Il Progetto RESTART per il ricollocamento dei disoccupati del settore commerciale

La Cc-Ti è impegnata nel sostegno fattivo al collocamento di persone in cerca d’impiego con un profilo professionale quale impiegato di commercio. Questo grazie al progetto RESTART, ed alla collaborazione con l’OCST. Ecco maggiori dettagli su questo specifico progetto.

RESTART è un percorso di sostegno intensivo al collocamento destinato a persone in cerca d’impiego con profili professionali del settore commerciale (impiegati di commercio). Questo progetto è gestito dal Centro di Formazione Professionale OCST (CFP-OCST) su mandato dell’Ufficio misure attive (UMA) della Sezione del Lavoro del Canton Ticino e accoglie annualmente nelle tre sedi di Lugano, Locarno e Porza fino a 450 persone. Ogni assicurato è affiancato a tempo pieno da un team di coach, formatori e consulenti, che lo seguono da vicino per un mese al massimo. Ne valutano il profilo, le competenze e l’atteggiamento, sostenendolo nell’elaborazione di un piano d’azione, nella redazione di un dossier di candidatura, nella preparazione dei colloqui di lavoro, nell’analisi e valorizzazione delle competenze e nelle tecniche di ricerca impiego.

Il 6 ottobre 2016 ha preso avvio una collaborazione tra la Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del Canton Ticino (Cc-Ti) e il CFP-OCST, al fine di favorire l’integrazione nel mondo del lavoro delle persone iscritte in disoccupazione in Ticino.

Questo servizio rappresenta una soluzione vantaggiosa per tutti gli attori in gioco, creando una situazione win-win. Le aziende possono far capo a personale qualificato residente, di cui sono state verificate competenze e attitudini; le persone in cerca d’impiego possono cogliere maggiori opportunità di rientrare nel mondo del lavoro; lo Stato può mettere a frutto gli investimenti nelle politiche attive del mercato del lavoro grazie alla collaborazione con le organizzazioni del mondo del lavoro.

Principali vantaggi per le aziende

Il servizio offerto dal programma RESTART è gratuito. Il coach RESTART diventa una forma di “garante” nei confronti delle aziende interessate al servizio di selezione offerto dal Centro di Formazione Professionale OCST. In questo senso, l’azienda in cerca di personale non deve fare altro che inviare la propria richiesta al Segretariato centrale RESTART e nel giro di poche ore riceverà un feedback, corredato dal dossier di candidatura dei potenziali candidati, verificato e selezionato dal coach responsabile. All’azienda viene inoltre data facoltà di mettere alla prova il/la candidato/a con la formula dello stage orientativo o della prova di lavoro di 3-5 giorni, con copertura assicurativa completa. Non da ultimo, in alcuni casi, qualora il profilo risultasse essere adeguato, le aziende interessate all’assunzione dei nostri candidati potrebbero beneficiare di incentivi previsti dalla legge, tramite l’Ufficio Regionale di Collocamento. Qualora le aziende associate alla Cc-Ti fossero alla ricerca di personale con un profilo commerciale più o meno qualificato, possono scegliere di rivolgersi al Segretariato RESTART, inviando possibilmente una job description ai contatti: Tel. 091 940 29 06, restart@cfp-ocst.ch

Trasparenza assicurata

Nel caso in cui il CFP-OCST non fosse in grado di segnalare profili in linea con le job description ricevute dalle aziende in cerca di personale, informerà tempestivamente queste ultime, le quali potranno quindi procedere alla selezione del personale attraverso altri canali.

Siamo a vostra disposizione qualora voleste approfondire la tematica e il progetto presentotavi.
Per ulteriori dettagli in merito, è possibile contattare Roberto Klaus, Direttore SSIB, klaus@cc-ti.ch

Un pomeriggio informativo sul valore dell’azienda

Vi proponiamo la testimonianza della Società Mastri Panettieri Pasticcieri Confettieri (SMPPC), attraverso le parole del suo Presidente, Massimo Turuani (già apparsa sul giornale settoriale dell’associazione «panissimo» del 23 giugno 2017), che spiega un nuovo progetto su cui la Cc-Ti si è chinata nel corso del 2017 a favore delle associazioni di categoria ad esse affiliate. Il valore dell’azienda e la sua valutazione è un tema che interessa settorialmente (e non) molti comparti economici, con cui le ditte ticinesi sono confrontate.

 

Da sinistra: Luca Albertoni, Direttore Cc-Ti; Massimo Turuani, Presidente SMPPC e Claudio Cereghetti,
Direttore AWB AG – Allgemeine Wirtschaftsprüfung und Beratung AG, Lugano

Uno studio sul valore delle aziende

Interessante la partecipazione che ha accompagnato l’incontro tra la Cc-Ti e i soci della Società Mastri Panettieri Pasticcieri Confettieri lo scorso 8 giugno. Da diverso tempo a questa parte la SMPPC voleva organizzare una giornata che potesse fungere da riferimento economico per tutte quelle aziende che hanno nel loro prossimo futuro l’eventualità di una vendita o comunque di un passaggio di consegne. Logico quindi mettere per la prima volta sul tavolo, in maniera chiara e semplice, quelli che sono i parametri di calcolo e di discussione più importanti per far si che questo possa avvenire nel migliore dei modi.

Problemi: i costi

Tanto per cambiare i più pesanti restano sempre quelli del personale. Le materie prime occupano una percentuale di costo che rientra in una logica comune a molte altre professioni. Invece per quanto riguarda la mano d’opera il sentore di maggior preoccupazione resta il fatto che si è abbastanza al di sotto di cifra d’affari che viene sviluppata dalla mano d’opera impiegata.

Possibili misure

L’ottima conduzione del corso da parte di Claudio Cereghetti della AWB AG di Lugano ha permesso di focalizzare alcune contromisure da prendere in questi contesti. Diventa indispensabile riuscire a eliminare alcuni rami secchi che per molto tempo non si è mai avuto il coraggio di affrontare. Al giorno d’oggi non ci si può più permettere di continuare a subire situazioni non vantaggiose unicamente per il fatto di garantire un determinato servizio che, se ben analizzato e calcolato, non porta a quei profitti assolutamente indispensabili per il buon andamento dell’azienda.

Si tratta di una tematica comune a molte aziende di differenti settori economici. La Cc-Ti si conferma sul pezzo.

Partecipazione

Gli intervenuti si sono dimostrati molto attenti e comunicativi. Parecchie sono state le domande formulate man mano che il corso procedeva. Tutti stanno capendo che se non si prende il toro per le corna è molto facile trovarsi spiazzati. Quasi sempre quando questo avviene, ci si rende conto che si è perso troppo tempo e che i buoi rischiano di trovarsi irrimediabilmente fuori dalla stalla.

Un progetto da attivare

È questo il primo pensiero che ha toccato la Cc-Ti, soprattutto verso altre categorie professionali. Il fatto di esserci arrivati per primi a proporre un corso del genere incentrato sul valore d’azienda ha suscitato parecchio entusiasmo per una proficua forma di lungimiranza. È infatti questo un problema molto presente anche in altre professioni. A maggior ragione per il fatto che nei prossimi anni è prevista una massiccia forma di successione in molte aziende. Ci si vuole quindi far trovar pronti al momento che il problema si presenterà. Un ringraziamento particolare alla Cc-Ti che ha collaborato in tutti i sensi per la positiva riuscita.

Per maggiori informazioni in merito è possibile contattare
Roberto Klaus, Direttore SSIB, klaus@cc-ti.ch

“È inevitabile trovare l’equilibrio tra sostenibilità ed economia”

Se una azienda vuole avere successo a lungo termine dovrebbe prendere in considerazione le nuove generazioni, afferma Simone Pedrazzini, Consulente in Sostenibilità dell’azienda Quantis. Per i giovani la  sostenibilità è parte integrante della vita quotidiana. Eccovi un’intervista che affronta la tematica della responsabilità sociale delle imprese, argomento molto caro alla Cc-Ti, di cui continuiamo a parlare con spunti sempre differenti. Ritrovate qui il resoconto dell’evento sulla RSI e la strategia aziendale dello scorso mese di maggio, e la nostra posizione sulla RSI.

Signor Pedrazzini, quali circostanze hanno reso possibile la fondazione della ditta Quantis, la quale si occupa della comunicazione dei contenuti di sostenibilità?

Non siamo nati sotto l’ottica della comunicazione bensì sotto quella della quantificazione di metriche legate alla sostenibilità. Quantis è stata fondata quale start up del politecnico di Losanna, con un background scientifico, che oggi valorizziamo anche con il supporto alle aziende per la comunicazione.

Secondo Lei, quale tipo di sostenibilità è più importante per le aziende, quella ambientale o quella sociale?

In generale dipende dal settore. Noi ci muoviamo piuttosto nella sfera ambientale con lo scopo di calcolare e valutare in maniera oggettiva l’impatto delle attività aziendali. Penso che gli strumenti quantitativi a disposizione del campo della sostenibilità ambientale siano più sviluppati perché il legame con quello che viene svolto nel mondo fisico è più immediato.

Ma verosimilmente questo non è l’unico motivo per dare tanta importanza alla sostenibilità ambientale.

I dirigenti delle ditte concordano sul fatto seguente: se voglio avere una vera strategia aziendale mi conviene avere una fotografia completa della situazione ambientale ed anche sociale al fine di essere a conoscenza in modo completo del ciclo intero.

Da quali settori provengono le imprese che si rivolgono a voi?

Siamo attivi in tutti gli ambiti economici. Tradizionalmente il settore degli alimentari si ritrova più frequentemente degli altri perché il campo agroalimentare richiama molto l’attenzione pubblica. Questo perché ci tocca tutti da vicino ed ha quindi un’alta componente emotiva.

E al di fuori del campo agroalimentare?

Oggigiorno i settori sono molto variegati: la gamma si estende dal tessile alla telecomunicazione e alla logistica. Senza dimenticare l’ambito dei servizi, penso per esempio al settore finanziario o a quello dei grandi eventi sportivi.

 Sembra essere una tendenza molto in voga.

Sicuramente la sensibilità è aumentata, anche perché un possibile incidente in questo campo può avere grandi ripercussioni sulle aziende. Nel passato era prerogativa quasi esclusiva dei grandi gruppi multinazionali anticipare lo sviluppo in questo campo. Mentre oggigiorno anche le PMI si posizionano bene nella tematica della sostenibilità, questo anche perché molto spesso riforniscono le grandi aziende. La sostenibilità inizia ad essere vista come un vantaggio competitivo, se affrontata in maniera proattiva permette di migliorare anche il posizionamento economico.

Se la sostenibilità viene affrontata in maniera proattiva permette di migliorare anche il posizionamento economico.

Perché le aziende fanno fatica a comunicare efficacemente la loro attenzione verso il campo della sostenibilità?

Vedo due aspetti che sono decisivi a questo proposito. Per prima cosa c‘è il rischio del cosiddetto green washing cioè di una sostenibilità ambientale soltanto superficiale che si dimostra molto spesso quale problema fondamentale. In secondo luogo esistono delle realtà con base solida riguardo agli sforzi di sostenibilità e la sensibilizzazione, ma c`è il problema della complessità: come semplificare i messaggi senza snaturare il contenuto che rispecchia complessivamente una situazione di solito non semplice?

Ma da ogni situazione risulta una verità piuttosto semplice.

Se voglio comunicare i miei sforzi di sostenibilità in maniera ampiamente comprensibile debbo fare i tre passi della proposizione tematica, della prova e del posizionamento. Ma a parte queste tre “p” devo raccontare qualcosa alla gente che le dia la voglia di, in un certo modo, sognare. Le nuove generazioni vogliono associarsi ad una vita in cui la sostenibilità viene incentivata, è proprio così. I giovani tendono ad essere coinvolte in belle storie che però sono vere e oggettive.

Trova esista un buon compromesso tra la sostenibilità ambientale e quella economica?

È inevitabile trovare questo equilibrio. Mi capita di poter lavorare con persone che ne sono convinte sin dall’inizio. Ma a quelle che sono molto pragmatiche devo dimostrare le positive conseguenze economiche della sostenibilità.

Quali sarebbero?

Miglior posizionamento del brand, dialogo sincero e trasparente con il cliente finale in modo da fidelizzarlo e conquista di nuovi mercati sensibili alla tematica. E non da ultimo, citerei anche la capacità di attirare nuovi dipendenti, visto che i talenti delle nuove generazioni vogliono mettersi a disposizione di aziende che possano avere un’influenza positiva sulla società.

Lei certamente ha una visione della sostenibilità futura.

Per me la sostenibilità rimane tale qual è: bisogna cambiare il ritmo per evitare il peggio. Dobbiamo affrettarci perché gli obiettivi da raggiungere sono ambiziosi ed il tempo corre. Per ridurre l’aumento della temperatura globale per esempio bisogna reagire adesso.

“Previdenza 2020”: occorrerebbe correggere gli squilibri – dossier tematico

a cura di Alessio Del Grande

Che riforma è una riforma che discrimina tra i pensionati di oggi e quelli di domani, che non distingue tra chi ha veramente bisogno e chi no, che impone anche ai giovani di pagare di più senza la garanzia di benefici futuri? Che senso ha tentare di salvare provvisoriamente le casse dell’AVS, per ritrovarsi tra un decennio con un deficit di sette miliardi di franchi all’anno? Quale logica di risanamento c’è nel risparmiare 1,2 miliardi portando a 65 anni l’età di pensionamento delle donne, ma spendendo 1,4 miliardi in più con l’aumento di 70 franchi dell’AVS?

Ecco perché “Previdenza 2020” non è una vera revisione del sistema previdenziale, ma solo una “riforma farsa”. Approfondiamo dunque il tema in questo testo. Potremo avere un quadro completo sulla tematica trattata, in votazione il prossimo 24 settembre.

Una storia tormentata

Settant’ anni di vita e ben 11 revisioni. L’ultima, nel 2004, è stata bocciata dal popolo. Un altro tentativo si è arenato in Parlamento nel 2010, mentre nell’autunno scorso è stata respinta dal voto popolare l’iniziativa AVSplus. Storia tormentata e irrisolta quella dell’Assicurazione per la vecchiaia e il prossimo 24 settembre si tornerà ancora alle urne per “Previdenza 2020”, la riforma del Consigliere federale socialista Alain Berset. Con un doppio voto: sul previsto aumento dell’IVA (referendum obbligatorio) e sull’insieme della nuova legge contro cui è stato lanciato un altro referendum. Di fatto, si voterà due volte sullo stesso tema. Quando nel 1948 entrò in vigore l’AVS si contavano 6,5 persone attive per ogni pensionato, oggi sono soltanto 3,4. Stando agli attuali trend demografici, tra trent’anni il numero dei pensionati svizzeri passerà da 1,5 milioni a circa 2,6 milioni e ci saranno soltanto due lavoratori attivi per un pensionato. Detto altrimenti, saranno sempre meno le persone attive che dovranno sostenere il finanziamento delle rendite pensionistiche. Secondo un recente studio di UBS, nel 2060 il numero degli over 64 sarà raddoppiato e i costi dell’AVS, assieme a quelli dell’assistenza sanitaria, saranno, al netto dell’inflazione, più che duplicati. Di fronte a queste previsioni e considerando anche altri due preoccupanti fattori, ossia i giovani che arrivano sempre più tardi sul mercato del lavoro, rispetto a quanto avveniva con le precedenti generazioni, e la discontinuità contributiva, si profilano grosse incognite per un sistema previdenziale, che nei tempi d’oro di alta congiuntura e del baby boom aveva spesso registrato buone eccedenze. I primi segnali di allarme per l’AVS ci sono stati con la recessione economica degli anni ‘70, quando cominciò a farsi sentire anche in Svizzera il calo della nascite e l’aumento degli anziani. Da allora la situazione è andata peggiorando e oggi, con la forte crescita degli ultrasessantenni e il pensionamento della generazione dei “babyboomer”, il finanziamento del primo e del secondo pilastro non è più assicurato. Che sia necessaria una revisione radicale è, quindi, fuor di dubbio, ma certamente non secondo il modello messo a punto da Berset.

Cosa prevede “Previdenza 2020”?

In sintesi i punti principali della riforma Berset, che tocca sia il primo pilastro come la previdenza professionale, sono:

  • l’aumento a 65 anni dell’età di pensionamento per le donne;
  • il pensionamento flessibile tra i 62 e i 70 anni;
  • la riduzione dal 6,8 al 6,0% del tasso di conversione con cui si calcolano le rendite del secondo pilastro;
  • l’aumento di 0,3 punti dei prelievi salariali;
  • l’incremento dell’IVA di 0,6 punti per finanziare l’AVS;
  • 70 franchi in più al mese di rendita AVS per compensare la riduzione del tasso di conversione del secondo pilastro;
  • l’aumento del tetto massimo per i coniugi dal 150% al 155%.

Di queste due ultime misure beneficeranno, però, soltanto coloro che andranno in pensione a partire dal prossimo anno.

Ci si dovrebbe confrontare con i problemi strutturali del sistema, non rinviare le soluzioni.

La revisione si propone di garantire l’equilibrio finanziario dell’AVS sino alla fine del prossimo decennio. Ma in buona sostanza si tratta di una “pseudo riforma”, come è stata definita, perché non affronta i veri nodi della previdenza e rappresenta, inoltre, una cambiale in bianco per i lavoratori più giovani, chiamati alla cassa per saldare il conto di un meccanismo di finanziamento che non garantisce né stabilità né sicurezza per il futuro. Una revisione, quindi, che invece di misurarsi con i problemi strutturali del sistema ne rinvia solo la soluzione. Ma, intanto, ne crea di altri.

Perché NO a questa riforma?

Approvata nel marzo scorso dal Parlamento con una maggioranza risicata, grazie ad un’alleanza di centrosinistra, “Previdenza 2020” potrà offrire solo una boccata di ossigeno alle casse dell’AVS, rischiando però di compromettere, col suo meccanismo espansivo e la logica dell’innaffiatoio, tutto il sistema previdenziale. Infatti, nonostante l’apporto di nuova liquidità per miliardi di franchi tramite l’aumento dell’IVA e dei prelievi sui salari, tra dieci anni l’AVS sarà di nuovo in rosso. Si stima che a partire dal 2035 mancheranno ogni anno circa sette miliardi. Per scongiurare questa voragine bisognerà, dunque, intervenire prima. Ma come? Semplice, davanti alla nuova emergenza finanziaria la sola scelta possibile sarà di portare a 67 anni, per tutti, l’età del pensionamento oppure di aumentare di altri due punti percentuali l’IVA. Intanto i cittadini sopporteranno gli effetti di una revisione iniqua che non risolve nulla, ma che penalizza in particolare i giovani che lavorano e gli attuali pensionati. I primi saranno costretti a pagare un prezzo molto alto con maggiori contributi salariali e il rincaro dell’IVA, senza avere la garanzia di poter poi godere a loro volta della previdenza per la vecchiaia. Il che rappresenta una grave lesione di quel patto tra generazioni sui cui si fonda il nostro sistema assicurativo. I secondi si troveranno di fronte ad un’AVS a due velocità. Chi oggi è già è pensionato non riceverà, infatti, i 70 franchi di aumento previsti da “Previdenza 2020” soltanto per coloro che andranno in pensione dal 2018. Una discriminazione bella e buona che viola uno dei principi fondanti dell’Assicurazione vecchiaia e superstiti, secondo cui tutti devono essere trattati allo stesso modo. Gli attuali pensionati saranno di fatto beffati: dovranno pagare un’IVA più cara per finanziare una riforma che a loro non riconosce nessun aumento, subendo, perciò, un’erosione del potere di acquisto. E ci rimetteranno pure i beneficiari delle prestazioni complementari, da cui sarà detratto ogni franco in più che riceveranno dall’AVS. Inoltre, se le prestazioni complementari sono esentasse, su quanto riceveranno in più con la rendita vecchiaia dovranno, invece, pagare le imposte. Per i socialisti e i verdi questa riforma è una rivincita dopo la sonora bocciatura popolare di AVSplus, su cui è stata ricalcata “Previdenza 2020”. Ma è anche un nuovo tentativo di fare dell’AVS una leva di quel sistema redistributivo che da sempre ispira la politica della sinistra. Un’impostazione ideologica di cui faranno le spese i pensionati di oggi e di domani.

Se la “Previdenza 2020” venisse accettata in votazione il prossimo 24 settembre, assisteremmo ad una lesione del patto generazionale su cui si fonda il nostro sistema assicurativo.

Il dossier sulla Riforma 2020 è pubblicato sull’edizione di luglio+agosto di Ticino Business.
Esso si compone di tre articoli:

“Previdenza 2020”: occorrerebbe correggere gli squilibri
Previdenza vecchiaia: non sacrifichiamo la solidarietà tra generazioni
Età di pensionamento flessibile: basta con i tabù

 

Imprese familiari, un patrimonio da valorizzare

testo a cura di Alessio Del Grande

Si è tenuta lo scorso giugno l’assemblea dell’AIF Ticino, l’Associazione che raggruppa le imprese familiari, ossia le aziende il cui capitale appartiene da generazioni ad una famiglia. Un’occasione importante per ricordare il peso e il ruolo di una realtà imprenditoriale che per il Cantone, come del resto per tutta la Svizzera, rappresenta l’ossatura del sistema economico.
Basta pensare che da sole le 67 aziende ticinesi affiliate all’AIF hanno registrato nel 2016 un fatturato di quasi 2 miliardi di franchi, impiegando 3’800 collaboratori. Sebbene il 62% circa delle imprese del nostro Cantone e il 78% su scala nazionale abbiano una struttura familiare, si tratta di una realtà che, purtroppo, è spesso sottovalutata, se non ignorata, dal mondo politico.
Eppure negli anni più duri di questa ultima crisi, quelli che vanno dal 2008 al 2015, con i contraccolpi dell’abbandono del cambio fisso tra franco-euro, sono state soprattutto queste imprese a salvaguardare in Svizzera i livelli occupazionali, fronteggiando problemi e difficoltà non da poco per continuare ad investire nell’innovazione e restare competitive.
Le aziende “family business”, che in Ticino sono il principale contribuente per il fisco, costituiscono un articolato tessuto economico molto diversificato che si estende ad ogni settore produttivo. Si va da esercizi commerciali storici con oltre un secolo di attività, all’industria che dà lavoro a centinaia di persone, dalla piccola azienda artigianale o agricola con pochi dipendenti al gruppo bancario e alla grande multinazionale come la Rochedella famiglia Hoffmann. Per la loro stessa natura, connotata dall’impronta familiare, queste imprese possono vantare un più forte legame con il territorio in cui hanno costruito la loro storia, con le comunità locali, con i propri dipendenti, i fornitori e i clienti. Il nome della famiglia contrassegna, insomma, una cultura imprenditoriale che evidenzia un forte senso di responsabilità sociale. Anche quando hanno una chiara vocazione internazionale, esse non trascurano quelle radici territoriali in cui continuano ad identificarsi. Oltre che un fattore decisivo per la stabilità economica, sono quindi anche un potente motore di crescita e coesione sociale.

Le imprese familiari si distinguono per una cultura imprenditoriale che evidenzia una forte responsabilità sociale.

Per gli investimenti più che all’indebitamento ricorrono all’autofinanziamento, lavorano dunque con i propri soldi, secondo una logica che va ben al di là del “corto terminismo” della redditività immediata, orientandosi invece sul lungo periodo, pensando alla generazione futura per garantire la continuità aziendale. Ma l’enorme potenziale delle imprese familiari è oggi mortificato da una politica federale sempre meno liberale, da una burocrazia ancora più invasiva, da restrizioni e vincoli amministrativi che ne limitano la competitività e le prospettive di crescita. E, come ha ricordato il Professor Marco Bernasconi all’assemblea dell’AIF, sono pesantemente penalizzate da una pressione fiscale che in Ticino colpisce in modo particolare questo modello aziendale, con un’aliquota sulla sostanza del 3,5 per mille, vale a dire la stessa del 1950, mentre quella sul reddito è scesa dal 18% al 17% soltanto per effetto della tassazione annuale. Un quadro sconfortante per un patrimonio economico e sociale che andrebbe invece valorizzato e sostenuto, sia nella successione generazionale, che rappresenta sempre uno dei momenti più delicati e complessi per queste imprese, sia nel salto tecnologico imposto dalla nuova economia digitale che sta trasformando radicalmente la produzione di merci e servizi.

Esportazioni record nel primo semestre del 2017

di Monica Zurfluh, responsabile S-GE per la Svizzera italiana e Marco Passalia, vice direttore e responsabile Export Cc-Ti

Il commercio con l’estero continua ad essere il fiore all’occhiello dell’economia elvetica. Ne sono la dimostrazione le statistiche divulgate dall’Amministrazione federale delle dogane relative ai primi sei mesi di quest’anno.

La prima metà del 2017 ha fatto segnare un notevole progresso sia nel campo delle esportazioni (+ 4,4%) sia in quello delle importazioni (+ 4,8%). Mentre le prime toccano un livello record, le importazioni fanno registrare il più alto valore degli ultimi 8 anni. In ambedue le direzioni di traffico i prodotti chimici e farmaceutici hanno contribuito considerevolmente alla crescita globale. La bilancia commerciale chiude con un surplus di 19 miliardi di franchi.

Gli Stati Uniti trascinano i mercati

In esportazione, l’evoluzione positiva è stata segnata nei tre principali mercati. In particolare nell’America del Nord, gli Stati Uniti hanno avuto un balzo del 7% e l’Asia ha progredito del 6%. Le vendite in questo continente hanno registrato 1.3 miliardi di franchi. Con una progressione di un quinto, le cifre d’affari con la Cina hanno raggiunto un nuovo record. Singapore e la Corea del Sud hanno anche marcato una crescita a due cifre mentre il Giappone si è, per così dire, limitato a un +9%. Il Medio Oriente è invece caduto nelle cifre rosse con un -16%. Il continente europeo si è limitato a un +4%, di cui le nazioni più performanti sono state la Germania (+7%), imitata dal Belgio (+9%), seguite da Austria e Italia (+5%).

L’evoluzione positiva è stata segnata nei tre principali mercati. In particolare nell’America del Nord, gli Stati Uniti hanno avuto un balzo del 7% e l’Asia ha progredito del 6%.

Pioggia di primati per le esportazioni

Nel primo semestre del 2017 la crescita delle esportazioni è stata registrata per i due terzi dai prodotti chimico-farmaceutici. Questi ultimi hanno infatti segnato un +7% raggiungendo un livello storico. Gli altri settori trainanti dell’export, ovvero quello delle macchine e dell’elettronica, come anche l’orologeria, hanno avuto una stagnazione. Dopo però tre mesi di cifre negative, gli orologi svizzeri sono riusciti a fermare l’emorragia che li attanagliava da mesi.

L’orologeria sembra uscire dalla spirale negativa

Come indica anche la Federazione dell’industria orologiera svizzera (FH) in un comunicato stampa sui dati del primo semestre dell’anno, dopo mesi difficili, il settore si è progressivamente adattato al nuovo contesto nel quale dovrà evolvere. Le conseguenze negative sui mercati hanno in effetti fatto spazio a un re-indirizzamento, che si è già tramutato in una netta ripresa. Se le esportazioni orologiere svizzere non mostrano dappertutto il medesimo dinamismo, globalmente s’iscrivono in una tendenza stabile che mostra la fine di un periodo negativo. Secondo la FH, tale stabilità non sarà però attesa prima della fine dell’anno.

Durante i primi sei mesi del 2017, le esportazioni di orologi si sono attestate a 9.5 miliardi di franchi. Paragonando i risultati dello stesso periodo con l’anno precedente, vi è stata una leggera variazione del +0.1%. La Cina e il Regno Unito sono i Paesi che hanno trainato in positivo le cifre e che hanno giocato un ruolo fondamentale in questa evoluzione.

Sempre secondo la Federazione svizzera dell’orologeria, con un buon secondo trimestre (+3%), l’obiettivo per l’anno 2017 è così già raggiunto. La situazione resta comunque fragile localmente. Gli Stati Uniti non hanno preso parte alle cifre positive e alcuni mercati europei o asiatici sono ancora sotto stretta osservazione. La previsione per il 2017 resta dunque prudente, ma cela un certo ottimismo.

Pioggia di primati per le esportazioni

Nel primo semestre del 2017 la crescita delle esportazioni è stata registrata per i due terzi dai prodotti chimico-farmaceutici. Questi ultimi hanno infatti segnato un +7% raggiungendo un livello storico. Gli altri settori trainanti dell’export, ovvero quello delle macchine e dell’elettronica, come anche l’orologeria, hanno avuto una stagnazione. Dopo però tre mesi di cifre negative, gli orologi svizzeri sono riusciti a fermare l’emorragia che li attanagliava da mesi.

L’orologeria sembra uscire dalla spirale negativa

Come indica anche la Federazione dell’industria orologiera svizzera (FH) in un comunicato stampa sui dati del primo semestre dell’anno, dopo mesi difficili, il settore si è progressivamente adattato al nuovo contesto nel quale dovrà evolvere. Le conseguenze negative sui mercati hanno in effetti fatto spazio a un re-indirizzamento, che si è già tramutato in una netta ripresa. Se le esportazioni orologiere svizzere non mostrano dappertutto il medesimo dinamismo, globalmente s’iscrivono in una tendenza stabile che mostra la fine di un periodo negativo. Secondo la FH, tale stabilità non sarà però attesa prima della fine dell’anno.

Durante i primi sei mesi del 2017, le esportazioni di orologi si sono attestate a 9.5 miliardi di franchi. Paragonando i risultati dello stesso periodo con l’anno precedente, vi è stata una leggera variazione del +0.1%. La Cina e il Regno Unito sono i Paesi che hanno trainato in positivo le cifre e che hanno giocato un ruolo fondamentale in questa evoluzione.

Sempre secondo la Federazione svizzera dell’orologeria, con un buon secondo trimestre (+3%), l’obiettivo per l’anno 2017 è così già raggiunto. La situazione resta comunque fragile localmente. Gli Stati Uniti non hanno preso parte alle cifre positive e alcuni mercati europei o asiatici sono ancora sotto stretta osservazione. La previsione per il 2017 resta dunque prudente, ma cela un certo ottimismo.

Il futuro si crea adesso

Quest’interessante approfondimento che vi riproponiamo è stato pubblicato sull’edizione di Ticino Business di maggio 2017 e si inserisce nel discorso delle nuove forme di lavoro, già affrontato a più riprese dalla Cc-Ti, a cui abbiamo dedicato numerosi articoli e dossier.

Nuovi sistemi di transazione nel commercio di materie prime

Il commercio di materie prime è uno dei settori di punta che stanno trainando l’economia elvetica. Un ambito ai più forse sconosciuto, ma che genera il 3,5% del PIL nazionale. Dopo Ginevra e Zugo, Lugano ricopre un centro riconosciuto a livello mondiale dove hanno sede le maggiori aziende di commodity trading, attive soprattutto nel commercio di acciaio, petrolio, oro ma anche soft commodities come il grano. La professione di trader di materie prime è forse una delle più vecchie al mondo. I “traders” – i “commercianti” – hanno un ruolo fondamentale nelle nostre vite quotidiane. Che si tratti del nostro caffè, del cacao consumato dai più giovani, dal cotone di cui sono fatti i nostri vestiti, o dell’energia che ci dà calore o elettricità, niente di tutto ciò sarebbe possibile senza il lavoro dei commercianti in materie prime.

Un’innovativa rivoluzione digitale

Anche in questo settore è in atto un ulteriore e fondamentale cambiamento che porterà a nuove forme di lavoro. È infatti recente la dichiarazione del co-fondatore di Mercuria Marco Dunand, durante il Forum Economico di Davos il cui tema principale era proprio la digitalizzazione, di aver utilizzato con successo la tecnologia “blockchain” in alcune operazioni. “L’industria energetica dovrà mirare ad una sempre maggiore digitalizzazione nella produzione di petrolio, nella raffinazione e nel trasporto”, ha dichiaratore alla Reuters Dunand. Secondo il CEO della società petrolifera, il concetto che si cela dietro l’operazione è abbastanza semplice e cercheremo di spiegarlo in poche righe anche ai non addetti ai lavori. Oggi, quando il carico viene spedito, il capitano della nave deve timbrare in tre copie la cosiddetta polizza di carico (bill of lading), che poi viene spedita via posta in diverse direzioni. Anche per via raccomandata, questi documenti possono circolare per oltre un mese prima di giungere al destinatario finale, malgrado magari la merce debba essere pagata entro 30 giorni. Un tale sistema si rivela arcaico e ormai superato ai tempi di internet e di un mondo che viaggia nell’immediato. Il sistema blockchain permette di rendere tutto più veloce e tempestivo, facendo inoltre risparmiare denaro.

Un’operazione vantaggiosa

La transazione di Mercuria ha coinvolto una spedizione cargo di petrolio greggio africano che è stato venduto per tre volte durante il suo cammino verso la Cina. Muovendo le transazioni verso una versione privata della blockchain, una copia criptata della polizza di carico è stata inviata al venditore, mentre la piattaforma della banca olandese ING ha verificato che i documenti pertinenti erano conformi allo “smart contract” che aveva definito i termini della transazione. Il tempo medio impiegato dalla banca per completare il suo compito durante la transazione è stato di 25 minuti, contro le 3 ore che ci si impiegherebbe con i metodi tradizionali. Secondo il CEO di Mercuria, l’azienda ha così risparmiato circa il 30% sui costi della transazione.

I sistemi interbancari di pagamento sembrano stiano per subire una profonda trasformazione e i clienti richiedono una maggior sicurezza informatica.

Una grande alleanza spinta verso il futuro

I sistemi interbancari di pagamento sembrano stiano per subire una profonda trasformazione. I sistemi SWIFT sono obsoleti e i clienti richiedono una sempre maggior sicurezza informatica. Grazie al blockchain, un sistema di messaggeria e di registrazione a crittografia sicura in una banca dati comune, si possono effettuare operazioni tra investitori e imprese senza l’aiuto di terzi. Tale rivoluzione non sembrerebbe però minacciare l’esistenza stessa delle banche che già oggi hanno provveduto a fondare l’Enterprise Ethereum Alliance, un’alleanza che raggruppa circa una trentina di aziende tra cui grandi gruppi bancari come UBS, Credit Suisse, JP Morgan e ING, oltre a colossi dell’high tech come Microsoft e Intel, grandi aziende dell’energia e dell’informazione, tra cui Thomson Reuters, e startup. L’obiettivo di questa organizzazione, fondata lo scorso 28 febbraio, è la creazione di una versione standard del software Ethereum che potrà essere utilizzato in tutto il mondo per tenere traccia dei dati e dei contratti finanziari. Questa nuova alleanza, sotto il cappello di un’associazione senza scopo di lucro, è parte di un più vasto movimento che vuole utilizzare la tecnologia blockchain introdotta con la criptomoneta Bitcoin che nel 2009 fu proprio il primo prototipo di questa nuova tecnologia.

Come funziona?

Il blockchain utilizza un sistema simile a quello che ha permesso la creazione di Wikipedia, che si basa su un sistema decentralizzato e che permette di memorizzare dati senza però fare affidamento a un server centrale. Questa tecnologia risulta quindi essere molto più difficile da violare per gli hacker. Dopo il successo dei Bitcoin, la vera rivoluzione è avvenuta nel 2014 quando vi è stato lo sviluppo degli smart contract, i “contratti intelligenti”, ovvero software “scritti” su un blockchain, quindi una piattaforma comune, che verificano automaticamente tutte le condizioni prestabilite.

La nave verso la Cina, senza intoppi cartacei

Tornando al caso di Mercuria, l’introduzione di blockchain ha permesso di passare la merce dal compratore al mittente al venditore senza procedere attraverso i diversi documenti cartacei delle polizze di carico. Il CEO e co-fondatore di Mercuria Dunand ha dichiarato che se l’intero processo di transazione del commercio di petrolio si basasse interamente sulla tecnologia blockchain e sugli smart contract, il sistema potrebbe diventare più sicuro e i costi associati alle transazioni fisiche e al loro finanziamento potrebbero diminuire. Il caso di Mercuria non è isolato, anche Trafigura, con Natixis e IBM stanno lavorando su una soluzione blockchain per gestire le transazioni di greggio nel mercato statunitense. Il futuro quindi si sta creando adesso.

Se l’intero processo di transazione del commercio di petrolio si basasse interamente sulla tecnologia blockchain e sugli smart contract, il sistema potrebbe diventare più sicuro.

Nuove forme di lavoro?

Tali cambiamenti tecnologici portano in sé una profonda trasformazione della professione. Ciò non significa che diminuendo il supporto bancario nelle transazioni su blockchain verrebbero meno posti di lavoro nel settore. Vi sarà piuttosto un processo di trasformazione e disintermediazione che porterà a nuove forme di servizi e di consulenze. Serviranno inoltre nuove conoscenze, anche per gli aspetti legali, inerenti i contratti intelligenti e le loro implicazioni. Insomma, un nuovo modo di commerciare le materie prime, e non solo, che avrà ripercussioni su tutti i settori collegati. In effetti, lo ricordiamo, il commodity trading genera indirettamente lavoro per altre professioni altamente qualificate che ruotano attorno a competenze ben specifiche: spedizioni, trasporti, finanziamento delle operazioni, assicurazioni dei rischi, problematiche giuridiche, conoscenze di lingue straniere e così via.

La professione del futuro
Se alcuni metodi di lavoro, come quello della blockchain cambieranno il sistema delle transazioni, la professione del trader rimarrà molto ambita. Le aziende sono sempre alla ricerca di nuovi talenti offrendo prospettive e opportunità professionali interessanti. La Lugano Commodity Trading Association (LCTA) propone un certificato in studi avanzati (CAS) per tutte le persone interessate ad entrare a far parte di questo interessante settore. La terza edizione ha preso avvio questo mese di maggio e darà sicuramente la possibilità a nuove leve di entrare nel settore. Per maggior informazioni: www.lcta.ch/cas-commodity-professional.

Dare più senso al lavoro

Il tema della sostenibilità è centrale per la Cc-Ti, ne abbiamo parlato a più riprese, organizzando eventi, corsi e scrivendo numerosi approfondimenti. Vi proponiamo un’intervista a Heinz Zeller, Head of Sustainability and Logistics di Hugo Boss, che presenta il punto di vista di una grande azienda del settore della moda, dove la sostenibilità incide molto sulla reputazione del marchio. Inoltre la responsabilità ambientale e sociale è uno stimolo all’innovazione. Ritrovate qui il resoconto dell’evento sulla RSI e la strategia aziendale dello scorso mese di maggio, e rileggete anche la posizione della Cc-Ti in merito.

Signor Zeller, per quale motivo Hugo Boss ha creato il reparto “sustainability” di cui è il responsabile?

I primi passi sono stati fatti più di dieci anni fa. Allora il tema erano i rischi sociali nella supply chain come pure la possibile presenza di sostanze pericolose nei vestiti e per questo abbiamo iniziato a consultare degli esperti della sostenibilità. Poi nel 2012 era pronta la nostra road map della sostenibilità aziendale integrata concernente coerentemente ogni reparto, sia l’intera supply chain, lo sviluppo dei prodotti, sia le risorse umane ed il facility management.

Dove inizia esattamente la vostra sostenibilità?

Le persone desiderano che inizi all’origine, cioè dalla materia prima. Un compito esigente; ma lo stiamo realizzando. Inoltre abbiamo già iniziato a realizzare pienamente la sostenibilità per quanto attiene la produzione di cotone. Dopodiché anche i nostri imballaggi sono diventati più piccoli, con materiali certificati che sono sia decomponibili che riciclabili.

Cosa incide di più per Hugo Boss, la sostenibilità sociale o quelle ambientale?

In sostanza rispondo per tutto il settore della moda: prima viene la sostenibilità sociale, poi subito dopo il benessere degli animali, ancor prima dell’impatto ambientale. Ma importanti sono tutti e tre gli aspetti. Rinunciamo ad ogni prodotto di pelliccia, usiamo soltanto delle pelli ma che non siano di provenienza” esotica”. Riguardo le piume usiamo solamente materiali certificati per garantire una protezione massima degli animali. Abbiamo abbandonato anche la lana di angora.

Ovviamente il settore della moda è sotto stretta osservazione dagli animalisti ed ambientalisti.

Abbiamo discusso ampiamente sia con le categorie citate sia con tutti gli altri stakeholder e abbiamo loro dimostrato i nostri sforzi riguardo la sostenibilità. Dopo vari incontri e discussioni abbiamo potuto implementare delle misure condivise e l’intensa attenzione degli interessati menzionati è diminuita. Integrare la sostenibilità è un importante passo strategico.

Come stabilisce l’equilibrio della sostenibilità sociale e ambientale con le esigenze economiche?

Cerchiamo una collaborazione a lungo termine con diverse istituzioni o organizzazioni e ditte specializzate per sviluppare delle soluzioni innovative. Inoltre trasformiamo, per esempio, l’impatto ambientale in cifre finanziarie cioè ci chiediamo quanto grande o piccolo sia un tale impatto in termini di costi monetari. E così possiamo capire sia gli impatti e sia gli investimenti necessari per diminuire fenomeni negativi riguardo la sostenibilità.

Spesso si sente la seguente affermazione: chi trascura la sostenibilità avrà degli svantaggi economici pesanti.

Piuttosto direi che oggigiorno la sostenibilità significa un cambiamento necessario di pensiero. Nel settore della moda è necessario per i marchi: c’è il bisogno di un’alta qualità legata alla sostenibilità che da parte sua nel frattempo è ben radicata nelle teste della popolazione. Perciò ci vuole un’innovazione il cui stimolo è, appunto, la sostenibilità. Questa da più senso al lavoro, ai prodotti.

Dobbiamo avere delle idee chiare sull’impatto sociale ed ambientale per il benessere delle generazioni future.

Come si definirebbe questo senso?

I migliori talenti cercano sempre un senso nel lavoro che fanno. Vogliono avere delle visioni incentivanti del loro lavoro di cui, per essere concreti, fa parte proprio la sostenibilità. Questa implica una vita migliore in ogni senso.

Lei è anche responsabile della logistica di Hugo Boss. In quale misura questa può migliorare la sostenibilità ambientale dell’intera impresa?

Le faccio un esempio che concerne il trasporto di materiale dalla Cina: usiamo la nave o l’aeroplano? Nel mezzo di queste due soluzioni si trova il treno che è più costoso della nave ma anche più veloce e molto meno costoso dell’aeroplano – ed il suo impatto ambientale è basso. Alla fine una soluzione ideale per l’ambiente, dopo un investimento iniziale, porta spesso anche a notevoli risparmi economici, cioè riguardo gli operating costs.

Le grandi aziende hanno senz’altro i fondi per realizzare conseguentemente la sostenibilità. Le PMI invece fanno spesso fatica a trovare mezzi e risorse.

Aziende che vengono fondate oggigiorno sovente già nascono, per così dire, con l’idea della sostenibilità indipendentemente dalla loro grandezza. Il settore della moda può contribuire alla sostenibilità, fra l’altro, anche tramite la digitalizzazione che riduce il tempo per realizzare delle collezioni, con meno impatti ambientali grazie ad un minor e più preciso uso dei materiali. Studi del mondo economico hanno evidenziato che un leader nella sostenibilità diventa più facilmente un leader dell’innovazione e sopravvive a lungo termine.

Qual è la sua visione della sostenibilità futura?

Dobbiamo avere delle idee chiare sull’impatto sociale ed ambientale per il benessere delle generazioni future. E tutto ciò, fra l’altro, per la sopravvivenza delle aziende nel mondo economico.

Il libero mercato è un processo in divenire

Parliamo ancora di opportunità offerte dal libero commercio, tema fondamentale per la prosperità svizzera e, di conseguenza, delle aziende del nostro territorio. Leggete anche i diversi approfondimenti di un dossier dedicato al tema, già pubblicato su Ticino Business di aprile 2017.

Che il libero mercato sia un elemento imprescindibile per garantire il nostro benessere è stato chiarito a più riprese dalle colonne di Ticino Business. Da ultimo ricordiamo l’intervento sul numero di marzo 2017  intitolato “Il protezionismo è una minaccia per la nostra economia”. È pertanto innegabile che quella che sembra ormai una diffusa tendenza globale alla chiusura preoccupa non poco, soprattutto per una nazione a forte vocazione di esportazione come la Svizzera. Quando si parla di protezionismo la Svizzera, come tutte le altre nazioni al mondo, lo applica in taluni campi sensibili, forse anche a ragione. Si cerca di tutelare le competenze presenti sul nostro territorio e anche la nostra qualità, come appunto fanno tutti, in varie misure. È evidente che la linea fra difesa degli interessi nazionali e politica protezionistica è assai sottile e può prestarsi a molte interpretazioni, più o meno legittime. E non si rimette nemmeno in discussione che l’apertura, rivelatasi sempre benefica nel corso della storia, debba spesso essere gestita per mettere qualche paletto correttivo.

La chiusura comporta delle conseguenze

È però importante rilevare che gli impeti di chiusura non sono neutrali dal punto di vista delle conseguenze. A partire dalla difficoltà di coniugare le visioni diverse fra chi, nel contesto di un tessuto economico forte perché differenziato, si dedica in buona parte all’export e deve combattere quotidianamente nell’arena globale e chi invece è prevalentemente orientato al mercato interno. Le aziende del primo gruppo necessitano di mercati senza grosse barriere, le seconde invece spesso premono per metterne a loro tutela. Nel breve periodo una protezione può essere vantaggiosa, sia per l’azienda che per il consumatore, ma alla lunga la mancanza di concorrenza potrebbe portare a meno innovazione, a minori spinte di cambiamento e quindi lentamente ad erogare un servizio o creare un prodotto meno performante, a svantaggio dei consumatori. A svantaggio quindi di tutti noi. Non fraintendiamo, la nicchia ben sfruttata o magari anche un privilegio quasi unico concesso ad una o poche aziende non è per forza negativo e ci sono molti esempi di aziende che, anche operando in queste condizioni, rimangono competitive, a vantaggio di molti, se non tutti. Ma in generale l’apertura (con i necessari correttivi) ha sempre dato risultati migliori della chiusura, anche e soprattutto in termini di benessere generale, malgrado a volte la percezione sia di segno contrario. Per questo è fondamentale che la politica svolga il suo lavoro varando o abrogando leggi, vigilandone sul rispetto, ecc., ma sempre mantenendo come obiettivo quello di un mercato il più aperto possibile.

La Cc-Ti continuerà a battersi per il libero mercato, che non significa anarchia, ma poche regole certe che danno sicurezza.

L’importanza dell’accordo per l’eliminazione degli ostacoli tecnici al commercio

In questo contesto basti pensare ai tanto deprecati Accordi bilaterali fra Svizzera e Unione europea, caratterizzati quasi solo dalla discussione sulla libera circolazione delle persone. Fondamentale è l’accordo che riguarda l’eliminazione degli ostacoli tecnici al commercio, meno famoso e scottante rispetto alla libera circolazione delle persone, ma importantissimo per le aziende perché facilita in maniera considerevole le procedure, permettendo di risparmiare molti costi e aumentandone la competitività nel contesto del fondamentale mercato europeo. La riduzione delle differenze fra le norme di omologazione e quindi una maggiore omogeneità nella valutazione di conformità dei prodotti è un tassello che facilita enormemente il lavoro delle aziende e prima di norme che possono ostacolare il commercio. Prima del 2002, senza gli accordi bilaterali, occorreva tenere conto anche di questa complessità nel fare affari con i paesi europei: senza questa difficoltà, le aziende svizzere hanno risparmiato e risparmiano centinaia di milioni, reinvestiti nei loro fattori competitivi. Chiaramente si faceva business anche senza gli accordi bilaterali ed era possibile, ma ogni norma che favorisce la semplificazione degli scambi commerciali aiuta ovviamente in maniera decisiva le nostre aziende. Senza dimenticare che in generale la politica svizzera degli Accordi di libero scambio è una carta vincente per il nostro benessere, tanto che regolarmente il nostro paese conclude tali accordi molto prima di quanto non facciano entità economiche più pesanti della nostra.

L’esempio del “Cassis de Djion”

Polemiche aveva scatenato qualche tempo fa anche l’introduzione del principio del “Cassis de Djion”. Ricordiamo che secondo tale principio i prodotti fabbricati e venduti legalmente nell’UE possono essere venduti anche in Svizzera senza particolari controlli. È prevista una regolamentazione speciale per le derrate alimentari, dato che si tratta di prodotti particolarmente sensibili. Siamo oramai ad alcuni anni di distanza dall’introduzione di questa regola e si può quindi dare uno sguardo al passato, analizzando le paure e le obiezioni espresse al riguardo prima della messa in opera di questo accordo, contestualizzandolo con quello che poi effettivamente è successo. Ed è successo poco, per la verità. In ogni caso nulla di grave, perché dopo i timori concernenti l’idraulico polacco, tale principio aveva scatenato i timori dell’invasione di yoghurt bulgari. Gli effetti sull’ “Isola dei prezzi alti” non sono forse stati così forti come auspicava il Consiglio Federale a suo tempo, ma non vi sono nemmeno stati effetti nefasti come quelli ipotizzati dai contrari, perché non si è vista un’invasione massiccia di beni europei a bassa qualità come si temeva. Insomma, questo esempio concreto mostra che, quando si parla del libero mercato, ansie e timori possono giocare brutti scherzi ma poi, a conti fatti, essi rimangono spettri quasi intangibili. Rimane il fatto che leggi e regolamenti sullo stile del “Cassis de Dijon”, con gli opportuni correttivi quando si parla di determinati elementi qualitativi, sono una buona strada da percorrere per mantenere il nostro mercato competitivo.

La tutela del libero mercato

Per fare business è ovvio che bisogna però essere almeno in due. È importante che noi ci impegniamo a tutelare il libero mercato e gli strumenti tecnici e giuridici che lo consentono (ad esempio gli accordi bilaterali o strumenti affini), ma è altresì importante avere dei partner che agiscano nella stessa maniera. Una debolezza svizzera è forse quella di voler essere quasi sempre i primi della classe, applicando pedissequamente ogni genere di accordo, mentre a volte i partner non sono così precisi. È un elemento che andrebbe riconosciuto maggiormente, non per mettere in dubbio la politica svizzera in generale, ma per evitare strumentalizzazioni politiche che, alla fine, inficiano i principi di base del libero mercato. Niente è perfetto, nessun accordo può esserlo, ma la politica di apertura economica deve continuare, indipendentemente dagli strumenti giuridici utilizzati. Un mondo aperto agli scambi è un mondo in cui il benessere può prosperare. Questo, come già detto, non significa evitare i necessari correttivi, che si chiamino misure d’accompagnamento come nel caso degli accordi bilaterali con l’UE o altro. Perché una politica di apertura economica non è inconciliabile con la difesa degli interessi nazionali o cantonali. Ma affossare qualcosa che funziona è pericoloso. Sostenere sempre che tutto va male e che dobbiamo cambiare sistema, senza peraltro indicare vie praticabili di come si vuole cambiare le cose, non è un modo di procedere costruttivo e porta a una chiusura che ottiene esattamente il contrario dello scopo che in teoria essa persegue. Illudendosi di garantire una protezione onnipresente, si chiudono sbocchi essenziali perché il paese possa prosperare. Da questo punto di vista manca probabilmente una visione di sistema che possa andare oltre le questioni individuali, certo spesso difficili e comunque da risolvere, ma che non possono essere il solo parametro per definire il funzionamento di base del paese. Purtroppo questa è una tendenza di un contesto storico e politico mondiale ostile alla globalizzazione. Alcune ragioni sono più che comprensibili perché gli indicatori mondiali di segno positivo sulla globalizzazione non interessano alle persone toccate nella loro esistenza ad esempio da una concorrenza estera a minor prezzo che ha cancellato certi posti di lavoro. La reazione umana è quella di pensare a limitare gli scambi commerciali con barriere di varia natura, ma non sempre è la decisione giusta. Correttivi sì, soppressione del libero mercato no. Purtroppo oggi è più popolare la tesi che la difesa degli interessi nazionali passa per la chiusura economica.

Nel breve periodo una protezione può essere vantaggiosa, sia per l’azienda che per il consumatore, ma alla lunga la mancanza di concorrenza potrebbe portare a meno innovazione e a minori spinte di cambiamento… A svantaggio quindi di tutti noi.

La Cc-Ti in difesa della libertà economica

La Cc-Ti continua a difendere la libertà economica e imprenditoriale e le libertà in generale, che sono tutt’altro che acquisite. Come già detto a più riprese, ciò non significa essere stoltamente bloccati su posizioni ideologiche e il nostro comportamento in questi anni lo sta a dimostrare. Mai ci siamo opposti a sanzioni per chi ignora le regole, né abbiamo combattuto i correttivi introdotti in maniera equilibrata. L’economia, malgrado quello che possono pensare taluni, non è interessata a creare tensioni sociali, perché il quadro in cui essa opera è molto più vantaggioso se caratterizzato da una situazione tranquilla (in Svizzera si chiama anche pace sociale). Opporsi a soluzioni apparentemente facili, dal grande effetto mediatico ma povere di contenuti concretizzabili non significa ignorare i problemi. Ma la difesa dei principi generali che caratterizzano il sistema liberale e la tutela degli imprenditori è essenziale per il funzionamento della nostra struttura e un’economia funzionante, sana e rispettosa del quadro legislativo e istituzionale come quella che difendiamo è la migliore tutela per il benessere di tutti i cittadini. Regole certe, migliorabili ma senza colpi di testa dettati dalle emozioni, restano essenziali per salvaguardare il principio di legalità, uno degli elementi fondanti della stabilità svizzera. Anche tale principio è assai sotto pressione alle nostre latitudini e questo non va assolutamente bene. Le leggi possono e devono essere modificate, questo è ovvio. Ma ignorare che ci sono per dare spazio a cose astruse, scientemente incompatibili con le basi legali esistenti, tanto per vedere l’effetto che fa è assurdo. Continueremo quindi a batterci per il libero mercato, che non significa anarchia, ma poche regole certe che danno sicurezza. Convinti che questo sia un modo intelligente per continuare ad avere il miglior contesto possibile in cui le aziende possano operare e prosperare, con risvolti positivi per tutti.

Lavoro: trasformazione sociale e digitale

Vogliamo riproporvi la nostra posizione sul tema della trasformazione sociale in relazione alle nuove forme di lavoro. Si parla di generazione X e Y, di baby-boomers, ma anche di formazione e digitalizzazione. Un mondo che cambia e che offre spunti per nuove opportunità per le aziende.

Un famoso adagio recita che il lavoro nobilita l’uomo. Oggi diremmo piuttosto che, almeno in parte, l’uomo trasforma il lavoro e che lo rende o cerca di renderlo in qualche modo più consono alle esigenze di vita, attuali che si sono pure profondamente trasformate negli ultimi decenni. La definizione di lavoro è mutata fortemente nel tempo, come spiegato nell’articolo “Per una nuova cultura del lavoro” apparso su Ticino Business di maggio 2017, anche se resta uno dei perni centrali della vita, sia per le nuove leve che per chi ha già molti anni di esperienza sul campo. Ma il mondo del lavoro, da sempre in trasformazione, sta conoscendo mutamenti repentini e sono nati, stanno nascendo e nasceranno nuovi modelli di lavoro sempre più diversificati, grazie o a causa delle molte possibilità offerte dalla tecnologia. In questo contesto è ovviamente di particolare attualità la questione demografica, con le sue importanti implicazioni sull’aspetto previdenziale. Molte possibilità, molte innovazioni, ma paradossalmente una situazione complessiva che rischia di essere sempre più complicata e caratterizzata dall’esigenza di soluzioni “su misura”, non solo per le aziende ma anche per le lavoratrici e i lavoratori.

I baby-boomers e le nuove leve

Recentemente è stato pubblicato il nuovo documento dell’Ufficio cantonale di statistica (USTAT) denominato “Scenari demografici per il Cantone Ticino e le sue regioni, 2016-2040,” il quale ci fa riflettere su come si presenta e come evolverà la struttura della popolazione nel nostro Cantone. Fa riflettere il fatto che la popolazione ticinese invecchierà e attorno al 2035 la generazione del baby-boom si ritroverà nella fascia degli ultrasessantacinquenni. Essi saranno quindi già in pensione, oppure potranno continuare a lavorare secondo i nuovi modelli di lavoro che si stanno delineando in questi anni. In pratica tra 20 anni potremmo avere una eterogeneità di età di persone al lavoro che probabilmente non si è mai vista nella storia! Perché accanto a una parte di loro ci saranno la generazione Y (nati tra il 1982 e il 1996), che nel 2035 avranno tra i 40 e 50 anni, e le nuove leve della generazione Z.

Per trarre il maggior numero di vantaggi da questi cambiamenti, è imprescindibile affrontare l’evoluzione anche dal punto di vista della cultura d’impresa.

Le nuove generazioni intendono il lavoro diversamente

Il quadro è quindi quello di una crescente diversità di età sul posto di lavoro e questo implica, già adesso, una varietà di modelli lavorativi. Il concetto dello stesso posto di lavoro per una vita e sempre a tempo pieno è oramai sempre più rimesso in discussione oggigiorno. E non solo per la vera o presunta precarietà, ma anche per la volontà delle lavoratrici e dei lavoratori. La tecnologia ha avuto un grande impatto sulle società e forse la generazione Y è la prima che ha interiorizzato così profondamente le possibilità che essa fornisce. Quella che un tempo era solo precarietà, oggi viene vista anche come flessibilità, con un’accezione positiva nel senso di una nuova possibilità di organizzare la propria vita e di svilupparsi in maniera poliedrica. Senza negare che vi siano problemi in questo processo di cambiamento, non va dimenticato il rovescio positivo della medaglia che ci sta portando verso modelli di lavoro sempre più diversificati e individualizzati. Questo porterà anche i datori di lavoro ad affrontare nuove sfide. Occorrerà pensare in maniera diversa per attrarre e mantenere i giovani talenti. Al contempo bisognerà trovare un equilibrio interno di gestione tra loro e i colleghi di generazioni diverse, abituati a un modo di approcciarsi al lavoro magari più tradizionale. La gestione di nuovi modelli di lavoro, e nuovi modelli di business in generale, è un compito affascinante ma al contempo molto impegnativo per le aziende, perché la rimessa in questione di molte cose date per acquisite è molto profonda e tocca tanti ambiti.

Una nuova cultura aziendale

Per riuscire a cavalcare e non subire questi cambiamenti e per trarne il maggior numero di vantaggi per tutti, è imprescindibile affrontare l’evoluzione anche dal punto di vista della cultura d’impresa. Questo va ben oltre la gestione del tempo parziale o del lavoro flessibile, c’è la necessità di ragionare, nel limite del possibile dell’attività condotta dalla propria azienda, a modi diversi di intendere la presenza sul luogo di lavoro e gli orari in cui esso viene svolto. Si può pensare a forme di collaborazioni diverse con i propri collaboratori come l’attività di free-lance, o concedere che essi possano svolgere più incarichi. Anche la possibilità di congedi che vanno oltre gli stop classici come quelli per maternità saranno necessari per motivare e mantenere in azienda le nuove generazioni. Si lavorerà più a lungo ma in modo probabilmente diverso. Come Cc-Ti siamo coscienti che quanto sopra esposto non è di facile attuazione e dipende da moltissimi fattori, avantutto le strutture aziendali e i modelli di business, che sono molto differenti da azienda a azienda, anche nello stesso settore. Specialmente in contesto caratterizzato da continui e repentini mutamenti e un aumento della concorrenza globale. Ma siamo fiduciosi che le aziende sapranno raccogliere anche questa sfida, come hanno dimostrato di saper fare in tempi recenti gestendo al meglio gravi crisi. Certo è che anche il contesto politico generale deve rendersi conto dei mutamenti e aprirsi a soluzioni nuove, senza arroccarsi sulla difesa a oltranza di modelli ampiamente superati dalla realtà del terreno. Non si tratta di far saltare tutte le regole, anzi. Ma quelle che ci sono devono corrispondere alle esigenze reali espresse da chi lavora.

Il valore della formazione

Abbiamo sempre considerato la formazione una parte importante della vita di ogni azienda. Non a caso da anni offriamo ai nostri associati la possibilità di scegliere tra una vasta gamma di corsi per migliorare le conoscenze del proprio capitale umano. Ma il valore che assumerà la formazione negli anni a venire travalica quanto considerato in passato e assumerà una rilevanza ancora più strategica. Questo perché collaboratrici e collaboratori dovranno costantemente rimanere al passo ad esempio con l’evoluzione tecnologica, per sfruttarne al meglio le potenzialità. Il gioco di squadra fra datori di lavoro e dipendenti è fondamentale in quest’ottica, soprattutto per la generazione nata prima degli anni ‘80. Mentre per le nuove leve l’attenzione per l’acquisizione di competenze tecniche sarà una spinta importantissima per la considerazione e la soddisfazione verso il proprio lavoro.

Le sfide legislative e previdenziali

Abbiamo un diritto del lavoro pensato per un mondo che è già molto cambiato. Si veda ad esempio le “nuove” regole della Seco sul modo in cui si deve registrare il tempo di lavoro. Esse sono sì frutto di un compromesso, ma sono già vecchie perché pensate per modelli di business più rigidi di ciò che sta avvenendo sul terreno. Disposizioni coraggiose e al passo con i tempi avrebbero dovuto essere di altro tenore. Il che non significa sdoganare abusi o liberalizzare in modo selvaggio, bensì tenere conto del fatto che l’economia oggi è molto più complessa e ha esigenze di operatività ben diverse rispetto a qualche anno fa. Ovviamente in questo contesto va ripensato anche il metodo di finanziamento della previdenza, tema di grande attualità non solo in Svizzera ma in tutto il mondo occidentale. La riforma 2020 su cui si voterà prossimamente pensa al futuro assumendo che le nuove generazioni faranno come le precedenti, solo più a lungo. E questo è probabilmente un punto debole della riflessione. Si lavorerà più a lungo, forse, ma comunque in modo diverso e questo purtroppo non è stato preso in considerazione. Come si farà con i “buchi contributivi” magari dati da un periodo di stop oppure per un periodo lavorativo all’estero, che con la moderna mobilità potrà essere sempre più frequente? Tanti quesiti che i 70 franchi in più di rendita proposti per l’AVS non potranno risolvere. La previdenza professionale, ma soprattutto quella facoltativa del terzo pilastro dovranno probabilmente assumere maggiore importanza, ma definire come è, occorre ammetterlo, un compito assai arduo.

La gestione del cambiamento sarà fondamentale

Le nuove forme di lavoro saranno trainate da cambiamenti di ordine demografico e sociologico importante e l’unico punto fermo che al momento si può intravvedere è che ci saranno probabilmente sempre meno punti fermi. Sembra un paradosso, ma è così e non è per forza solo negativo. In questo senso la gestione del cambiamento in azienda sarà vieppiù un tema caldo per dirigenti e collaboratrici e collaboratori. Imparare ad accettare il mondo che cambia e muoversi con lui è sicuramente una buon via per mantenersi al passo con i tempi. Essere in sintonia con il momento storico in cui si vive è quindi un obbiettivo da tenere bene in vista per la navigazione nelle acque imprevedibili dei nostri giorni.

Interessati ad approfondire maggiormente il tema?
Scaricate il dossier tematico sulle nuove forme di lavoro, pubblicato sull’edizione di maggio 2017 di Ticino Business, cliccando qui.