Non basta!

Sta purtroppo succedendo quello che non doveva accadere: gli aiuti finanziari della Confederazione a sostegno dell’economia colpita dalle restrizioni anti-COVID non vengono erogati con la necessaria rapidità, senza contare che molte piccole imprese e tanti lavoratori indipendenti ricevono poco o nulla. La sopravvivenza di numerose aziende e di una larga fascia di lavoro autonomo sono a rischio.

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Già nel febbraio scorso avevamo rilevato che con l’attivazione dei sostegni pubblici nella seconda ondata pandemica le cose non stavano andando per come era stato promesso, ossia con la tempestività e l’efficacia che la gravità dell’emergenza richiede e, soprattutto, senza eccessive lungaggini burocratiche. Il potenziamento dei crediti per i casi di rigore deciso da Berna è stato molto importante, ma risulta ormai evidente che da solo non basta. Per questo, sull’esempio di quanto fatto da alcuni Cantoni come Ginevra, Vaud e Argovia, la Cc-Ti ha chiesto al Consiglio di Stato di mettere a punto al più presto un piano d’intervento del Cantone per tutelare quelle attività economiche che non possono ancora rientrare negli aiuti federali e che oggi vivono una condizione di estrema fragilità. Altrettanto decisivo è un approccio rapido nella valutazione dei casi che necessitano di un aiuto.

Il rischio di danni sistemici

Un intervento equo e mirato è indispensabile per la salvaguardia della tenuta dell’economia che potrebbe subire danni sistemici da cui non sarà facile riprendersi. Non si tratta di concedere regali, anche perché molti sostegni finanziari sono la redistribuzione delle assicurazioni sociali pagate dalle imprese. È importante ricordare che i problemi che oggi si trovano a fronteggiare le imprese non hanno la loro origine all’interno del nostro tessuto produttivo, né sono stati provocati da errori degli imprenditori o da avventate strategie aziendali. Sono invece la diretta conseguenza delle restrizioni imposte alla libertà economica per combattere l’epidemia. Conseguenze che vanno ben al di là di quel normale rischio imprenditoriale che, per sua natura, ogni impresa è pronta ad assumersi e affrontare. I ripetuti lockdown, totali o parziali, per quanto non abbiano investito allo stesso modo tutte le aziende, hanno avuto impatti sul sistema economico nel suo complesso, causando costi maggiori, spese aggiuntive, una domanda discontinua, forti ritardi nelle forniture e nei pagamenti, diseconomie di scala, incertezza e impossibilità di pianificare produzione e investimenti. Una catena di danni diretti o indiretti che ha creato grosse difficoltà persino alle aziende più grandi con molti mezzi, figurarsi per le piccole imprese che rappresentano oltre il 90% della nostra realtà produttiva. È chiaro che in queste condizioni anche molte aziende sanissime e senza debiti nella fase pre-COVID si sono ritrovate ad erodere le proprie riserve per sopravvivere, compromettendo totalmente o almeno in parte la capacità di investire. Con conseguenze per il futuro certamente pesanti in termini di capacità di sopravvivenza sul mercato e, in ultima analisi, di posti di lavoro. Questa economia da COVID ha reso ancora più interdipendenti gli anelli delle catene del valore nazionali e internazionali. Come si è visto, la rottura di uno solo di questi anelli produce e propaga effetti negativi lungo tutte le filiere. Oggi anche l’export, la punta di diamante dell’industria svizzera e ticinese, risente fortemente di questa crisi. Sul commercio internazionale gravano volatilità, incertezza, domanda instabile e tensioni geopolitiche, mentre si fa sempre più aggressiva la concorrenza per assicurarsi clienti e buoni fornitori. Le materie prime hanno prezzi che sono in continuo aumento, anche del 30% e oltre, e variazione, creando non pochi problemi nella stesura di preventivi e concorsi e nella linea di produzione stessa. Lo sforzo costante degli imprenditori di migliorare costantemente la qualità dei loro prodotti e servizi va sostenuto con coraggio e determinazione nell’interesse di tutti. La chiara flessione già registrata per il 2020 in termini di entrate fiscali dimostra, se ancora ce n’era bisogno, l’importanza di un’economia solida per tutta la società.

Casi di rigore e IPG Corona

La Cc-Ti ha già sottolineato alcune problematiche nella gestione dei casi di rigore e nella concessione delle indennità per perdite di guadagno, sebbene sia comprensibile la pressione che grava sulle entità amministrative che devono occuparsi di questi temi. Nella nuova versione della legge COVID-19, approvata poche settimane fa, malgrado le motivate sollecitazioni giunte da più voci economiche e dagli imprenditori tutti, non è stata ampliata la cerchia dei beneficiari delle misure previste per i casi di rigore, nè è stata ridotta la soglia del 40% della perdita di fatturato per accedere a questi aiuti. È ovvio che ampliare il numero di categorie che potrebbero beneficiare degli aiuti per casi di rigore significa avere costi supplementari. Ma sono costi comunque inferiori a quelli che vi sarebbero costringendo molte attività a chiudere e poi a dover fare capo a disoccupazione, assistenza e altri ammortizzatori. Inoltre, l’attuale situazione non tiene conto di chi, pur non essendo stato chiuso per ordine dell’autorità, è di fatto fermo perché i clienti principali sono a loro volta chiusi. In quest’ottica è comprensibile come la percentuale del 40% di perdita minima sulla cifra d’affari per accedere agli aiuti percentuale di perdita sia troppo elevata. Per molte attività economiche equivale di fatto al fallimento e che le esclude numerose imprese in difficoltà dai sostegni federali e non per demeriti propri. Una linea rossa che marca, peraltro, evidenti discriminazioni.
Perché un’azienda che ha perso solo il 39% della cifra d’affari non ha diritto di accedere ai casi di rigore? Sulla base di quale ragione giuridica una società che non ha dovuto chiudere per ordine dello Stato, ma che ha comunque subito perdite notevoli e misurabili perché facente parte della filiera colpita duramente dai lockdown, non può beneficiare degli aiuti federali? Escludere queste imprese significa lasciarle in balia dell’andamento dell’epidemia e condannarle alla chiusura. Non a caso i Cantoni Ginevra e Argovia hanno abbassato tale soglia rispettivamente al 20% e al 25% di diminuzione della cifra d’affari. E il Canton Vaud ha creato autonomamente un fondo di sostegno all’industria di 6 milioni di franchi, proprio per cercare di ovviare alla situazione di chi si ritrova in difficoltà a causa del rallentamento della filiera di produzione.
Difficile se non insostenibile anche la situazione di molti indipendenti, esclusi dall’indennità di perdita di guadagno, la cosiddetta IPG Corona. Oltre ai ritardi nell’erogazione delle indennità va detto che Berna ci ha messo anche del suo per complicare le cose. Dallo scorso settembre sono stati, infatti, fissati criteri più rigorosi per il riconoscimento delle indennità, inoltre la domanda per le IPG Corona va ora ripresentata ogni mese. Ciò sta rendendo inevitabilmente le procedure più lunghe e macchinose per tutti.
Al danno purtroppo si aggiunge la beffa: mentre gli indipendenti aspettano mesi per ottenere le indennità, ricevono invece puntualmente conteggi e richiami per un sollecito pagamento in materia di AVS, IVA e vari altri contributi obbligatori. Una situazione insostenibile per migliaia di indipendenti: artigiani, negozianti, piccoli imprenditori, ristoratori, artisti, liberi professionisti, commercianti, titolari di servizi alle persone, sempre più esasperati. Sarebbe pertanto doverosa una moratoria sui contributi obbligatori, per evitare l’amaro paradosso di uno Stato che da un lato chiude le attività impedendo di guadagnare e che ritarda nell’erogazione dei sostegni, e dall’altro apre subito delle procedure esecutive per dei pagamenti, certo dovuti, ma che, viste le attuali difficoltà non si possono onorare.
In un contesto così complesso è giusto e indispensabile cercare di scongiurare gli abusi, ma non si possono mettere in ginocchio migliaia di piccoli imprenditori e di indipendenti per il timore di coloro che vogliono approfittarne. Abbiamo i mezzi necessari per identificare e punire questi personaggi. Del resto, quello che permette a uno Stato di funzionare si chiama anche fiducia, fiducia in un sistema che non fa differenze, che aiuta, che supporta e si preoccupa per i propri cittadini. Non è certamente positivo vedere crescere il debito pubblico, ma sarebbe molto peggio trovarsi con aziende eccessivamente indebitate, perché significherebbe che la ripresa diventerebbe molto lenta e difficile. Se si mantengono le capacità di reazione dell’economia, anche le casse statali possono recuperare in tempi moderatamente veloci. Se invece si crea una realtà di imprese incapaci di investire e di pianificare con qualche certezza in più e non solo a brevissimo termine, i dolori saranno molto più forti e a lungo termine. Sarebbe, a questo punto, eccessivamente ottimistico pensare che con la fine dell’emergenza sanitaria l’economia riaccenda subito i motori e li faccia girare a pieno regime. Un’utopia, purtroppo.