato, parallelamente, un’emergenza economica e sociale, la cui portata reale non è ancora ben definita, ma che certamente avrà un notevole impatto anche negli anni a venire. Quando per di più ci troveremo confrontati anche con le profonde trasformazioni strutturali generate dall’accelerazione digitale. Tutta l’economia sta subendo pericolosi scompensi. La liquidità delle aziende è andata prosciugandosi, riducendo così anche le possibilità d’investimento e d’innovazione, mentre sulle filiere produttive locali, nazionali e internazionali pesano i ripetuti lockdown, la contrazione dei mercati di riferimento e il crollo della produzione a livello mondiale. Pensiamo, ad esempio, agli investimenti, fondamentali per rimanere competitivi e quindi anche assicurare l’occupazione. È un peccato perché le aziende ticinesi, negli scorsi anni, avevano dimostrato una grande propensione agli investimenti, spesso superiore alla media degli altri cantoni. Ma in queste condizioni diventa, oggettivamente, molto difficile.

I lockdown destabilizzano le catene globali

A soffrire sono anche tante imprese direttamente orientate sull’export o che lavorano da terziste per grandi gruppi attivi sul mercato nazionale o mondiale. Un comparto che negli ultimi decenni ha conosciuto una notevole espansione grazie alla progressiva internazionalizzazione del nostro sistema produttivo. Ma gli stop and go che, tra confinamenti totali o parziali, stanno facendo sussultare l’economia in tutti i Paesi avanzati e la crisi dei mercati, hanno destabilizzato le filiere produttive nazionali e globali.
L’industria orologeria ticinese, ad esempio, con una trentina di aziende e circa 3000 addetti, è una “multinazionale tascabile” distribuita sul territorio che produce tutte le parti necessarie alla fabbricazione degli orologi. Ogni anno assembla milioni di pezzi (oltre il 30% della produzione nazionale) per un valore che supera i 450 milioni di franchi, esportando in Europa, Asia, India, Medio Oriente e Usa. Nonostante gli aiuti della Confederazione (crediti COVID e lavoro ridotto), alcune aziende sono state costrette a chiudere. Altre hanno dovuto licenziare. Tutte lottano per sopravvivere stringendo i denti, risucchiate nel crollo dell’orologiera svizzera che nel 2020 ha registrato un calo delle esportazioni di quasi il 22% e la perdita di oltre 1500 posti di lavoro. Ha resistito, più meno bene, solo qualche casa prestigiosa, mentre la Swatch, il simbolo stesso del rilancio e dell’innovazione dell’orologeria elvetica che raggruppa ben 18 marchi, con 36mila dipendenti in tutto il mondo, a causa della chiusura dei negozi, le restrizioni nei viaggi e la paralisi del turismo, ha subito una perdita di 53 milioni di franchi. Precipitando nelle cifre rosse per la prima volta da quasi 40 anni.
Non meno difficile è la situazione per molte imprese del cantone che lavorano per conto terzi in alcune filiere globali: nel settore tessile per le grandi griffe della moda, nella metalmeccanica e meccanica di precisione per l’aeronautica o l’automotive che ha già visto in Ticino la chiusura della sede di un’importante industria nazionale a seguito della crisi che ha investito il mercato automobilistico. Il settore automotive è un modello illuminante delle filiere produttive globali che attraversano il mondo intero. In ogni auto confluisce, infatti, il lavoro delle maestranze, dei centri di ricerca e di progettazione di una quindicina di Paesi diversi. Una grande rete transcontinentale nella quale anche il nostro piccolo Cantone gioca la sua parte fornendo diverse componenti.

Dovremmo sempre tenere a mente che i numeri sono solo una semplificazione della realtà

In Svizzera lo scorso gennaio, secondo le stime dell’Ufficio federale di statistica, erano quasi 445mila i lavoratori (l’8,5% di tutti gli occupati) coinvolti nelle chiusure o nelle restrizioni alle attività economiche imposte dal Consiglio federale per contrastare la pandemia. Limitazioni che hanno interessato ben 83’056 imprese (il 12% del totale delle aziende). In Ticino queste misure hanno colpito 21’433 lavoratori (il 9,1% del totale) e 4’701 aziende. Nell’aprile del 2020 col lockdown della prima ondata pandemica erano rimaste ferme in tutta la Confederazione più di mezzo milione di persone. Da un confinamento all’altro, c’è un volume immane di lavoro, di attività, di produzione di ricchezza e di opportunità di crescita sottratto al Paese, con un rallentamento generale di tutto il sistema economico. Un malessere, anche sociale, sempre più diffuso che solo da poco in Svizzera si sta cominciando ad indagare con i primi studi scientifici.

L’economia non cerca compassione, ma certamente rispetto.


Evidente, dunque, che quando si parla di salute è assai riduttivo fermarsi solo al rischio del contagio del coronavirus. I prossimi mesi metteranno ancora a dura prova la realtà del nostro Paese. Quanto faticosamente raggiunto e assicurato nei tanti mesi di pandemia già trascorsi rischia di essere nuovamente messo in discussione. Il mondo intero si muove intorno a noi con misure e modalità nuove e non sempre facilmente sostenibili per le aziende più piccole. Abbiamo imparato a reinventarci, a lavorare duramente per mantenere gli accordi e la qualità che ci rappresentano da sempre, stiamo costruendo una nuova realtà nell’interesse di tutti i settori per restare concorrenziali e presenti sui mercati.
Eppure, c’è chi vorrebbe incartare il dibattito pubblico nello scontro tra i cosiddetti rigoristi che insistono per prolungare, se non per inasprire del tutto, le attuali restrizioni per il timore di una terza ondata pandemica e chi invece chiede la riapertura per scongiurare il pericolo di una catastrofe economica e sociale. Restando così sempre incagliati nell’ingannevole dilemma se valgono di più le ragioni della salute o quelle dell’economia.

La Cc-Ti sostiene, da sempre, che si può e si deve, trovare invece un ragionevole punto di equilibrio avvalorando una discussione costruttiva su come pianificare una graduale riapertura, intensificando la campagna di vaccinazione e mantenendo ovunque le fondamentali misure di protezione individuale. Ma altrettanto urgente è aprire un dibattito su come affrontare il dopo pandemia che rappresenta una sfida non meno cruciale. Si parla anche di possibile effetto rimbalzo, cioè una forte crescita dei consumi quando la situazione sul fronte della salute si calmerà. Pensiamo sia più un auspicio che una certezza.
Il vaccino non sarà comunque la panacea di ogni male, purtroppo. Le persone e le aziende saranno ancora, per tanto tempo, chiamate a fare la differenza. E il comportamento individuale di tutti farà ancora la differenza. Non viene menzionata la grande responsabilità individuale che non accetta limiti personali, ma pretende limiti sugli altri. Troppo spesso non si comprende che, chiudendo il cerchio, ogni limite sarà un caro prezzo da pagare per tutti.
La Cc-Ti continua a battersi per promuovere il dialogo tra le parti sociali e il mondo politico a favore della crescita del Paese, tenendo conto delle componenti sanitarie, sociale ed economiche. Non siamo irresponsabili, come qualcuno vuol far credere.

Coronavirus e allentamenti: occorre più responsabilità individuale

Presa di posizione dell’economia svizzera con proposte concrete in merito alle possibilità di riaperture.

Le associazioni mantello dell’economia economiesuisse e l’Unione svizzera degli imprenditori, così come numerose Camere di commercio e associazioni industriali, chiedono al Consiglio federale un cambio di paradigma: invece di combattere la pandemia di coronavirus con divieti rigidi e talvolta arbitrari, il Consiglio federale dovrebbe in futuro prendere le sue decisioni sulla base di principi e in funzione del livello di copertura vaccinale della popolazione. Più la gente è immune al virus, più le libertà economiche e personali possono e devono essere nuovamente concesse. A giocare un ruolo centrale è la responsabilità individuale.

Le associazioni mantello dell’economia economiesuisse e l’Unione svizzera degli imprenditori, così come numerose Camere di commercio e associazioni industriali, chiedono al Consiglio federale un cambio di paradigma: invece di combattere la pandemia di coronavirus con divieti rigidi e talvolta arbitrari, il Consiglio federale dovrebbe in futuro prendere le sue decisioni sulla base di principi e in funzione del livello di copertura vaccinale della popolazione. Più la gente è immune al virus, più le libertà economiche e personali possono e devono essere nuovamente concesse. A giocare un ruolo centrale è la responsabilità individuale.

Nella lotta contro la pandemia di coronavirus, sono ora necessarie decisioni basate su pochi principi comprensibili e sempre più sulla responsabilità individuale. Le associazioni mantello dell’economia, economiesuisse e l’Unione svizzera degli imprenditori, nonché le Camere di commercio cantonali e un gran numero di associazioni di categoria chiedono al Consiglio federale un piano d’azione in quattro fasi:

Fase 1: a partire da inizio marzo

La situazione epidemiologica è nettamente migliorata in queste ultime settimane. Le prime misure di allentamento dovrebbero dunque entrare in vigore il 1° marzo. Concretamente, bisognerebbe allentare le restrizioni concernenti le attività a debole rischio di contagio, vale a dire la maggioranza delle attività all’aria aperta, quali ad esempio il pattinaggio, il ciclismo o l’escursionismo. La limitazione del numero di persone a 5 per le riunioni in spazi pubblici dovrebbe essere allentata o addirittura soppressa. Anche i ristoranti dovrebbero essere autorizzati ad aprire i loro spazi esterni. Inoltre, le attività dovrebbero essere permesse di nuovo dove ci sono concetti di protezione sperimentati e dove le mascherine vengono indossate per tutto il tempo. Di conseguenza, i negozi dovrebbero essere aperti anche per i beni non di prima necessità già dal 1° marzo. E infine l’obbligo dell’homeoffice dovrebbe essere trasformato in una raccomandazione. È importante che le capacità dei test siano ulteriormente aumentate. Allo stesso modo dev’essere mantenuto in ogni momento un sistema funzionante di contact tracing.

Fase 2: i gruppi a rischio sono vaccinati

Una volta che i gruppi a rischio saranno stati vaccinati, s’imporranno ulteriori allentamenti: i ristoranti, i cinema o le strutture per il benessere dovrebbero poter riaprire con concetti di protezione appropriati. Tutte le attività sportive e gli assembramenti all’aperto devono nuovamente essere possibili senza restrizioni. La raccomandazione relativa all’homeoffice dev’essere allentata, ad esempio dividendo la forza lavoro in gruppi. Infine, presso le università deve riprendere l’insegnamento in presenza. In questa fase, si può e si deve dare maggior peso alla responsabilità individuale, poiché la popolazione conosce bene le potenziali conseguenze negative a lungo termine di un contagio da coronavirus. La National COVID-19 Science Task Force parte dal presupposto che in caso di una rapida diffusione del virus, molte persone limiterebbero le loro attività in modo indipendente a causa degli alti rischi per la salute. I test devono continuare ad essere eseguiti in modo che gli individui asintomatici siano individuati in una fase iniziale. La responsabilità individuale significa anche che i test sono diffusi nelle scuole, nelle imprese o nelle istituzioni sociali e che la popolazione continua ad essere testata rapidamente quando vi sono casi sospetti.

Fase 3: vaccini disponibili per tutti

Se ogni persona che lo desidera può essere vaccinata immediatamente, il rischio di un sovraccarico degli ospedali è poco probabile. Lo Stato non può più imporre restrizioni alle libertà economiche e per-sonali di queste persone. Di conseguenza, si potrebbero organizzare eventi di ogni tipo senza concetti di protezione se tutti i visitatori e gli operatori fossero vaccinati. Fiere, congressi, grandi eventi come l’hockey su ghiaccio, il calcio o i concerti rock, ma anche bar, discoteche e locali notturni devono essere ammessi a queste condizioni.

Fase 4: immunità di gregge

Non appena sarà raggiunta l’immunità di gregge, cioè quando il 60-80% della popolazione è stata vaccinata, tutte le restanti restrizioni devono essere eliminate: le imprese non dovranno più implementare piani di protezione e non sarà nemmeno necessario indossare mascherine. Ma i test continueranno ad essere eseguiti per rilevare eventuali mutazioni e per evitare un nuovo picco epidemico. Al contempo, le capacità di contact tracing e di vaccini efficaci devono essere disponibili in ogni momento. La Confederazione deve avere una chiara strategia sulla propria azione in caso di nuove ondate causate dalle varianti nonostante la copertura vaccinale.

Adattare la gestione della crisi

Infine, la Confederazione deve anche migliorare la sua gestione delle crisi il più rapidamente possibile. Le organizzazioni di crisi esistenti, come l’esercito o la difesa civile, devono essere in grado di fornire il supporto necessario, sia nei test di massa che nella vaccinazione rapida di grandi gruppi di popolazione.

La Svizzera deve ora creare rapidamente un certificato di vaccinazione sicuro. Le persone che sono state vaccinate dovrebbero essere in grado di dimostrarlo in modo inequivocabile. Questo richiede un certificato di vaccinazione riconosciuto a livello internazionale, digitale e non falsificabile.


Comunicato originale sul sito dell’Unione Svizzera degli Imprenditori

Identità elettronica: legge sull’e-ID

Avendo avuto successo il referendum, la popolazione svizzera dovrà votare, il 7 marzo 2021, la legge federale sui servizi di identificazione elettronica (LSIE), ovvero il quadro giuridico relativo all’identità elettronica, o e-ID.

La sua definizione

L’e-ID è sostanzialmente un login riconosciuto a livello statale che consente l’identificazione univoca di una persona su Internet. Questo strumento permette, ad esempio, di accertare in modo sicuro che la persona XY è effettivamente colei che dichiara di essere. L’identità elettronica (e-ID) è un’identità digitale verificata dallo Stato che garantisce l’accesso sicuro ad autorità, banche, negozi e persino agli affari politici. L’e-ID rende possibile anche la sottoscrizione di contratti.

A detta dell’Incaricato federale della protezione dei dati Adrian Lobsiger, “oggi ciascuna banca, società e amministrazione che deve ricorrere a un login affidabile ha bisogno di una soluzione specifica. L’e-ID consente invece una standardizzazione legale per la sicurezza tecnica e la protezione dei dati.” L’e-ID non è obbligatoria. Per ottenerla occorre richiederla a uno dei fornitori riconosciuti dalla Confederazione.

Una soluzione win-win

Molti prodotti e servizi si possono acquistare in Internet soltanto con una registrazione online. L’utente desidera effettuare la registrazione nel modo più semplice possibile, mentre il fornitore di un prodotto o di un servizio vuole sapere con certezza chi si registra.

Lo Stato soddisfa entrambe queste due esigenze fissando nella nuova legge regole chiare e rigorose per una procedura di identificazione semplice ma sicura e affidabile sia per gli utenti che per i fornitori. Lo Stato esercita dunque la sua funzione classica: emana regole giuridiche chiare e rigorose e ne sorveglia l’applicazione dal principio alla fine.

A tale scopo inoltre istituisce due nuovi organi:

  • il Servizio delle identità presso l’Ufficio federale di polizia (fedpol) che, prima del rilascio di un’Ie, verifica la correttezza dei dati personali.
  • la Commissione federale delle Ie (COMIe) che riconosce i fornitori e i loro sistemi e veglia sul rispetto della legge e richiedente e dia il nullaosta per il rilascio dell’Ie.

La nuova legge impone a tutti i soggetti coinvolti obblighi rigorosi in merito alla protezione dei dati utilizzati per l’identificazione elettronica. I dati non possono essere impiegati per altri scopi, il che significa che i fornitori di servizi d’identificazione elettronica non possono comunicarli a terzi. L’Incaricato federale della protezione dei dati e della trasparenza ha un ruolo attivo nell’attuazione della legge. Nel complesso, le disposizioni sulla protezione dei dati previste dalla LSIe sono più severe rispetto agli standard usuali in materia. La soluzione prevista dalla LSIe riduce l’onere amministrativo e quindi la burocrazia, il che è di importanza centrale per l’evoluzione dei settori dell’e-commerce e dell’e-government. La legge svolge dunque un ruolo chiave per il futuro della digitalizzazione.

Sono solo gli utenti a decidere in merito ai propri dati

L’e-ID ha carattere del tutto volontario. Se una persona desidera un login riconosciuto a livello statale, ovvero una e-ID, presenta una richiesta in tale senso presso un IdP certificato, il quale inoltra tale domanda allo Stato. Quest’ultimo verifica se la persona ha effettivamente presentato la richiesta ed è d’accordo con le relative condizioni, e provvede poi a inoltrare all’IdP soltanto i dati strettamente necessari per l’identificazione della persona. In questo modo il soggetto in questione rimane assolutamente padrone dei propri dati.
Tale garanzia viene fornita anche in seguito per gli/le utenti di un’e-ID. In occasione dell’impiego di un’e-ID si verifica uno scambio di dati soltanto se l’utente fornisce la propria espressa autorizzazione a riguardo. Sono trasmessi soltanto i dati necessari per lo scopo previsto (ad es. per la protezione della gioventù). Se ad esempio un’e-ID è utilizzata per la verifica dell’età necessaria per l’accesso a un casinò online, non viene comunicata l’età esatta (ad es. 30 anni), bensì viene soltanto confermato che la persona è maggiorenne.
Questo significa che gli IdP non hanno libero accesso ai registri statali. Questi ultimi possono essere consultati soltanto in occasione dell’emissione dell’e-ID presso lo Stato, e ciò a sua volta avviene soltanto previo assenso della persona interessata.
Per contro nella fase di utilizzo dell’e-ID non sono coinvolte entità statali, alle quali non vengono infatti trasmesse informazioni di sorta circa l’impiego dell’e-ID stessa. Lo Stato, quindi, non vede per quali finalità viene utilizzata l’e-ID. Questo scenario è esplicitamente escluso nella ripartizione dei compiti tra Stato e privati prevista nella LSIe, in quanto i dati non vengono conservati e amministrati in modo centralizzato presso una delle parti.

Per riassumere sull’e-ID

Si tratta di una soluzione prettamente svizzera, che evita il ricorso a servizi di identificazione di gruppi tecnologici stranieri: l’identità elettronica verificata e sicura sostituisce password e login. Consente di svolgere operazioni ufficiali, di stipulare contratti ed eseguire verifiche dell’età senza perdere tempo a stampare, fotocopiare e scannerizzare documenti. La protezione dei dati inoltre è regolamentata: tutti i dati devono essere salvati in Svizzera in conformità al diritto svizzero.
I titolari dell’e-ID stabiliscono chi è autorizzato a visualizzare ciascuna tipologia di dati. L’e-ID assicura maggiore controllo e trasparenza e offre protezione contro l’usurpazione d’identità.

La protezione dei dati

Le disposizioni sulla protezione dei dati relative all’e-ID sono più severe del solito. È vietato l’utilizzo dei dati per qualsiasi altro scopo. I fornitori dell’e-ID non possono trasmettere i dati a terzi. Chi utilizza l’e-ID può accedere online ai propri dati e stabilire personalmente le autorizzazioni per la condivisione dei dati. Inoltre, tutti i dati devono essere salvati in Svizzera.


La Cc-Ti raccomanda di votare SÌ il prossimo 7 marzo.

Fonte:
www.admin.ch
www.swissbanking.org/it/temi/digitalizzazione/identita-elettronica-eid
www.ejpd.admin.ch/ejpd/it/home/temi/abstimmungen/bgeid.html

Dal 1° marzo occorre riaprire!

In data odierna l’Unione Svizzera delle Arti e Mestieri (USAM) ha presentato una strategia e una chiara richiesta di riapertura delle attività economiche per il prossimo 1° marzo. In sostanza, il rispetto delle misure di protezione (distanze, mascherina, igiene delle mani), sommato al contact tracing, ai test a tappeto e alle vaccinazioni, dovrebbe permettere di porre fine alle limitazioni attuali. La Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del Canton Ticino, quale associazione mantello dell’economia ticinese e, al contempo, sezione ticinese dell’USAM, sostiene senza riserve tale richiesta.

In questo anno di crisi pandemica le aziende hanno dimostrato alto senso di responsabilità, rispettando le istruzioni delle Autorità e predisponendo le misure di protezione richieste, investendo anche molti soldi. Malgrado questo vi sono state chiusure inspiegabili e contraddittorie. È evidente che le misure di gestione della crisi sanitaria vanno decise sulla base di fatti, non di tentativi. E i fatti indicano che, fortunatamente, la curva dei contagi è in calo, che attualmente le strutture sanitarie dispongono delle riserve necessarie, ma, al contempo, che purtroppo una chiusura prolungata ha creato, e sta creando, gravissimi danni economici. Questo non significa non tenere conto delle mutazioni del virus che attualmente preoccupano tutti noi, ma la chiusura ad oltranza non può più essere l’unica strategia.

Proprio per evitare di dover sopportare ulteriori conseguenze negative per i nostri posti di lavoro, per il nostro benessere, e, non in ultima analisi, per le nostre vite, a partire dallo scadere previsto il 1° marzo delle misure di chiusura attualmente in vigore, l’economia deve poter ripartire.

Non si intravvedono valide ragioni per non farlo, soprattutto laddove il rispetto delle misure di protezione è garantito. Premesso ovviamente che, come andiamo ripetendo da ormai un anno, la tutela della salute di tutti, compresi le lavoratrici e i lavoratori continua a rappresentare un obiettivo primario ed indiscusso.

Pensiamo pure alle pesanti conseguenze determinate dalle limitazioni, che tengono in ostaggio le giovani generazioni, impedendo loro di appropriarsi del loro futuro.

Come già ripetutamente sottolineato, nel settore lavorativo sono state da tempo introdotte efficaci regole comportamentali atte a evitare i contagi. Grazie a queste norme sappiamo che, in generale, sono piuttosto gli assembramenti incontrollati e i comportamenti individuali non conformi alle regole a essere problematici. Laddove esistono chiare ed efficaci istruzioni, non è pertanto opportuno mantenere divieti di attività.

In un momento in cui non è possibile dare certezze assolute, le aziende ticinesi hanno bisogno perlomeno di una prospettiva.

È pertanto indispensabile che il Consiglio federale dichiari già sin d’ora la riapertura per il prossimo 1° marzo delle attività che garantiscono il rispetto delle norme di sicurezza vigenti. L’attività economica necessita di una chiara visione e la riapertura va annunciata con un sufficiente anticipo per permettere alle nostre aziende di organizzarsi al meglio.

Ribadiamo che le aziende sono preparate, da tempo, a farsi trovare pronte con le opportune misure di protezione e, dove è il caso, aggiornate. Le imprese sono anche disponibili per avere un ruolo attivo in termini di vaccinazioni e di test a tappeto, qualora l’Autorità cantonale ritenesse opportuno il loro coinvolgimento come già avviene in parte in altri cantoni.

È però fondamentale che il Consiglio federale presenti, a più di un anno di distanza, una chiara visione per la ripartenza, nella quale l’attività economica non sia relegata in secondo piano, ma sia una componente essenziale, parallelamente alle puntuali valutazioni sanitarie, anche per le implicazioni sociali delle unità lavorative. Ulteriori chiusure non suffragate da fatti chiari non sono pertanto né accettabili né sostenibili. Attenzione a voler allungare la strada delle limitazioni, stiamo marciando con scarpe che già evidenziano segni di usura.

A, B e C

Riflessioni per la ricerca di un team ben concertato e vincente, per ottenere e guidare un’azienda di successo.

Steve Jobs, con le sue idee innovative e la sua straordinaria creatività, è stato il co-fondatore e poi CEO di Apple, e ha cambiato il mondo e non solo quello dell’elettronica di consumo. Egli ha diviso il personale di Apple in A, B e C perché credeva che un’azienda possa essere forte solo quanto il suo anello più debole.
Egli aveva introdotto il principio delle tipologie di collaboratori A, B e C, quindi aveva diviso i suoi dipendenti in diverse categorie al fine di eventualmente separarsi dagli anelli più deboli o dare loro occasione di miglioramento.

È assolutamente delicato e poco empatico categorizzare le persone, ma la differenziazione, in questa riflessione non si rivolge al valore personale, bensì alla ricerca di un team ben concertato e vincente.

Dipendente A

I collaboratori A si assumono le loro responsabilità. Sono le figure professionali sulle quali poter contare e assicurano all’azienda uno sviluppo positivo. Hanno un atteggiamento fondamentalmente positivo, sono motivati e sviluppano idee e strategie creative per far progredire il business. Sono essenziali per la sopravvivenza e in definitiva garantiscono il successo di un’attività commerciale.

Il collaboratore A, è il tipo di persona che devi trovare e assumere. “Difficile da trovare ma facile da supervisionare”. Sono personaggi che incoraggiano e motivano, agendo sempre per il bene dell’azienda. I “Re Mida” dell’impresa.
Il dipendente A riassume le qualità più edificanti per l’azienda:

  • È completamente concentrato e dedicato
  • Si assume la piena responsabilità
  • Mantiene ciò che promette nel tempo previsto
  • Informa in modo tempestivo riguardo eventuali cambiamenti nello sviluppo dell’incarico
  • Resta positivo e orientato alla ricerca di soluzioni
  • È assolutamente flessibile
  • Condivide i successi
  • Supera spesso gli obiettivi fissati
  • È al fianco del capo / dell’azienda con un atteggiamento protettivo e propositivo.

Ogni azienda dovrebbe quindi avere il maggior numero possibile di dipendenti A.

Dipendente B

I dipendenti B sono i classici “dalle 9.00 alle 17.00”, cioè arrivano alle 9:00 e lasciano la loro postazione alle 17:00. Solitamente svolgono il loro lavoro senza necessità di un controllo puntuale. Sono lavoratori che assumono i compiti loro affidati e li svolgono, punto. Si assumono poca o nessuna responsabilità. Limitano il loro impegno al tempo stretto definito per contratto, per esempio, tra le 9:00 e le 17:00. Se chiedi a un dipendente di B di rispondere a una richiesta di informazioni di un cliente che arriva poco prima delle 17.00, risponderà che darà seguito alla stesso “domani”.

Il dipendente B riassume le qualità di base per l’azienda:

  • Svolge il suo compito secondo le indicazioni fornite
  • Non prevede straordinari
  • Di solito commette pochi errori
  • Sfrutta mediamente le sue capacità
  • Propone pochi o nessun suggerimento
  • Non è né negativo né positivo, diremmo neutro

C’è una possibilità che i collaboratori B possano diventare collaboratori A se la composizione del team è adeguata. I dipendenti B hanno scarsi legami emotivi con l’azienda e svolgono il proprio lavoro solo sulla base delle istruzioni fornite loro. Questa categoria di dipendenti è inoltre caratterizzata da un assenteismo superiore alla media (diversi giorni all’anno) e da un tasso di fluttuazione più elevato.

Dipendente C

I dipendenti C sono motivo di preoccupazione in un’azienda. Sono responsabili della cattiva atmosfera e attraverso il loro comportamento contribuiscono in modo significativo al fallimento dei progetti, se non aziendale. Vedono sempre il bicchiere mezzo vuoto e sono inclini al pessimismo. Pertanto generalmente incolpano coloro che li circondano per i loro errori e fallimenti. La più grande fonte di demotivazione per i colleghi A sono i colleghi C.
C necessita normalmente del doppio del tempo per portare a termine il proprio compito.

Il dipendente C:

  • Lavora solo il minimo necessario
  • Parte e ha pregiudizi o giudizi negativi sull’attività e sull’azienda
  • È spesso malato
  • Contribuisce alla cattiva atmosfera e alla discordia
  • È costantemente alla ricerca di problemi
  • È sempre stressato e non ha mai tempo per fare il suo lavoro
  • Il lavoro che consegna è generalmente incompleto
  • Delega il proprio lavoro spesso e volentieri
  • Gironzola spesso senza meta per l’azienda, mimando grande occupazione
  • Esegue svogliatamente ciò che gli viene assegnato

Purtroppo esiste un solo modo per relazionarsi con i dipendenti C: o il cambio di atteggiamento avviene in modo rapidissimo o devono essere allontanati dall’azienda nello stesso rapidissimo tempo. Sono un danno.
I collaboratori C non considerano e non costruiscono alcun legame emotivo con il proprio lavoro o con l’azienda, loro sono già “licenziati internamente”.

La gestione delle diverse tipologie di collaboratori

Ora potete considerare queste tre categorie di collaboratori e provare a dare un riscontro reale nella vostra azienda.
Steve Jobs dava per scontato che ai colleghi A piacesse lavorare anche con colleghi A e che potessero lavorare bene anche con colleghi B.
D’altra parte, i colleghi A non potevano lavorare affatto con i colleghi C, essendo questi una fonte di demotivazione permanente. Inoltre, i dipendenti B potevano diventare dipendenti A con il tempo, purché collaborassero attivamente con i collaboratori A. Ma possiamo anche fare un passo in più in questo ragionamento. Proprio come il comportamento dei dipendenti A, anche il comportamento dei dipendenti C è “contagioso”. Ciò significa che se un’azienda ha pochi collaboratori A e, invece, diversi collaboratori B e C, si osserverà il seguente risultato: i collaboratori A lasceranno l’azienda perché impossibilitati a un rendimento consono alle loro capacità e aspettative. I collaboratori B e C resteranno in azienda. Il comportamento “distruttivo” dei collaboratori C influirà sui i collaboratori B, che livellano le loro prestazioni verso il basso. I collaboratori devono essere i tesori della vostra azienda. È necessario disporre di una formazione continua di qualità e buone condizioni sotto tutti i punti di vista: lavorativi, salute, ambiente e mentali. Sono le vostre “galline dalle uova d’oro”.
Inoltre, tenete presente che i collaboratori A renderanno anche il vostro lavoro di dirigente o responsabile più agevole e motivante.

Fondamentale è essere consapevoli del reale atteggiamento di un dipendente nei confronti dell’azienda. Utilizzando i seguenti criteri, è possibile intravvedere il gruppo a cui appartiene un collaboratore (la scala delle risposte potrà variare da molto buono a insoddisfacente). Il datore di lavoro e la persona risponderanno entrambi a queste domande. In questo modo le percezioni delle due parti potranno avere un valore completo.

Questi sono alcuni possibili criteri che potrebbero essere inclusi in un questionario comune:

  • Qual è il livello di esperienza?
  • Qual è l’interesse per la formazione continua?
  • Volontà di assumere delle responsabilità?
  • Quale orientamento verso la ricerca di soluzioni?
  • Collaborazione e rapporto con colleghi e superiori?
  • Qual è l’attitudine verso l’azienda?
  • Quanto è flessibile?
  • Qual è la motivazione sul posto di lavoro?
  • Qual è il ritmo del suo lavoro?
  • Qual è la qualità del suo lavoro?
  • Quanti suggerimenti di miglioramento vengono dal dipendente?

Il progetto finale A, B e C

Come abbiamo già evidenziato sarebbe ideale (utopistico forse) che la maggioranza dei vostri collaboratori appartenesse al gruppo dei collaboratori di categoria A.
Vale comunque la pena sostenere i collaboratori B e incoraggiarli nel loro cammino a migliorarsi ed essere ambiziosi.
Una buona quota nella classificazione A, B e C è 80:20:0. L’assunzione di un collaboratore C non dovrebbe neanche essere presa in considerazione.
Con pazienza e perseveranza verso obiettivi comuni, vengono stimati dai tre ai cinque anni, di dovrebbe poter raggiungere la quota 80:20. Questo equilibrio è un obbiettivo ottimale e sarete positivamente sorpresi e appagati dai grandi progressi e successi della vostra azienda.


Fonte: Weka

La nuova Legge federale sulla protezione dei dati

Sfide e opportunità per le aziende e i professionisti in una scheda informativa ricca di riflessioni.

La parola “LPD” è da alcuni mesi sulla bocca di tutti. LPD è l’acronimo ufficiale della Legge (federale) sulla protezione dei dati, normativa adottata dall’Assemblea federale, dopo un lungo periodo di gestazione, il 25 settembre 2020.

Si tratta di una revisione di legge complessa che avrà un impatto notevole sulla società e sulle imprese.

Il nuovo paradigma impone di rivalutare aspetti fondamentali della propria azienda, quali l’organizzazione interna, la gestione del personale, la tecnologia utilizzata, i fornitori di beni e servizi, la sicurezza e la trasparenza dei trattamenti. Il “giro di vite” a livello normativo è la “naturale” conseguenza della digitalizzazione e dei rischi sistemici che ne derivano (si pensi ai disastri informatici, ai furti di dati personali e ai casi di estorsione tramite “ransomware”), come pure degli abusi emersi nell’ambito di scandali internazionali, quali “Cambridge Analytica” (profilazione e manipolazione delle masse tramite fake news) oppure il caso Snowden.

La nuova LPD si prefigge di proteggere le persone fisiche e, indirettamente, l’intera comunità, dai trattamenti illeciti dei dati, affinché le informazioni possano essere utilizzate per creare una società digitale sicura, efficiente e non discriminatoria. Più romanticamente, si tratta di tutelare il bene più prezioso: la libertà e la dignità di ciascuno come essere umano.

Parlando di responsabilità, a conferma che l’adeguamento alla LPD non è un “optional”, saranno i consiglieri di amministrazione e i manager ad essere ritenuti responsabili penalmente per le violazioni della LPD riconducibili alle loro aziende (con multe fino a CHF 250’000.-). Ciò includerà la mancata implementazione degli standard minimi di sicurezza che saranno stabiliti dal Consiglio federale. Diversamente dal diritto europeo, che istituisce pesanti sanzioni amministrative pecuniarie a carico delle società, il diritto svizzero ha dunque optato primariamente per la responsabilizzazione dei dirigenti in quanto detentori del potere decisionale. Parallelamente, permane la responsabilità (civile) dei dirigenti verso la società, i suoi azionisti e i creditori per aver omesso di impedire il proliferare di atti illeciti, rispettivamente per aver omesso di implementare un’organizzazione conforme alla legge, come pure la responsabilità (civile) della società per la lesione della personalità delle persone interessate.

La data di entrata in vigore della LPD non è ancora stata decretata, considerato che mancano le norme attuative. Il termine per il referendum è scaduto infruttuoso, per cui, sotto questo profilo, non vi è alcun ostacolo giuridico alla messa in vigore. Gli esperti del settore ritengono che la data più realistica sia metà 2022. Essendo tale data relativamente lontana, si potrebbe essere tentati di rinviare la questione nel tempo. Sarebbe un errore di valutazione grave, tenuto conto della complessità degli adempimenti, dei tempi tecnici per la loro messa in opera e del fatto che la nuova LPD non prevede un termine generale di adeguamento dopo la sua entrata in vigore. È pertanto di fondamentale importanza avviare senza indugio il processo di messa a norma.

Trovandoci in un periodo di transizione, è bene sottolineare l’opportunità di implementare sin da ora le previsioni della futura LPD. In effetti, salvo rare eccezioni, tali previsioni non si pongono assolutamente in contrasto con il diritto attuale.

Vediamo concretamente come procedere e quali sono i principali adempimenti. Sia chiaro: non si tratta di uno sterile esercizio di “produzione cartacea” (come molti pensano), bensì di una vera e propria “ristrutturazione” dell’azienda, che comporta sia un ripensamento del rapporto con le persone interessate, i dati personali e la tecnologia, sia un cambiamento radicale di mentalità che tocca tutti, dai dipendenti fino al top management.

Innanzitutto, occorre creare un Team di progetto autorevole, dotato di risorse adeguate, competenze tecniche, operative e legali, nonché obiettivi chiari. Il Team deve godere del pieno sostegno della Direzione generale e del CdA. In mancanza di know-how specialistico interno, la guida del Team può essere affidata a uno specialista esterno. Le soluzioni completamente esterne (in cui lo specialista pretende, dopo alcune interviste, di mettere a norma l’azienda) sono illusorie e pericolose: nessuno conosce l’azienda meglio di chi ci lavora, per cui il coinvolgimento degli interni, in un cantiere “serio”, è imprescindibile.

Una volta costituito il Team, occorre stabilire il programma di lavoro con relativo scadenziario in base alle risorse disponibili, agli obiettivi e alle priorità d’intervento. In questo ambito, due questioni preliminari devono essere necessariamente affrontate:

(i) l’esigenza di considerare / implementare nel processo, data l’attività dell’azienda, anche normative estere (ad esempio, il GDPR)

e

(ii) l’individuazione di attività che necessitano di particolare (e prioritaria) attenzione (in ragione, ad esempio, delle responsabilità penali che ne scaturiscono oppure di aspetti “visibili” esternamente, come nel caso delle informative sui cookies, oppure perché i rischi per le persone interessate sono elevati).

La prima attività da svolgere è quella di “mappare” i trattamenti di dati personali, inserendo in un apposito registro i seguenti elementi: quali dati vengono trattati, da chi, come, dove, per quali scopi, chi ne è destinatario e sulla base di quale motivo giustificativo avviene il trattamento (legge, consenso o interesse preponderante pubblico o privato). Per lo svolgimento di tale compito è utile dotarsi di un gestionale informatico (nelle aziende medio – grandi la scelta è obbligata).

In secondo luogo, occorre definire ruoli e responsabilità di ciascuna persona che tratta dati personali, sia essa interna (dirigente, collaboratore) o esterna (data processor) all’azienda. La situazione va rappresentata in un organigramma di immediata fruibilità. Tali persone devono ricevere istruzioni chiare e complete sui trattamenti da effettuare (direttive e regolamenti interni) e, nel caso degli esterni, una volta accertata l’affidabilità dei singoli fornitori e dei loro prodotti e/o servizi, la delega del trattamento deve essere regolamentata tramite una convenzione scritta. Nell’ambito di tale fase, occorre valutare se sia opportuno (oppure obbligatorio, se si è confrontati con il GDPR) nominare un Data Protection Officer (DPO), il quale può essere interno o esterno all’azienda, onde presidiare il rispetto delle norme e offrire un supporto costante all’azienda e alle persone interessate nell’ambito di attività informative, ispettive e di consulenza. In base alla nuova LPD, che non prevede l’obbligatorietà della figura del DPO, la nomina comporta (a determinate condizioni) l’esclusione dell’obbligo di consultazione preventiva dell’Incaricato federale in presenza di trattamenti a rischio elevato. In terzo luogo, occorre attuare i principi per il trattamento dei dati personali (sicurezza, proporzionalità, correttezza, privacy by design e by default ecc.) in relazione ai trattamenti svolti e alla scelta degli strumenti (fisici e informatici) e delle modalità di trattamento, nonché identificare e bloccare eventuali attività illecite (in attesa di adeguamento o distruzione dei dati). In quarto luogo, occorre dare seguito agli obblighi di informare le persone interessate (inclusi i dipendenti, gli utenti delle risorse online e i clienti) circa i trattamenti svolti dall’azienda (o delegati a terzi) fornendo tutte le informazioni previste dalla legge. In quinto luogo, occorre identificare i motivi giustificativi alla base di ogni categoria di trattamento, raccogliendo ove necessario il consenso degli interessati (in maniera valida e comprovabile in giustizia), rispettivamente giustificando in modo documentato il ricorso all’interesse preponderante pubblico o privato (“LIA”). In sesto luogo, occorre creare un Team e delle regole per la gestione efficace e tempestiva dei “data breach” (violazioni della sicurezza), come pure per la gestione delle richieste delle persone interessate (rettifica dei dati, blocco dei trattamenti, revoca del consenso, accesso ai dati, portabilità ecc.). In settimo luogo, occorre identificare i trattamenti a rischio accresciuto che impongono lo svolgimento di una valutazione d’impatto sulla protezione dei dati (nel gergo, “DPIA”) e svolgere correttamente tale valutazione (in genere con l’ausilio di un tool informatico). Ove necessario, occorre effettuare la consultazione preventiva dell’Incaricato federale. In ottava posizione troviamo un punto essenziale: le attività di sensibilizzazione e di formazione dei dipendenti sui rischi, sui diritti e sugli obblighi di ciascuno in materia di protezione dei dati personali, nonché sulle responsabilità collegate.

Quale ultima riflessione, credo sia importante rilevare come le nuove norme non debbano essere viste come una rigida e onerosa imposizione, bensì come l’occasione per fortificare il rapporto di fiducia con clienti e dipendenti, promuovendo un’immagine aziendale positiva, socialmente responsabile e rispettosa delle regole e dei diritti fondamentali delle persone. Investire nella protezione dei dati personali significa operare in un contesto nuovo con coscienza e padronanza dei rischi e delle opportunità, sfruttando pienamente vantaggi competitivi e strumenti innovativi nel campo della digitalizzazione. Deludere le aspettative (sempre più elevate) degli utenti riguardo alla tutela della sfera privata e personale (caso WhatsApp docet) è una strategia dannosa non solo dal profilo giuridico, bensì commerciale. In definitiva, la strada è tracciata, per cui non resta che avviarsi con buona volontà, determinazione e con la migliore compagnia possibile verso la meta.


Articolo redatto da

Gianni Cattaneo, Avv., LL. M., FCI Arb

Nuovo accordo sulla fiscalità dei frontalieri: i punti principali

Una scheda redatta dall’Avv. Michele Rossi, Delegato alle relazioni esterne Cc-Ti. Scopriamo i dettagli.

Lo scorso 23 dicembre Svizzera e Italia hanno concluso il “nuovo” Accordo relativo all’imposizione fiscale dei frontalieri. Si tratta di uno dei vari capitoli già contemplati nella cosiddetta Roadmap sottoscritta da Svizzera e Italia nel 2015, che elencava i temi aperti tra i due Paesi che necessitavano di una soluzione. Dopo diversi anni di negoziati le parti sono dunque arrivate ad una soluzione condivisa in questo ambito. L’accordo, a causa dei tempi tecnici di ratifica, sia sul versante svizzero che su quello italiano, entrerà verosimilmente in vigore nel 2023. Cosa cambia rispetto alla situazione attuale?

Attualmente i rapporti tra Svizzera e Italia in materia di fiscalità dei frontalieri si basano sul relativo accordo del 1974 che prevede l’imposizione esclusivamente in Svizzera. Concretamente un lavoratore frontaliere paga le imposte in Svizzera, la quale riversa una compensazione fiscale ai Comuni italiani di residenza pari al 38,8% dell’ammontare lordo delle imposte pagate dai frontalieri. È il cosiddetto sistema dei “ristorni”.

Il nuovo accordo non prevede sostanziali modifiche per gli attuali frontalieri. In effetti i lavoratori frontalieri residenti in Italia che alla data di entrata in vigore svolgono oppure che tra il 31 dicembre 2018 e la data dell’entrata in vigore hanno svolto un’attività di lavoro dipendente nell’area di frontiera in Svizzera per un datore di lavoro ivi residente, una stabile organizzazione o una base fissa svizzere, resteranno imponibili soltanto in Svizzera, che, fino al 2033 continuerà a versare i ristorni ai Comuni italiani. In seguito la Svizzera, per questi lavoratori, non verserà più alcuna compensazione all’Italia e terrà per sé tutti gli introiti fiscali.

La categoria maggiormente toccata dal nuovo sistema sarà per contro quella dei nuovi frontalieri, ossia coloro che otterranno tale statuto dopo l’entrata in vigore dell’accordo firmato lo scorso dicembre. Essi saranno imposti fiscalmente in Svizzera con una quota parte dell’80%. In altre parole, l’imposta prelevata in Svizzera non potrà eccedere l’80% dell’imposta risultante dall’applicazione dell’imposta sui redditi delle persone fisiche. Lo Stato di residenza, l’Italia (ed è questa la grande novità), potrà assoggettare a sua volta ad imposizione i lavoratori frontalieri. Il lavoratore frontaliere verrà quindi assoggettato in Svizzera (all’80%) ed in Italia (come soggetto fiscale italiano). L’accordo prevede il divieto della doppia imposizione, nel senso che l’Italia deve riconoscere al lavoratore italiano un credito d’imposta per quanto dovuto a titolo fiscale in Svizzera. Nel nuovo accordo è definito come frontaliere chi è fiscalmente residente in un Comune il cui territorio si trova, totalmente o parzialmente, nella zona di 20 km dal confine e ritorna, in linea di principio, quotidianamente al proprio domicilio.

Accordo di libero scambio con l’Indonesia: un modello all’avanguardia

Il 7 marzo 2021 il popolo svizzero sarà chiamato alle urne per esprimersi sull’accordo di libero scambio con l’Indonesia. Un’intesa progressista che combina negoziazioni commerciali e grande attenzione allo sviluppo sostenibile. La Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del Cantone Ticino appoggia questo importante partenariato economico.

Un mercato in piena crescita

Nell’immaginario collettivo l’Indonesia richiama paesaggi paradisiaci, tra spiagge e acque cristalline, ma questa Nazione non è unicamente una rinomata meta turistica. Paese emergente a tutti gli effetti – con i suoi 267 milioni di abitanti, una classe media in costante aumento e una crescente necessità di infrastrutture – lo Stato è già oggi un importante partner commerciale per la Svizzera.

Nel 2019 il commercio bilaterale tra la Confederazione e la Repubblica indonesiana ha raggiunto 1,47 miliardi di franchi, un aumento del 6,4% rispetto all’anno precedente. La Svizzera esporta in Indonesia prevalentemente macchinari, dispositivi elettronici, prodotti chimico-farmaceutici e importa soprattutto materie prime (pietre e metalli preziosi, tessili). Paese ritenuto dall’elevato potenziale economico, rappresenta per la Svizzera un mercato del futuro e non a caso la SECO l’ha inserito nelle priorità della cooperazione economica. Il Fondo Monetario Internazionale situa attualmente l’Indonesia al 16° rango delle principali economie mondiali e, secondo le previsioni di numerosi esperti, potrebbe diventare la quarta superpotenza al mondo entro il 2050.

Il libero scambio, uno strumento di mercato fondamentale

In un’epoca in cui il commercio mondiale è sempre più incerto e le tendenze protezionistiche sono crescentemente più intense, per una nazione esportatrice come la Svizzera è fondamentale avere forti alleati. In quest’ottica gli accordi di libero scambio diventano uno strumento di mercato essenziale. Essi permettono di agevolare l’accesso della Svizzera ai mercati esteri e al contempo di diversificare le relazioni economiche. Attraverso la riduzione di dazi doganali e delle barriere commerciali si facilitano gli scambi commerciali import/export, andando di conseguenza a rafforzare l’economia e la prosperità del nostro Paese.

Partendo da questi presupposti, sembra chiara l’importanza racchiusa nell’accordo di libero scambio con l’Indonesia. Siglato nel 2018 dagli Stati membri dell’AELS (Svizzera, Islanda, Liechtenstein e Norvegia), è stato accolto molto positivamente dagli ambienti economici svizzeri. Questo importante partenariato economico prevede l’abolizione a medio termine del 98% dei dazi all’importazione, che corrisponde a un risparmio per le nostre aziende di circa 25 milioni di franchi all’anno. La soppressione di numerosi ostacoli tecnici non tariffari permetterebbe di intensificare gli scambi tra le due Nazioni. L’accesso al mercato indonesiano sarebbe così facilitato e le aziende svizzere beneficerebbero di un importante vantaggio concorrenziale. L’accordo rafforza inoltre la protezione della proprietà intellettuale e aumenta la certezza degli investimenti. Non da ultimo, sono previste semplificazioni in molti altri settori, come nel commercio di servizi e nel turismo.

Commercio e sostenibilità: tracciata una nuova via

In questo accordo, la Svizzera non ha negoziato unicamente elementi riguardanti gli scambi commerciali, ma ha apportato un importante contributo allo sviluppo sostenibile inserendo un ampio pacchetto di misure specifiche vincolanti, soprattutto legate al commercio di olio di palma. Proprio quest’ultimo è una questione spinosa per gli oppositori dell’accordo che hanno lanciato un referendum su cui saremo chiamati a votare il prossimo 7 marzo. La critica principale è diretta contro la riduzione dei dazi doganali sull’olio di palma, la cui alta redditività della produzione ha portato a dissodare ampie aree di foresta, mettendo in pericolo l’ecosistema indonesiano. Le autorità federali sono ben coscienti di queste problematiche e hanno negoziato l’agevolazione all’importazione solo per quello prodotto in maniera sostenibile. Non vi sarà quindi nessuna riduzione dei dazi doganali e delle barriere commerciali se la produzione non rispetterà i severi standard ecologici e sociali fissati. La Confederazione dovrà quindi garantirne la tracciabilità. L’intesa inoltre non prevede un libero scambio totale: i dazi doganali saranno ridotti del 20-40% e non completamente aboliti. In aggiunta a ciò, il volume totale in arrivo nel nostro Paese dovrà rimanere stabile. È interessante notare che le importazioni di questo prodotto verso la Svizzera sono minime: nel 2019 ammontavano a 24mila tonnellate in provenienza da tutto il mondo, tra queste 35 tonnellate dall’Indonesia, l’equivalente dello 0,01%. Inoltre, secondo i dati di economiesuisse, il commercio di olio di palma rappresenta lo 0,0001% del totale delle importazioni dal Paese asiatico. Sarebbe quindi peccato sacrificare per queste quantità un’intesa che ha trovato il giusto equilibrio tra commercio e sostenibilità.

La grande attenzione rivolta alle misure a favore dello sviluppo sostenibile ha reso l’accordo di libero scambio con l’Indonesia estremamente progressista. È stato raggiunto un risultato negoziale senza precedenti, a dimostrazione che economia e sostenibilità non sono incompatibili. Durante la conferenza stampa per il lancio della campagna a favore dell’accordo, il Presidente della Confederazione Guy Parmelin ha infatti parlato di “accordo di nuova generazione” e ha sottolineato che con esso “non sacrifichiamo i principi sull’altare del libero scambio”. Una nuova via è stata tracciata e ci auguriamo che questo accordo possa diventare un modello da seguire per futuri partenariati economici.