Intervista a Glauco Martinetti, Presidente Cc-Ti e CEO Rapelli SA
Occuparsi di sostenibilità porta vantaggi economici per le aziende. Per questo la Cc-Ti da tempo approfondisce il tema della responsabilità sociale e ambientale, a cui ha dedicato eventi, corsi e seminari. Tutto questo è sottolineato nell’intervista, che vi riproponiamo, al Presidente Cc-Ti e CEO della Rapelli SA Glauco Martinetti. Ritrovate anche la nostra posizione sulla RSI direttamente al seguente link.

Signor Martinetti, ci sono tre aspetti della sostenibilità per una azienda: quello ambientale, sociale e non da ultimo quello economico. Come farli sviluppare in sintonia?
Non è evidente. Ma le aziende che sono molto attente all’ambito sociale lo sono anche nel contesto ambientale e di solito hanno anche un successo economico. In tale modo si trova quasi automaticamente un equilibrio. Non è una regola, ma mi sembra che colui che è molto attento all’ambito sociale ha dei collabollatori motivati. E chi fa molta attenzione alla tematica ambientale di solito risparmia soldi, e questo porta anche ad una sostenibilità economica.
Quali sono i vantaggi della sostenibilità per le imprese?
Nell’ambito sociale la sostenibilità porta veramente ad una buona motivazione del collaboratore. Una conseguenza poi è la fidelizzazione dello stesso verso l’azienda. Il discorso ambientale invece evoca nei consumatori attenti, e ce ne sono sempre di più, una fidelizzazione al prodotto e quindi dei volumi di vendita buoni, costanti – e appunto sostenibili.
La conclusione sarebbe che oggigiorno la sostenibilità è decisiva per il successo economico.
E proprio così. Per i clienti che apprezzano molto il prodotto si va sempre di più da un semplice prodotto di consumo verso, se si può dire, una religione. Un consumatore inizia a diventare un fan e alla fine, come nel caso dello smartphone, sembra diventare una specie di evangelista del prodotto, dicendo agli altri che devono assolutamente acquistarlo.
Quindi chi trascura la sostenibilità fronteggerà degli svantaggi pesanti?
Guardando i modelli di business futuri credo che la sostenibilità vi debba far parte in modo considerevole. Non credo che oggigiorno un’azienda possa non prestare attenzione alla sostenibilità sociale, ambientale ed economica perché altrimenti l’attività aziendale viene resa più difficile.
Le aziende devono trovare un equilibrio tra i contesti sociale, economico ed ambientale per puntare al successo.
A quale punto siamo in Ticino rispetto alla Svizzera tedesca per esempio?
Dal mio punto di vista personale gli svizzeri tedeschi hanno una sensibilità, soprattutto ambientale, un po’ più sviluppata, ma il Ticino sta recuperando.
Cosa possono fare concretamente le aziende per migliorare il loro approccio verso la sostenibilità?
Molto dipende dal settore. Ma ritengo che per prima cosa sia necessario scegliere se iniziare dal lato sociale o ambientale. Nella mia azienda la scelta è stata facile: iniziare dalla sostenibilità ambientale per poi passare alla sostenibilità sociale. E alla fine questo ha garantito una sostenibilità economica.
Impiego a tempo parziale, lavoro interinale, telelavoro, job-sharing, lavoro su chiamata, freelance: tutti questi sembrano di diventare i tipici modelli di lavoro per via della digitalizzazione. Ma sono anche sostenibili?
Non penso che questi modelli siano per forza non sostenibili. Sono modelli voluti da parecchie persone. Conosco, per esempio, diverse coppie di amici che non lavorano entrambi a tempo pieno perché sia la moglie che il marito lavorano a tempo parziale ed accumulano i loro redditi. Questo risponde ovviamente ad un bisogno e quindi credo che i menzionati modelli di lavoro possano avere anche una buona sostenibilità sociale.
Questi nuovi modelli di lavoro concerneranno verosimilmente le imprese piuttosto grandi.
Qui il punto centrale è l’organizzazione. Come riesco ad inserire delle persone che lavorano a percentuali e orari differenti nel sistema produttivo? Non incide tanto la grandezza dell’azienda, ma il grado di organizzazione del lavoro. Sia una PMI sia una grande aziende dovrebbero essere molto ben organizzate a questo riguardo.
Credo che il mondo che sta per arrivare sarà un mondo più flessibile e più trasparente a riguardo delle condizioni di lavoro. E quindi anche più sostenibile, proprio grazie alla digitalizzazione.
E in quanto al dumping salariale e al lavoro nero? Aumenteranno tali problemi a causa della digitalizzazione o verranno meglio controllati grazie alla crescente coscienza di sostenibilità sociale?
A mio avviso la digitalizzazione porta anche ad una maggiore trasparenza. E questa non credo porti verso il dumping, anzi. Se c’è più trasparenza sul mercato del lavoro si è più lontani dalle logiche di dumping e del lavoro nero. Credo che il mondo che sta per arrivare sarà un mondo più flessibile e più trasparente a riguardo delle condizioni di lavoro. E quindi anche più sostenibile, proprio grazie alla digitalizzazione.
A proposito della digitalizzazione e sostenibilità sociale: gli over 50 saranno anche in futuro svantaggiati nella ricerca di un lavoro?
Attualmente abbiamo un gap culturale che, a seconda della formazione, può iniziare all’età di cinquanta o sessant’anni. Ciò significa: una persona che ha seguito delle formazioni accademiche probabilmente oggi a cinquanta anni non rischia di essere esclusa dal mercato del lavoro proprio per via della digitalizzazione, anzi le sue competenze sono in linea con quanto richiesto dal mercato. Mentre una persona coetanea con una scolarizazzione molto bassa rischia invece di esserne fuori. Credo quindi che oltre all’età incida molto il grado di formazione delle persone.
Sembra quindi che la sostenibilità sociale dipenda anche molto dalla formazione continua.
Questo è un punto determinante. La formazione continua a livello aziendale, ma anche del singolo individuo, è un elemento centrale della sostenibilità sociale perché permette ad una persona di tenersi continuamente al passo con i tempi.
Cosa può fare la Cc-Ti concretamente per la sostenibilità in generale?
Il ruolo della Cc-Ti è innanzitutto quello di spiegare ai nostri associati l’importanza della tematica e il suo valore strategico. La Camera stessa offre dei corsi pratici in cui si parla sempre di più di sostenibilità e di best practices ed organizza anche degli eventi per incentivare la discussione sul tema. Si tratta quindi di mostrare in concreto che la sostenibilità è importante in tutti gli ambiti, come abbiamo fatto recentemente a Stabio.
Dal suo punto di vista qual è stato il messaggio principe di tale evento?
Abbiamo presentato un’ azienda di moda e una dell’alimentare e evidenziato il fatto che si può parlare di sostenibilità in mondi totalmente differenti. Il nostro compito è quello di spiegare l’importanza e gli aspetti positivi della sostenibilità per le aziende.
E rendere più sensibile anche il mondo della politica?
Credo che la politica abbia capito benissimo. Ma non possiamo scaricare alla politica un compito che è prettamente aziendale. La responsabilità sociale è un compito che dobbiamo portare avanti noi. E le aziende stanno davvero facendo il loro dovere, andando sempre di più in questa direzione. La sostenibilità è davvero un tema trattato dalle aziende.
Di sostenibilità aziendale e strategia d’impresa si è parlato nell’evento della Cc-Ti dello scorso maggio, rileggete i dettagli cliccando qui.
Il libero mercato è un processo in divenire
/in Comunicazione e mediaParliamo ancora di opportunità offerte dal libero commercio, tema fondamentale per la prosperità svizzera e, di conseguenza, delle aziende del nostro territorio. Leggete anche i diversi approfondimenti di un dossier dedicato al tema, già pubblicato su Ticino Business di aprile 2017.
Che il libero mercato sia un elemento imprescindibile per garantire il nostro benessere è stato chiarito a più riprese dalle colonne di Ticino Business. Da ultimo ricordiamo l’intervento sul numero di marzo 2017 intitolato “Il protezionismo è una minaccia per la nostra economia”. È pertanto innegabile che quella che sembra ormai una diffusa tendenza globale alla chiusura preoccupa non poco, soprattutto per una nazione a forte vocazione di esportazione come la Svizzera. Quando si parla di protezionismo la Svizzera, come tutte le altre nazioni al mondo, lo applica in taluni campi sensibili, forse anche a ragione. Si cerca di tutelare le competenze presenti sul nostro territorio e anche la nostra qualità, come appunto fanno tutti, in varie misure. È evidente che la linea fra difesa degli interessi nazionali e politica protezionistica è assai sottile e può prestarsi a molte interpretazioni, più o meno legittime. E non si rimette nemmeno in discussione che l’apertura, rivelatasi sempre benefica nel corso della storia, debba spesso essere gestita per mettere qualche paletto correttivo.
La chiusura comporta delle conseguenze
È però importante rilevare che gli impeti di chiusura non sono neutrali dal punto di vista delle conseguenze. A partire dalla difficoltà di coniugare le visioni diverse fra chi, nel contesto di un tessuto economico forte perché differenziato, si dedica in buona parte all’export e deve combattere quotidianamente nell’arena globale e chi invece è prevalentemente orientato al mercato interno. Le aziende del primo gruppo necessitano di mercati senza grosse barriere, le seconde invece spesso premono per metterne a loro tutela. Nel breve periodo una protezione può essere vantaggiosa, sia per l’azienda che per il consumatore, ma alla lunga la mancanza di concorrenza potrebbe portare a meno innovazione, a minori spinte di cambiamento e quindi lentamente ad erogare un servizio o creare un prodotto meno performante, a svantaggio dei consumatori. A svantaggio quindi di tutti noi. Non fraintendiamo, la nicchia ben sfruttata o magari anche un privilegio quasi unico concesso ad una o poche aziende non è per forza negativo e ci sono molti esempi di aziende che, anche operando in queste condizioni, rimangono competitive, a vantaggio di molti, se non tutti. Ma in generale l’apertura (con i necessari correttivi) ha sempre dato risultati migliori della chiusura, anche e soprattutto in termini di benessere generale, malgrado a volte la percezione sia di segno contrario. Per questo è fondamentale che la politica svolga il suo lavoro varando o abrogando leggi, vigilandone sul rispetto, ecc., ma sempre mantenendo come obiettivo quello di un mercato il più aperto possibile.
L’importanza dell’accordo per l’eliminazione degli ostacoli tecnici al commercio
In questo contesto basti pensare ai tanto deprecati Accordi bilaterali fra Svizzera e Unione europea, caratterizzati quasi solo dalla discussione sulla libera circolazione delle persone. Fondamentale è l’accordo che riguarda l’eliminazione degli ostacoli tecnici al commercio, meno famoso e scottante rispetto alla libera circolazione delle persone, ma importantissimo per le aziende perché facilita in maniera considerevole le procedure, permettendo di risparmiare molti costi e aumentandone la competitività nel contesto del fondamentale mercato europeo. La riduzione delle differenze fra le norme di omologazione e quindi una maggiore omogeneità nella valutazione di conformità dei prodotti è un tassello che facilita enormemente il lavoro delle aziende e prima di norme che possono ostacolare il commercio. Prima del 2002, senza gli accordi bilaterali, occorreva tenere conto anche di questa complessità nel fare affari con i paesi europei: senza questa difficoltà, le aziende svizzere hanno risparmiato e risparmiano centinaia di milioni, reinvestiti nei loro fattori competitivi. Chiaramente si faceva business anche senza gli accordi bilaterali ed era possibile, ma ogni norma che favorisce la semplificazione degli scambi commerciali aiuta ovviamente in maniera decisiva le nostre aziende. Senza dimenticare che in generale la politica svizzera degli Accordi di libero scambio è una carta vincente per il nostro benessere, tanto che regolarmente il nostro paese conclude tali accordi molto prima di quanto non facciano entità economiche più pesanti della nostra.
L’esempio del “Cassis de Djion”
Polemiche aveva scatenato qualche tempo fa anche l’introduzione del principio del “Cassis de Djion”. Ricordiamo che secondo tale principio i prodotti fabbricati e venduti legalmente nell’UE possono essere venduti anche in Svizzera senza particolari controlli. È prevista una regolamentazione speciale per le derrate alimentari, dato che si tratta di prodotti particolarmente sensibili. Siamo oramai ad alcuni anni di distanza dall’introduzione di questa regola e si può quindi dare uno sguardo al passato, analizzando le paure e le obiezioni espresse al riguardo prima della messa in opera di questo accordo, contestualizzandolo con quello che poi effettivamente è successo. Ed è successo poco, per la verità. In ogni caso nulla di grave, perché dopo i timori concernenti l’idraulico polacco, tale principio aveva scatenato i timori dell’invasione di yoghurt bulgari. Gli effetti sull’ “Isola dei prezzi alti” non sono forse stati così forti come auspicava il Consiglio Federale a suo tempo, ma non vi sono nemmeno stati effetti nefasti come quelli ipotizzati dai contrari, perché non si è vista un’invasione massiccia di beni europei a bassa qualità come si temeva. Insomma, questo esempio concreto mostra che, quando si parla del libero mercato, ansie e timori possono giocare brutti scherzi ma poi, a conti fatti, essi rimangono spettri quasi intangibili. Rimane il fatto che leggi e regolamenti sullo stile del “Cassis de Dijon”, con gli opportuni correttivi quando si parla di determinati elementi qualitativi, sono una buona strada da percorrere per mantenere il nostro mercato competitivo.
La tutela del libero mercato
Per fare business è ovvio che bisogna però essere almeno in due. È importante che noi ci impegniamo a tutelare il libero mercato e gli strumenti tecnici e giuridici che lo consentono (ad esempio gli accordi bilaterali o strumenti affini), ma è altresì importante avere dei partner che agiscano nella stessa maniera. Una debolezza svizzera è forse quella di voler essere quasi sempre i primi della classe, applicando pedissequamente ogni genere di accordo, mentre a volte i partner non sono così precisi. È un elemento che andrebbe riconosciuto maggiormente, non per mettere in dubbio la politica svizzera in generale, ma per evitare strumentalizzazioni politiche che, alla fine, inficiano i principi di base del libero mercato. Niente è perfetto, nessun accordo può esserlo, ma la politica di apertura economica deve continuare, indipendentemente dagli strumenti giuridici utilizzati. Un mondo aperto agli scambi è un mondo in cui il benessere può prosperare. Questo, come già detto, non significa evitare i necessari correttivi, che si chiamino misure d’accompagnamento come nel caso degli accordi bilaterali con l’UE o altro. Perché una politica di apertura economica non è inconciliabile con la difesa degli interessi nazionali o cantonali. Ma affossare qualcosa che funziona è pericoloso. Sostenere sempre che tutto va male e che dobbiamo cambiare sistema, senza peraltro indicare vie praticabili di come si vuole cambiare le cose, non è un modo di procedere costruttivo e porta a una chiusura che ottiene esattamente il contrario dello scopo che in teoria essa persegue. Illudendosi di garantire una protezione onnipresente, si chiudono sbocchi essenziali perché il paese possa prosperare. Da questo punto di vista manca probabilmente una visione di sistema che possa andare oltre le questioni individuali, certo spesso difficili e comunque da risolvere, ma che non possono essere il solo parametro per definire il funzionamento di base del paese. Purtroppo questa è una tendenza di un contesto storico e politico mondiale ostile alla globalizzazione. Alcune ragioni sono più che comprensibili perché gli indicatori mondiali di segno positivo sulla globalizzazione non interessano alle persone toccate nella loro esistenza ad esempio da una concorrenza estera a minor prezzo che ha cancellato certi posti di lavoro. La reazione umana è quella di pensare a limitare gli scambi commerciali con barriere di varia natura, ma non sempre è la decisione giusta. Correttivi sì, soppressione del libero mercato no. Purtroppo oggi è più popolare la tesi che la difesa degli interessi nazionali passa per la chiusura economica.
La Cc-Ti in difesa della libertà economica
La Cc-Ti continua a difendere la libertà economica e imprenditoriale e le libertà in generale, che sono tutt’altro che acquisite. Come già detto a più riprese, ciò non significa essere stoltamente bloccati su posizioni ideologiche e il nostro comportamento in questi anni lo sta a dimostrare. Mai ci siamo opposti a sanzioni per chi ignora le regole, né abbiamo combattuto i correttivi introdotti in maniera equilibrata. L’economia, malgrado quello che possono pensare taluni, non è interessata a creare tensioni sociali, perché il quadro in cui essa opera è molto più vantaggioso se caratterizzato da una situazione tranquilla (in Svizzera si chiama anche pace sociale). Opporsi a soluzioni apparentemente facili, dal grande effetto mediatico ma povere di contenuti concretizzabili non significa ignorare i problemi. Ma la difesa dei principi generali che caratterizzano il sistema liberale e la tutela degli imprenditori è essenziale per il funzionamento della nostra struttura e un’economia funzionante, sana e rispettosa del quadro legislativo e istituzionale come quella che difendiamo è la migliore tutela per il benessere di tutti i cittadini. Regole certe, migliorabili ma senza colpi di testa dettati dalle emozioni, restano essenziali per salvaguardare il principio di legalità, uno degli elementi fondanti della stabilità svizzera. Anche tale principio è assai sotto pressione alle nostre latitudini e questo non va assolutamente bene. Le leggi possono e devono essere modificate, questo è ovvio. Ma ignorare che ci sono per dare spazio a cose astruse, scientemente incompatibili con le basi legali esistenti, tanto per vedere l’effetto che fa è assurdo. Continueremo quindi a batterci per il libero mercato, che non significa anarchia, ma poche regole certe che danno sicurezza. Convinti che questo sia un modo intelligente per continuare ad avere il miglior contesto possibile in cui le aziende possano operare e prosperare, con risvolti positivi per tutti.
Lavoro: trasformazione sociale e digitale
/in Digitalizzazione, TematicheVogliamo riproporvi la nostra posizione sul tema della trasformazione sociale in relazione alle nuove forme di lavoro. Si parla di generazione X e Y, di baby-boomers, ma anche di formazione e digitalizzazione. Un mondo che cambia e che offre spunti per nuove opportunità per le aziende.
Un famoso adagio recita che il lavoro nobilita l’uomo. Oggi diremmo piuttosto che, almeno in parte, l’uomo trasforma il lavoro e che lo rende o cerca di renderlo in qualche modo più consono alle esigenze di vita, attuali che si sono pure profondamente trasformate negli ultimi decenni. La definizione di lavoro è mutata fortemente nel tempo, come spiegato nell’articolo “Per una nuova cultura del lavoro” apparso su Ticino Business di maggio 2017, anche se resta uno dei perni centrali della vita, sia per le nuove leve che per chi ha già molti anni di esperienza sul campo. Ma il mondo del lavoro, da sempre in trasformazione, sta conoscendo mutamenti repentini e sono nati, stanno nascendo e nasceranno nuovi modelli di lavoro sempre più diversificati, grazie o a causa delle molte possibilità offerte dalla tecnologia. In questo contesto è ovviamente di particolare attualità la questione demografica, con le sue importanti implicazioni sull’aspetto previdenziale. Molte possibilità, molte innovazioni, ma paradossalmente una situazione complessiva che rischia di essere sempre più complicata e caratterizzata dall’esigenza di soluzioni “su misura”, non solo per le aziende ma anche per le lavoratrici e i lavoratori.
I baby-boomers e le nuove leve
Recentemente è stato pubblicato il nuovo documento dell’Ufficio cantonale di statistica (USTAT) denominato “Scenari demografici per il Cantone Ticino e le sue regioni, 2016-2040,” il quale ci fa riflettere su come si presenta e come evolverà la struttura della popolazione nel nostro Cantone. Fa riflettere il fatto che la popolazione ticinese invecchierà e attorno al 2035 la generazione del baby-boom si ritroverà nella fascia degli ultrasessantacinquenni. Essi saranno quindi già in pensione, oppure potranno continuare a lavorare secondo i nuovi modelli di lavoro che si stanno delineando in questi anni. In pratica tra 20 anni potremmo avere una eterogeneità di età di persone al lavoro che probabilmente non si è mai vista nella storia! Perché accanto a una parte di loro ci saranno la generazione Y (nati tra il 1982 e il 1996), che nel 2035 avranno tra i 40 e 50 anni, e le nuove leve della generazione Z.
Per trarre il maggior numero di vantaggi da questi cambiamenti, è imprescindibile affrontare l’evoluzione anche dal punto di vista della cultura d’impresa.
Le nuove generazioni intendono il lavoro diversamente
Il quadro è quindi quello di una crescente diversità di età sul posto di lavoro e questo implica, già adesso, una varietà di modelli lavorativi. Il concetto dello stesso posto di lavoro per una vita e sempre a tempo pieno è oramai sempre più rimesso in discussione oggigiorno. E non solo per la vera o presunta precarietà, ma anche per la volontà delle lavoratrici e dei lavoratori. La tecnologia ha avuto un grande impatto sulle società e forse la generazione Y è la prima che ha interiorizzato così profondamente le possibilità che essa fornisce. Quella che un tempo era solo precarietà, oggi viene vista anche come flessibilità, con un’accezione positiva nel senso di una nuova possibilità di organizzare la propria vita e di svilupparsi in maniera poliedrica. Senza negare che vi siano problemi in questo processo di cambiamento, non va dimenticato il rovescio positivo della medaglia che ci sta portando verso modelli di lavoro sempre più diversificati e individualizzati. Questo porterà anche i datori di lavoro ad affrontare nuove sfide. Occorrerà pensare in maniera diversa per attrarre e mantenere i giovani talenti. Al contempo bisognerà trovare un equilibrio interno di gestione tra loro e i colleghi di generazioni diverse, abituati a un modo di approcciarsi al lavoro magari più tradizionale. La gestione di nuovi modelli di lavoro, e nuovi modelli di business in generale, è un compito affascinante ma al contempo molto impegnativo per le aziende, perché la rimessa in questione di molte cose date per acquisite è molto profonda e tocca tanti ambiti.
Una nuova cultura aziendale
Per riuscire a cavalcare e non subire questi cambiamenti e per trarne il maggior numero di vantaggi per tutti, è imprescindibile affrontare l’evoluzione anche dal punto di vista della cultura d’impresa. Questo va ben oltre la gestione del tempo parziale o del lavoro flessibile, c’è la necessità di ragionare, nel limite del possibile dell’attività condotta dalla propria azienda, a modi diversi di intendere la presenza sul luogo di lavoro e gli orari in cui esso viene svolto. Si può pensare a forme di collaborazioni diverse con i propri collaboratori come l’attività di free-lance, o concedere che essi possano svolgere più incarichi. Anche la possibilità di congedi che vanno oltre gli stop classici come quelli per maternità saranno necessari per motivare e mantenere in azienda le nuove generazioni. Si lavorerà più a lungo ma in modo probabilmente diverso. Come Cc-Ti siamo coscienti che quanto sopra esposto non è di facile attuazione e dipende da moltissimi fattori, avantutto le strutture aziendali e i modelli di business, che sono molto differenti da azienda a azienda, anche nello stesso settore. Specialmente in contesto caratterizzato da continui e repentini mutamenti e un aumento della concorrenza globale. Ma siamo fiduciosi che le aziende sapranno raccogliere anche questa sfida, come hanno dimostrato di saper fare in tempi recenti gestendo al meglio gravi crisi. Certo è che anche il contesto politico generale deve rendersi conto dei mutamenti e aprirsi a soluzioni nuove, senza arroccarsi sulla difesa a oltranza di modelli ampiamente superati dalla realtà del terreno. Non si tratta di far saltare tutte le regole, anzi. Ma quelle che ci sono devono corrispondere alle esigenze reali espresse da chi lavora.
Il valore della formazione
Abbiamo sempre considerato la formazione una parte importante della vita di ogni azienda. Non a caso da anni offriamo ai nostri associati la possibilità di scegliere tra una vasta gamma di corsi per migliorare le conoscenze del proprio capitale umano. Ma il valore che assumerà la formazione negli anni a venire travalica quanto considerato in passato e assumerà una rilevanza ancora più strategica. Questo perché collaboratrici e collaboratori dovranno costantemente rimanere al passo ad esempio con l’evoluzione tecnologica, per sfruttarne al meglio le potenzialità. Il gioco di squadra fra datori di lavoro e dipendenti è fondamentale in quest’ottica, soprattutto per la generazione nata prima degli anni ‘80. Mentre per le nuove leve l’attenzione per l’acquisizione di competenze tecniche sarà una spinta importantissima per la considerazione e la soddisfazione verso il proprio lavoro.
Le sfide legislative e previdenziali
Abbiamo un diritto del lavoro pensato per un mondo che è già molto cambiato. Si veda ad esempio le “nuove” regole della Seco sul modo in cui si deve registrare il tempo di lavoro. Esse sono sì frutto di un compromesso, ma sono già vecchie perché pensate per modelli di business più rigidi di ciò che sta avvenendo sul terreno. Disposizioni coraggiose e al passo con i tempi avrebbero dovuto essere di altro tenore. Il che non significa sdoganare abusi o liberalizzare in modo selvaggio, bensì tenere conto del fatto che l’economia oggi è molto più complessa e ha esigenze di operatività ben diverse rispetto a qualche anno fa. Ovviamente in questo contesto va ripensato anche il metodo di finanziamento della previdenza, tema di grande attualità non solo in Svizzera ma in tutto il mondo occidentale. La riforma 2020 su cui si voterà prossimamente pensa al futuro assumendo che le nuove generazioni faranno come le precedenti, solo più a lungo. E questo è probabilmente un punto debole della riflessione. Si lavorerà più a lungo, forse, ma comunque in modo diverso e questo purtroppo non è stato preso in considerazione. Come si farà con i “buchi contributivi” magari dati da un periodo di stop oppure per un periodo lavorativo all’estero, che con la moderna mobilità potrà essere sempre più frequente? Tanti quesiti che i 70 franchi in più di rendita proposti per l’AVS non potranno risolvere. La previdenza professionale, ma soprattutto quella facoltativa del terzo pilastro dovranno probabilmente assumere maggiore importanza, ma definire come è, occorre ammetterlo, un compito assai arduo.
La gestione del cambiamento sarà fondamentale
Le nuove forme di lavoro saranno trainate da cambiamenti di ordine demografico e sociologico importante e l’unico punto fermo che al momento si può intravvedere è che ci saranno probabilmente sempre meno punti fermi. Sembra un paradosso, ma è così e non è per forza solo negativo. In questo senso la gestione del cambiamento in azienda sarà vieppiù un tema caldo per dirigenti e collaboratrici e collaboratori. Imparare ad accettare il mondo che cambia e muoversi con lui è sicuramente una buon via per mantenersi al passo con i tempi. Essere in sintonia con il momento storico in cui si vive è quindi un obbiettivo da tenere bene in vista per la navigazione nelle acque imprevedibili dei nostri giorni.
Interessati ad approfondire maggiormente il tema?
Scaricate il dossier tematico sulle nuove forme di lavoro, pubblicato sull’edizione di maggio 2017 di Ticino Business, cliccando qui.
Commercio al dettaglio: gli attori in gioco
/in AssociazioneSono numerose le società dei commercianti regionali attive sul territorio. Esse rappresentano in modo valido il commercio in Ticino, con azioni mirate e interventi efficaci per questo specifico ambito settoriale. Le principali società sono pure affiliate alla Cc-Ti, ecco perché le presentiamo brevemente su questa pagina, riportando per ognuna anche i dati di contatto, per un dialogo più efficace.
Società Commercianti del Mendrisiotto
Rappresenta 210 aziende attive sulla zona di confine (di cui sente gli influssi, che si ripercuotono in modo non sempre positivo sui commercianti), la società, raggruppa commerci e aziende presenti nella regione, con particolare riguardo alle PMI, difende gli interessi collettivi dei propri soci, incoraggia le collaborazioni e le sinergie fra i soci, e promuove e diffonde l’immagine positiva del commercio e delle attività affini. È presieduta da Paolo Pellegrini.
Contatto: info@sc-mendrisiotto.ch, www.sc-mendrisiotto.ch
Società dei commercianti di Lugano
Fondata nel 1883, la Società dei Commercianti persegue, quale scopo principale, la difesa e la promozione sul piano locale delle attività commerciali e affini, con particolare riguardo agli interessi delle aziende di piccole e medie dimensioni. In particolare, essa studia i problemi commerciali e le relazioni pubbliche, l’intervento nelle questioni legislative inerenti alle attività commerciali, la formazione e il perfezionamento commerciale mediante premi o sussidi e la difesa dei principi di una sana e leale concorrenza. Il Presidente è Paolo Poretti.
Contatto: segretariato@sc-lugano.ch, www.sc-lugano.ch
Società dei Commercianti di Bellinzona
La Società dei Commercianti di Bellinzona è un’associazione che raduna circa 200 commercianti aventi domicilio professionale nei comuni di Bellinzona e dintorni. Ha per scopo la salvaguardia degli interessi commerciali e professionali dei suoi membri, con particolare riguardo alle aziende di piccola e media dimensione. Si prefigge inoltre di stabilire dei buoni rapporti tra gli stessi membri. Per raggiungere questi obiettivi il suo comitato si impegna a promuovere azioni comuni di propaganda commerciale e di interesse generale per la città ed i dintorni. La stessa è presieduta da Ottaviano Torriani.
Contatto: info@commercianti-bellinzona.ch, www.commercianti-bellinzona.ch
Società Commercianti Industriali ed Artigiani del Locarnese (SCIA)
La SCIA, è stata ufficialmente costituita con tale nome nel 1938 ma trae le sue lontane origini da una serie di associazioni che si sono susseguite fin dalla creazione della «Società Operai ed Esercenti» avvenuta a Locarno nel 1888. Gli scopi sono il promovimento e la tutela degli interessi professionali e collettivi di tali categorie, con particolare attenzione per quelli delle aziende di piccola e media dimensione, con particolare accento anche al commercio al dettaglio. Oggi sono affiliate ad essa 280 aziende, sotto la guida di Giovanni Caroni, Presidente.
Contatto: info@scia-locarno.ch, www.scia-locarno.ch
Da cento anni con passione e competenza
/in Comunicazione e mediaIl 2017 rappresenta per la Cc-Ti un anno cruciale: festeggiamo il nostro centenario. Per tale occasione, vogliamo trasmettere alcuni messaggi chiave per la nostra struttura, con un percorso dedicato ai nostri associati composto da eventi, formazioni e appuntamenti mediatici ad hoc. Avremo il piacere di informarvi costantemente sulle numerose prossime novità attraverso tutti i nostri canali di comunicazione (sito web, Newsletter, Ticino Business e social media). Qui sotto potrete inoltre leggere e visualizzare alcuni video su tre momenti eventistici importanti che hanno contraddistinto la nostra attività degli ultimi mesi.
Il 100° è un momento di particolare importanza per dar risalto alla solidità della nostra struttura e affermare che, oggi come allora, le sfide così come le opportunità a cui la nostra associazione deve confrontarsi, quale mantello dell’economia di tutto il territorio cantonale, sono molteplici e variate.
Sin dalla sua nascita la Cc-Ti si fa interprete delle voci delle aziende e delle associazioni di categoria, a loro tutela ed in difesa della libertà economica (che ricordiamo è sancita dall’art. 27 della Costituzione federale), ed è stata capace di adattarsi agli eventi del XX secolo, senza mai perdere di vista il proprio obiettivo: i propri soci e il loro benessere. Questo è un fil rouge che percorre trasversalmente tutti i nostri cento anni.
Fondata sull’iniziativa privata, la Cc-Ti promuove lo sviluppo dell’economia ticinese, portando avanti iniziative, servizi e progetti in difesa della libertà imprenditoriale, spina dorsale dell’attività economica per tutto il territorio cantonale. Un dialogo franco con i nostri associati ci permette di essere costantemente “sul pezzo”, proponendo servizi innovativi costruiti sulla base delle loro esigenze. Quale interlocutore privilegiato possiamo anticipare i trend e le tematiche di stretta attualità e proporre ai soci dei momenti di aggiornamento e informazione di qualità. In questo senso identifichiamo temi, argomenti e Paesi nei quali stanno nascendo possibilità d’affari e presentiamo degli appuntamenti dove, oltre all’aggiornamento sulla tematica in questione, vi è la possibilità di un’interazione tra i partecipanti. Così facendo i membri della Cc-Ti possono disporre di molteplici occasioni di networking, per sfruttare una rete vincente e creare opportunità di business.
Su che cosa ci siamo concentrati e ci concentreremo quest’anno?
Oltre alla difesa della libertà imprenditoriale, che resta al centro della nostra costante attività, abbiamo deciso di focalizzare la nostra attenzione su 4 tematiche fondamentali per la nostra economia, che abbiamo approfondito e approfondiremo anche durante alcuni momenti eventistici. Si è parlato di internazionalizzazione (resoconto e video), di digitalizzazione (resoconto e video) e della responsabilità sociale delle aziende (resoconto e video) e durante i prossimi mesi toccheremo in modo approfondito anche il tema dello swissness – inteso nella sua accezione più larga come modo svizzero di fare impresa.
Inoltre, attraverso differenti azioni mediatiche e divulgative abbiamo deciso di evidenzierà il valore del territorio cantonale, composto da realtà aziendali importanti e forte di un sistema associativo (a livello svizzero) che rappresenta un unicum mondiale, invidiatoci da molti. Tutto ciò mostrando, con numerosi esempi positivi, la reale immagine del mondo imprenditoriale ticinese, caratterizzato da dinamismo, creatività, potenzialità e innovazione.
1 minuto e 15 secondi per conoscere meglio la Cc-Ti.
La nostra infografica!
Scopritene di più sugli eventi del centenario
Per rimarcare il traguardo del 100°, i cui festeggiamenti culmineranno durante l’Assemblea del 20 ottobre 2017, abbiamo deciso di proporre ai soci 4 momenti eventistici maggiori:
Per maggiori dettagli su questi eventi restiamo a vostra disposizione:
Tel. +41 91 911 51 11, casagrande@cc-ti.ch
“La sostenibilità deve essere parte del modello di business”
/in Sostenibilità, TematicheIntervista a Glauco Martinetti, Presidente Cc-Ti e CEO Rapelli SA
Occuparsi di sostenibilità porta vantaggi economici per le aziende. Per questo la Cc-Ti da tempo approfondisce il tema della responsabilità sociale e ambientale, a cui ha dedicato eventi, corsi e seminari. Tutto questo è sottolineato nell’intervista, che vi riproponiamo, al Presidente Cc-Ti e CEO della Rapelli SA Glauco Martinetti. Ritrovate anche la nostra posizione sulla RSI direttamente al seguente link.
Signor Martinetti, ci sono tre aspetti della sostenibilità per una azienda: quello ambientale, sociale e non da ultimo quello economico. Come farli sviluppare in sintonia?
Non è evidente. Ma le aziende che sono molto attente all’ambito sociale lo sono anche nel contesto ambientale e di solito hanno anche un successo economico. In tale modo si trova quasi automaticamente un equilibrio. Non è una regola, ma mi sembra che colui che è molto attento all’ambito sociale ha dei collabollatori motivati. E chi fa molta attenzione alla tematica ambientale di solito risparmia soldi, e questo porta anche ad una sostenibilità economica.
Quali sono i vantaggi della sostenibilità per le imprese?
Nell’ambito sociale la sostenibilità porta veramente ad una buona motivazione del collaboratore. Una conseguenza poi è la fidelizzazione dello stesso verso l’azienda. Il discorso ambientale invece evoca nei consumatori attenti, e ce ne sono sempre di più, una fidelizzazione al prodotto e quindi dei volumi di vendita buoni, costanti – e appunto sostenibili.
La conclusione sarebbe che oggigiorno la sostenibilità è decisiva per il successo economico.
E proprio così. Per i clienti che apprezzano molto il prodotto si va sempre di più da un semplice prodotto di consumo verso, se si può dire, una religione. Un consumatore inizia a diventare un fan e alla fine, come nel caso dello smartphone, sembra diventare una specie di evangelista del prodotto, dicendo agli altri che devono assolutamente acquistarlo.
Quindi chi trascura la sostenibilità fronteggerà degli svantaggi pesanti?
Guardando i modelli di business futuri credo che la sostenibilità vi debba far parte in modo considerevole. Non credo che oggigiorno un’azienda possa non prestare attenzione alla sostenibilità sociale, ambientale ed economica perché altrimenti l’attività aziendale viene resa più difficile.
A quale punto siamo in Ticino rispetto alla Svizzera tedesca per esempio?
Dal mio punto di vista personale gli svizzeri tedeschi hanno una sensibilità, soprattutto ambientale, un po’ più sviluppata, ma il Ticino sta recuperando.
Cosa possono fare concretamente le aziende per migliorare il loro approccio verso la sostenibilità?
Molto dipende dal settore. Ma ritengo che per prima cosa sia necessario scegliere se iniziare dal lato sociale o ambientale. Nella mia azienda la scelta è stata facile: iniziare dalla sostenibilità ambientale per poi passare alla sostenibilità sociale. E alla fine questo ha garantito una sostenibilità economica.
Impiego a tempo parziale, lavoro interinale, telelavoro, job-sharing, lavoro su chiamata, freelance: tutti questi sembrano di diventare i tipici modelli di lavoro per via della digitalizzazione. Ma sono anche sostenibili?
Non penso che questi modelli siano per forza non sostenibili. Sono modelli voluti da parecchie persone. Conosco, per esempio, diverse coppie di amici che non lavorano entrambi a tempo pieno perché sia la moglie che il marito lavorano a tempo parziale ed accumulano i loro redditi. Questo risponde ovviamente ad un bisogno e quindi credo che i menzionati modelli di lavoro possano avere anche una buona sostenibilità sociale.
Questi nuovi modelli di lavoro concerneranno verosimilmente le imprese piuttosto grandi.
Qui il punto centrale è l’organizzazione. Come riesco ad inserire delle persone che lavorano a percentuali e orari differenti nel sistema produttivo? Non incide tanto la grandezza dell’azienda, ma il grado di organizzazione del lavoro. Sia una PMI sia una grande aziende dovrebbero essere molto ben organizzate a questo riguardo.
E in quanto al dumping salariale e al lavoro nero? Aumenteranno tali problemi a causa della digitalizzazione o verranno meglio controllati grazie alla crescente coscienza di sostenibilità sociale?
A mio avviso la digitalizzazione porta anche ad una maggiore trasparenza. E questa non credo porti verso il dumping, anzi. Se c’è più trasparenza sul mercato del lavoro si è più lontani dalle logiche di dumping e del lavoro nero. Credo che il mondo che sta per arrivare sarà un mondo più flessibile e più trasparente a riguardo delle condizioni di lavoro. E quindi anche più sostenibile, proprio grazie alla digitalizzazione.
A proposito della digitalizzazione e sostenibilità sociale: gli over 50 saranno anche in futuro svantaggiati nella ricerca di un lavoro?
Attualmente abbiamo un gap culturale che, a seconda della formazione, può iniziare all’età di cinquanta o sessant’anni. Ciò significa: una persona che ha seguito delle formazioni accademiche probabilmente oggi a cinquanta anni non rischia di essere esclusa dal mercato del lavoro proprio per via della digitalizzazione, anzi le sue competenze sono in linea con quanto richiesto dal mercato. Mentre una persona coetanea con una scolarizazzione molto bassa rischia invece di esserne fuori. Credo quindi che oltre all’età incida molto il grado di formazione delle persone.
Sembra quindi che la sostenibilità sociale dipenda anche molto dalla formazione continua.
Questo è un punto determinante. La formazione continua a livello aziendale, ma anche del singolo individuo, è un elemento centrale della sostenibilità sociale perché permette ad una persona di tenersi continuamente al passo con i tempi.
Cosa può fare la Cc-Ti concretamente per la sostenibilità in generale?
Il ruolo della Cc-Ti è innanzitutto quello di spiegare ai nostri associati l’importanza della tematica e il suo valore strategico. La Camera stessa offre dei corsi pratici in cui si parla sempre di più di sostenibilità e di best practices ed organizza anche degli eventi per incentivare la discussione sul tema. Si tratta quindi di mostrare in concreto che la sostenibilità è importante in tutti gli ambiti, come abbiamo fatto recentemente a Stabio.
Dal suo punto di vista qual è stato il messaggio principe di tale evento?
Abbiamo presentato un’ azienda di moda e una dell’alimentare e evidenziato il fatto che si può parlare di sostenibilità in mondi totalmente differenti. Il nostro compito è quello di spiegare l’importanza e gli aspetti positivi della sostenibilità per le aziende.
E rendere più sensibile anche il mondo della politica?
Credo che la politica abbia capito benissimo. Ma non possiamo scaricare alla politica un compito che è prettamente aziendale. La responsabilità sociale è un compito che dobbiamo portare avanti noi. E le aziende stanno davvero facendo il loro dovere, andando sempre di più in questa direzione. La sostenibilità è davvero un tema trattato dalle aziende.
Di sostenibilità aziendale e strategia d’impresa si è parlato nell’evento della Cc-Ti dello scorso maggio, rileggete i dettagli cliccando qui.
L’economia non cresce all’ombra dei muri ma solo con il libero commercio
/in Internazionale, Tematichea cura di Alessio Del Grande
Vi riproponiamo un articolo che sottolinea l’importanza del libero mercato quale elemento imprescindibile per garantire il benessere ed il successo della nostra economia. Questo concetto è stato chiarito a più riprese dalla Cc-Ti. Vi ricordiamo che qui potete leggere i diversi approfondimenti di un dossier dedicato al tema, già pubblicato su Ticino Business di aprile 2017.
Dalle Americhe all’Europa, dall’Asia all’Africa, negli ultimi sedici anni gli Stati hanno costruito 28mila chilometri di muri (il doppio del diametro della terra) per difendere i loro confini dalle ondate dei migranti o da altre minacce vere o presunte che siano. Nello stesso tempo molti governi hanno istituito dazi, barriere doganali o restrizioni varie al libero commercio per proteggere le loro economie. Negli Stati Uniti, sono state introdotte, dal 2008 ad oggi, ben 1084 misure protezionistiche, in media un provvedimento ogni quattro giorni; in Russia 488; in Argentina 328; nel Regno Unito 252; in Germania 236; in Italia 207; in Francia 202. Neanche le grandi economie emergenti si sono sottratte alla frenesia neo protezionistica con l’India e la Cina che hanno adottato rispettivamente 588 e 200 misure che limitano il libero commercio. Non per nulla dalla dichiarazione finale del G20, che si è tenuto a Baden nel marzo scorso, è persino scomparsa la tradizionale dichiarazione d’impegno nella lotta al protezionismo. Sembra così cadere nel vuoto l’appello del World Ecomic Forum, secondo cui il dimezzamento delle attuali barriere doganali aumenterebbe il commercio mondiale del 15% e il Pil globale del 5% con grandi benefici per tutti i paesi e le loro popolazioni. Paradossalmente questa stretta contro il libero scambio è avvenuta proprio nel momento in cui la connettività globale, con la costruzione di grandi collegamenti stradali interstatali, di nuovi porti e aeroporti, pipeline, elettrodotti e cablaggi sottomarini per internet, che si estendono da un continente all’altro, ha ridisegnato la geografia di un pianeta le cui economie nazionali sono sempre più interdipendenti. Sono queste grandi infrastrutture, più che le vecchie mappe con confini politici e i proclami isolazionistici di alcuni governi, a dirci in che direzione sta andando veramente il mondo. È la nascente “civiltà dei network globali” – come la definisce l’economista e analista geopolitico Parag Khanna, nel suo saggio “Connectographi- le mappe del futuro ordine mondiale” – che darà un potente impulso al commercio internazionale su cui si svilupperà l’economia del ventunesimo secolo. “La rivoluzione della connettività globale è cominciata- ricorda Khanna-, già oggi la ragnatela planetaria delle infrastrutture include, calcolando per difetto, 64 milioni di chilometri di autostrade, 2 milioni di chilometri di oleodotti e gasdotti, 1,2 milioni di chilometri di ferrovie, 750mila chilometri di cavi internet sottomarini che collegano i tanti centri nevralgici, per popolazione ed economia, del mondo. Al contrario abbiamo solo 250mila chilometri di confini internazionali. E secondo alcune stime l’umanità costruirà più infrastrutture nei prossimi quarant’anni che nei quattromila passati”.
Insomma, il mondo reale dell’economia si va riconfigurando per facilitare i crescenti flussi di materie prime, di persone, merci, capitali, idee e dati. Una trasformazione epocale che sta avvenendo sotto i nostri occhi che va seguita con attenzione, come giustamente ha fatto la nostra Camera di commercio proponendo, il 23 marzo scorso, con la Giornata dell’Export 2017, una riflessione ad ampio raggio sul tema “EU-economy: geopolitics impact on business”, di cui potete ritrovare qui l’approfondimento (e la puntata di Zoom, andata in onda su Teleticino). “La prossima ondata di mega infrastrutture transcontinentali e intercontinentali – osserva l’economista – sarà ancora più ambiziosa: un’autostrada interoceanica attraverso l’Amazzonia, da San Paolo al porto peruviano di San Juan de Marcona sul Pacifico; ponti che collegheranno la Penisola Arabica all’Africa; un tunnel dalla Siberia all’Alaska; cavi sottomarini che attraverseranno il Polo Nord , posati sul fondale artico, connetteranno Londra a Tokyo; reti elettriche capaci di trasferire l’energia solare dal Sahara all’Europa. L’enclave britannica di Gibilterra sarà l’ingresso di una galleria che, sotto il Mediterraneo, arriverà a Tangeri, in Marocco, da dove una nuova ferrovia ad alta velocità si estenderà lungo la costa fino a Casablanca”. È con la costruzione di queste grandi reti infrastrutturali, che vede protagonisti grandi gruppi privati o partnership tra agenzie interstatali e privati, con un ruolo preponderante della Cina, che si va consolidando il mondo delle supply chain, ovvero le filiere economiche transnazionali che rappresentano le nuove catene del valore per la crescita di ogni paese. “Un ecosistema completo e complesso di produttori, venditori e consumatori che trasformeranno materiale grezzo (dalle risorse naturali alle idee) in beni e servizi, erogati alla gente in qualsiasi parte del mondo” scrive Khanna. Un ecosistema che renderà ancora più rapido e agevole in ogni angolo del mondo l’incontro tra domanda e offerta. È la concretizzazione su scala planetaria della teoria dei vantaggi comparati di David Ricardo, che vedeva nell’espansione del commercio internazionale grandi benefici per tutti. Difatti, con l’apertura dei mercati ogni Paese si specializza in quelle produzioni dove ha più vantaggi rispetto agli altri, ne conseguono un aumento della produttività, una riduzione dei costi e la possibilità di acquistare a prezzi più convenienti merci e servizi da chi li produce più a buon mercato. Con vantaggi finali non indifferenti anche per tutti i consumatori.
È questo il planisfero reticolare delle supply chain, in cui si intrecciano e si sovrappongono vecchi e inediti flussi commerciali, che fa assomigliare la Terra alla grande rete di internet. Un mondo dove “l’offerta di tutto può incontrare domanda di tutto”, che avrà nell’economia digitale (tema principale dell’edizione di marzo di Ticino Business, di cui potete leggere gli approfondimenti cliccando su questo link) la sua interfaccia planetaria. Ma la rivoluzione della connettività globale impone un radicale ripensamento del concetto di confine e della vecchia geografia politica tratteggiata dalla sovranità statuale. Già oggi trecento cavi internet sotto gli oceani avvalgono la Terra in una rete attraverso cui passa il 99% di tutto il traffico intercontinentale di dati. Un flusso incessante di notizie e di informazioni sulla produzione di beni e servizi, sulla loro distribuzione, sulle attività finanziarie, su consumi, servizi, gusti, tendenze, idee, innovazioni, sui flussi di merci e persone. Un’ingente massa di dati che cresce ogni hanno del 40%, che viene immagazzinata, strutturata e rielaborata, diventando la materia prima vitale nella ridefinizione delle strategie aziendali, nella gestione innovativa dei servizi collettivi, si pensi solo ai trasporti o all’assistenza sanitaria, così come per la produzione-fruizione di beni immateriali, dalla cultura all’intrattenimento. Ecco bisogna pensare anche a tutto questo quando in Svizzera, ma in particolare nel nostro cantone, si insiste sulla necessità di garantire un accesso capillare ai servizi di banda ultra larga per internet su tutto il territorio nazionale. A metà marzo il Consiglio nazionale ha approvato un’iniziativa cantonale ticinese che va in questa direzione. Un primo e importante passo avanti, visto il peso che vanno acquistando le tecnologie digitali per tutta l’economia svizzera.
Permessi per cittadini stranieri – Informazione alle aziende
/in Comunicazione e mediaNessuna esigenza di domicilio per ottenere il permesso di residenza
Negli scorsi mesi ci sono stati segnalati diversi casi in cui, per il rilascio o per il rinnovo del permesso di residenza di un cittadino UE, l’autorità cantonale pretendeva che anche i famigliari della persona in oggetto trasferissero il loro domicilio in Ticino.
A seguito di un ricorso presentato proprio contro questa esigenza, il Tribunale cantonale amministrativo in una sentenza pubblicata lo scorso mese di giugno ha sancito l’illegalità di tale prassi (sentenza n. 52.2016.237).
In concreto il Tribunale ha sottolineato come:
…il cittadino di una parte contraente all’ALC – come è il caso del qui ricorrente in forza della sua nazionalità italiana- dispone di un diritto a titolo originario a stabilirsi nel nostro Paese per esercitare un’attività lucrativa dipendente, ottenendo a tale scopo un permesso di dimora UE/AELS (cfr. art.2 paragrafo 1 Allegato I ALC, STF 131 II 339 consid. 2). Non vi è in effetti alcuna norma o principio giurisprudenziale sgorgante dall’ALC che faccia dipendere il rilascio di siffatta autorizzazione dalla situazione del richiedente dal profilo del suo stato civile…(omissis)…Non è quindi dato di vedere come a un cittadino che possa prevalersi dell’ALC non debba essere rilasciato un permesso di dimora per il solo fatto che il coniuge e figli continuino a vivere all’estero.
Nel caso in cui un vostro dipendente dovesse essere oggetto di una simile richiesta da parte dell’autorità cantonale, può legittimamente opporsi richiamando i principi generali di cui sopra.
Convocazione a un secondo colloquio personale
Vi segnaliamo inoltre che il nuovo Regolamento cantonale di applicazione della legge federale sugli stranieri all’art. 8 cpv. 4 prevede che “l’Ufficio può esigere in ogni momento che il richiedente si presenti personalmente per fornire ulteriori informazioni, in particolare nell’ambito della procedura di rilascio, di rinnovo o di modifica del suo permesso“.
Si tratta di una possibilità di incontro oltre al primo colloquio personale già previsto dalla nuova procedura per il rilascio del permesso. Su nostra specifica richiesta il Consiglio di Stato ci ha precisato che questo secondo colloquio ha carattere meramente sussidiario e che verrà quindi utilizzato dall’Autorità cantonale solo nel caso in cui il richiedente non si dimostri collaborativo e, in ogni modo, solo dopo un tentativo di raccogliere le informazioni via posta.
Infine, vi invitiamo a segnalarci tempestivamente ogni situazione concreta che non dovesse corrispondere alle assicurazioni rilasciateci dall’Autorità cantonale.
La nuova frontiera della formazione
/in Digitalizzazione, Tematichea cura di Alessio Del Grande
Il tema della digitalizzazione è molto rilevante per la Cc-Ti, tanto che nel corso del 2017 ci siamo chinati a più riprese su quest’argomento, affrontandolo da diversi punti di vista. Con questo articolo, già apparso su Ticino Business, si parla di istruzione, innovazione e digitalizzazione.
L’espressione “Industry 4.0” venne usata per la prima volta nel 2011 alla Fiera di Hannover. Sono passati solo pochi anni, ma quella che è stata definita la “quarta rivoluzione industriale” è una realtà che sta già cambiando radicalmente non solo il mondo della produzione e della distribuzione di beni e servizi, ma anche il nostro modo di vivere e di relazionarci con gli altri. “Consideriamo, ad esempio, le possibilità, praticamente illimitate, di connettere miliardi di persone attraverso i dispositivi mobili, generando una capacità di elaborazione, archiviazione e accesso alle informazioni senza precedenti. Oppure pensiamo per un attimo all’incredibile convergenza di invenzioni tecnologiche in campi quali l’intelligenza artificiale, la robotica, l’Internet delle cose, la realizzazione di veicoli autonomi, la stampa tridimensionale, la nanotecnologia, la biotecnologia, la scienza dei materiali, l’immagazzinamento di energia e il quantum computing, solo per citarne alcuni” ricorda nel suo saggio «La quarta rivoluzione industriale» Klaus Schwab, fondatore e Presidente del World Economic Forum di Davos. Molte attività lavorative, in particolare quelle ripetitive e manuali, sono state già automatizzate, altre lo saranno quanto prima. Ma dalla crescente convergenza tecnologica in un’economia digitalizzata, nasceranno altre professioni. Cambierà persino il concetto tradizionale di “manodopera qualificata”, ossia quella con conoscenze e abilità ben definite all’interno di una professione, e “si darà maggiore enfasi – scrive Schwab – alla capacità della forza lavoro di adattarsi continuamente e apprendere nuove competenze e approcci in una varietà di situazioni”. Sarà, dunque, la formazione una delle più importanti sfide della nuova rivoluzione industriale. Una sfida a cui le imprese ticinesi si stanno preparando anche con l’associazione ICT per la formazione professionale e che su scala nazionale vede già operativa l’iniziativa “Digital Switzerland”.
L’apprendimento continuo come nuovo imperativo per sopravvivere nell’epoca dell’automazione, è stato il tema di una lunga inchiesta pubblicata nel gennaio scorso dall’Economist. Il settimanale sottolineava che nei Paesi ricchi il legame tra apprendimento e guadagni tende a seguire una semplice regola: più formazione durante i normali studi e nei primi anni di attività professionale, per poi raccogliere risultati corrispondenti, in termini retributivi, nel corso della propria carriera. Una regola che oggi non basta più, visto che ad ogni anno supplementare di istruzione e formazione, secondo molti studi, è associato ad un aumento dell’8-13% nei guadagni orari. Non si tratta però solo di guadagnare di più, ma di formarsi continuamente per conservare il posto di lavoro. “Le conoscenze apprese a scuola, non sono quelle che porteranno alla pensione” sottolineava un articolo del febbraio scorso di Bilan, citando l’avvertimento lanciato dal CEO della Philps durante un dibattito all’ultimo World Economic Forum. Se i lavori costituiti da attività di routine, facili da automatizzare, sono in declino, cresce invece il numero d’impieghi che richiedono una maggiore abilità cognitiva. Per rimanere competitivi, e per dare a tutti i lavoratori, poco o altamente qualificati che siano, le migliori possibilità di successo, bisogna offrire una formazione su tutto l’arco della carriera professionale, suggeriscono gli esperti sentiti dall’Economist. In questa direzione si stanno muovendo molti Paesi, testando nuove strade non solo per i contenuti e le finalità dell’apprendimento, ma anche per favorire l’accesso alla formazione permanente. Come Singapore che sta investendo ingenti risorse per fornire ai suoi cittadini dei “crediti di apprendimento”, dei voucher che permettono di accedere alla formazione, fornita da centri autorizzati, durante tutta la vita lavorativa. Ed è ancora Singapore a vantare un altro approccio innovativo con l’iniziativa “SkillsFuture”: gli imprenditori sono invitati a indicare le trasformazioni che si attendono nei prossimi anni nelle loro attività, per tracciare così una mappa delle nuove competenza di cui avranno bisogno le imprese. Grandi gruppi internazionali e molti centri specializzati stanno sperimentando progetti e percorsi formativi in cui le nuove tecnologie della comunicazione hanno un ruolo chiave per l’apprendimento, l’aggiornamento e il perfezionamento professionale online, come anche per la condivisione su scala internazionale conoscenze e competenze.
Le nuove tecnologie, sottolineava anche Bilan, dovrebbero rendere l’apprendimento più efficace e accessibile. Il patrimonio di dati e saperi disponibile in rete offre la possibilità di un’istruzione mirata, mentre con le grandi piattaforme digitali si facilita il collegamento tra persone con differenti livelli di conoscenza, consentendo l’insegnamento e il tutoraggio peer-to-peer. È stata la giusta combinazione tra istruzione e innovazione, notava l’Economist, che nei decenni passati ha generato ricchezza e prosperità nei Paesi avanzati. Una combinazione che oggi va rivalorizzata, perché se la formazione non riesce a tenere il passo con l’evoluzione tecnologica, il risultato sarà la disuguaglianza sociale, con le fasce più deboli della popolazione che saranno emarginate dal mercato del lavoro. La formazione professionale sinora è stata efficace nel garantire l’inserimento nel mondo del lavoro, ma si fa poco per aiutare le persone ad adattarsi ai cambiamenti nel mondo del lavoro.
“Oggi è necessario insegnare ai bambini come studiare e pensare, privilegiando quella metacognizione che permetterà loro di acquisire più competenze nel corso della vita”. Nel suo studio “New vision for education” la Singularity University, un laboratorio di talenti e di start-up con sede nella Silicon Valley, indica le quattro competenze fondamentali della formazione orientata al futuro:
Su questo capitale di abilità cognitive sarà incardinato il lavoro che genererà più valore, coinvolgendo conoscenze trasversali e qualità caratteriali, con una contaminazione continua tra sapere teorico e pratica concreta. Poiché istruzione e formazione sono un bene i cui benefici si estendono a tutta la società, i Governi hanno un ruolo fondamentale, non semplicemente per spendere di più, ma soprattutto per spendere saggiamente. Un ruolo che sarà ancora più efficace coinvolgendo imprese e sindacati, come insegnano le esperienze maturate in Gran Bretagna e in Danimarca, Paese quest’ultimo dove ai disoccupati vengono offerti ben 258 corsi di formazione professionale per aiutarli a reinserirsi nel mondo del lavoro.
Interessati al tema della digitalizzazione? Qui potete scaricare il nostro approfondimento e rileggete anche il resoconto dell’evento “L’economia del futuro è digitale” tenutosi il 26 aprile scorso.
Trasformazioni fra paure e realtà
/in Comunicazione e mediaDi Luca Albertoni, direttore Cc-Ti
Al centro dell’articolo le implicazioni e opportunità della trasformazione digitale oggigiorno in corso.
Della trasformazione digitale già si è detto molto e si continuerà a dire molto per parecchio tempo. Come è giusto che sia, visto che essa rimette in discussione molti modelli che sembravano acquisiti e crea dinamiche nuove. E si sa che lo sconosciuto spesso fa paura. Reazione umanamente comprensibile e che non deve essere stigmatizzata, ma è al contempo importante non trascurare taluni fatti, indispensabili per evitare di prendere decisioni, soprattutto di ordine politico, avventate perché dettate più dai timori che da una valutazione oggettiva.
Si parla ad esempio molto spesso della deindustrializzazione in Europa, che in realtà è più una trasformazione che una fine vera e propria dell’industria.Interessante a questo proposito è un libro recentemente pubblicato da Pierre Veltz, sociologo, ingegnere ed economista francese, specialista dell’organizzazione delle aziende e delle dinamiche territoriali. Il libro, intitolato “La société hyper-industrielle” (con il sottotitolo “Le nouveau capitalisme productif”) indica come in realtà non vi sia una regressione dell’industria, ma una profonda trasformazione, soprattutto della sua organizzazione. La rivoluzione in atto e con la quale dobbiamo confrontarci non concerne tanto l’automatizzazione di taluni compiti lavorativi, quanto piuttosto la connettività derivante dalle reti di comunicazione che agevola ulteriormente la dispersione della produzione in tutto il mondo, l’inclusione dell’utilizzatore nei cicli di produzione e la ricezione costante dei dati di utilizzo grazie alle varie piattaforme di scambio di dati. Per cui Veltz ritiene che l’industria stia diventando un servizio come gli altri, mentre molti servizi si organizzano secondo criteri industriali, rendendo sempre più difficile la distinzione fra i due rami economici. E’ un brevissimo e parziale riassunto, ma fornisce comunque spunti importanti. Cioé che la trasformazione non è per forza negativa, ma permette sviluppi anche impensabili.
Nel nostro piccolo Ticino basti pensare alla riconversione di un settore come quello della moda, passato dalla fabbricazione di capi d’abbigliamento alla gestione logistica molto avanzata dei flussi della distribuzione dei prodotti nel mondo e alla cura della proprietà intellettuale legata ai vari marchi. Non è del resto un caso che si parli sempre più spesso di “reshoring”, ossia di rimpatrio in Europa di attività industriali esportate anni fa verso quelli che erano considerati paesi a basso costo di produzione. Questo è dovuto anche alla trasformazione digitale che rende talune attività economiche meno costose e quindi rilancia la competitività europea a livelli di costi e permette ad esempio di gestire a distanza il servizio post-vendita ai clienti, garantendo una qualità europea (meglio se svizzera…) oltre i processi di fabbricazione. Il discorso è ovviamente complesso e merita ulteriori approfondimenti che, per ovvie ragioni di spazio, qui non sono possibili. Ma è comunque stimolante constatare che, fra le molte opinioni espresse sul tema della trasformazione digitale in senso lato, ve ne siano parecchie autorevoli che indicano come per il mondo occidentale non vi siano solo nubi scure all’orizzonte. Pierre Veltz sottolinea anche come l’Europa abbia delle carte importantissime da giocare: il principio dell’uguaglianza che tendenzialmente evita che vi siano troppi territori abbandonati, la ridistribuzione equilibrata della ricchezza e la forte interazione fra le città e le regioni europee. Punti di forza che in Svizzera conosciamo bene e che sarebbe profondamente sbagliato abbandonare a causa solo delle paure.
L’economia del futuro è digitale – Dossier tematico apparso su Ticino Business (edizione marzo 2017)
Intervista a Luca Albertoni su influence.ch
/in Comunicazione e mediaIntervista a Luca Albertoni, direttore Cc-Ti, apparsa su influence.ch
Al centro dell’intervista, apparsa il 23.06.2017 sul portale d’approfondimento germanofono, la solidità del tessuto economico ticinese e gli importanti sviluppi di alcuni settori oggigiorno trainanti per la nostra economia, come la moda e il commercio di materie prime.
Das Tessin gilt als Sonnenstube der Schweiz. Stört Sie diese Bezeichnung?
Luca Albertoni: Eigentlich nicht. Das Problem ist, dass das Tessin oft aus eigenem Verschulden in der deutschsprachigen Schweiz zu wenig bekannt ist.
Wie bitte?
Das Tessin ist nicht nur ein Tourismuskanton, in dem die Sonne gerne scheint. Vielmehr ist das Tessin auch ein wichtiger Wirtschafts- und Industriestandort. So wird ein guter Fünftel des Tessiner Bruttoinlandprodukts (BIP) durch den Industriesektor erwirtschaftet. Das weiss man nicht. Man bringt uns primär mit dem Tourismus in Verbindung, der im Gegensatz zur Industrie nur 10 Prozent zur Wirtschaftsleistung beiträgt. Diese verzerrte Wahrnehmung stört mich. Wir haben es noch nicht richtig fertiggebracht, diese andere Sichtweise stärker nach Zürich und Bern zu tragen. Dadurch kennt die Schweiz unsere Trümpfe nicht.
Welches sind diese Trümpfe?
Die wichtigste Branche im Tessin ist die Pharmaindustrie, die knapp 10 Prozent unseres BIP ausmacht. Auch die Maschinenindustrie ist mit Georg Fischer oder Schindler im Tessin vertreten. Daneben gibt es zahlreiche kleinere Zulieferer für Deutschschweizer Unternehmen. Da die meisten jedoch keine eigenen Fertigprodukte herstellen und keine bekannten Marken haben, sind diese Firmen weitgehend unbekannt. Das ist häufig das Schicksal der Kleinen. Das Tessin macht punkto Bevölkerung und Wirtschaft rund 5 Prozent der Schweiz aus. Wir sind eine kleine Realität. Wir sollten mehr konstruktive Öffentlichkeitsarbeit machen, damit man uns und unsere Realität besser versteht. Bei der Diskussion um die zweite Gotthardröhre beispielsweise wusste niemand, dass für unsere Logistikbranche der Flughafen Zürich viel wichtiger ist als jener im benachbarten Mailand. In dieser Hinsicht arbeiten wir jedoch besser als in der Vergangenheit.
Mit dem Rücktritt von Didier Burkhalter bietet sich nun die Chance, dass das Tessin nach Flavio Cotti wieder einen Bundesrat stellt. Wie wichtig wäre das?
Ich bin der Meinung, dass die individuellen Fähigkeiten grundsätzlich wichtiger sind als die geographische Herkunft. Ein Tessiner Bundesrat ist meines Erachtens nicht ein Muss, es ist aber klar, dass ein Vertreter der italienischen Schweiz eine andere Sensibilität einbringen und das Gremium bereichern kann.
Welche konkreten Impulse erwarten Sie von einem Tessiner Bundesrat?
Wahrscheinlich würde ein Teil der Tessiner Bevölkerung Bundesbern als weniger entfernt empfinden. Ich würde aber die konkreten Impulse wenigstens kurzfristig nicht überschätzen, denn der Bundesrat arbeitet als Gremium zuerst für die gesamtschweizerischen Interessen.
Wie werten Sie die Chancen von FDP-Mann Ignazio Cassis?
Ignazio Cassis wäre ein fähiger Bundesrat und verdient unsere Unterstützung. Er hat sich in Bern eine starke Position erarbeitet, aber ob das reicht, kann ich als Aussenstehender nicht beurteilen.
Eine starke Position im Tessin hat die Logistikbranche, ebenso die Mode. Möchte man diese beiden Sektoren in den nächsten Jahren ausbauen?
Sie haben sich eigentlich fast von selbst entwickelt. Früher dominierte im Tessin die Textilproduktion, die heute nahezu verschwunden ist und durch die Logistik ersetzt wurde. Traditionshäuser wie Zegna galten als Vorbilder und Magnet für andere Modehäuser, namentlich aus Italien. Kein Wunder, spricht man von einer Fashion Valley. Allerdings sind mittlerweile fast alle italienischen Unternehmen zurück nach Italien gekehrt, weil der Druck aus Rom sehr gross war.
Ein herber Verlust.
Das ist natürlich bedauerlich. Doch an deren Stelle sind französische, britische, skandinavische und amerikanische Modehäuser gekommen. Es hat sich im Laufe der Jahre ein wichtiger Cluster gebildet.
Weil diese Firmen einen steuerlichen Sonderstatus geniessen?
Nein. Das mag in der Anfangszeit so gewesen sein, ist heute aber nicht mehr der Fall. Diese Firmen sind grundsätzlich ordentlich besteuert. Wesentlich wichtiger ist die liberale Gesetzgebung der Schweiz, was für ausländische Unternehmen sehr attraktiv ist. Leider wird die Tessiner Logistikbranche zu wenig wahrgenommen. Deshalb sind wir Mitglied des Logistik Cluster Basel geworden.
Weshalb?
Die Achse Chiasso-Basel ist zentral. Darüber hinaus geht es darum, die Zusammenarbeit mit den Basler Kollegen und das Tessin als Logistik-Pol zu verstärken.
Ein Sektor, der seit der Finanzkrise mächtig gelitten hat, sind die Banken und Vermögensverwalter. Hat sich das Tessin von diesem Schock erholt?
Neben dem Stellenabbau haben die Kantone und Gemeinden stark unter den weggebrochenen Steuererträgen gelitten. Es war ein grosser Schock für die Wirtschaft, den Abzug der Banken mitzuerleben. Doch dieser Verlust ist, wenigstens was die Steuererträge anbelangt, fast vollständig wettgemacht worden durch andere Unternehmen, insbesondere aus der Rohstoffbranche, die sich im Tessin niedergelassen haben. Lugano gehört mittlerweile im Stahlhandel zur Weltspitze. Nach Genf und Zug sind wir Nummer drei der Schweiz, nur knapp hinter Zug. Allerdings ist es ein Nachteil, dass der Finanzplatz Tessin im Zuge der Finanzkrise geschwächt wurde. Die Politik der Grossbanken besteht darin, ihre Finanzdienstleistungen, namentlich die komplexeren, in Genf oder Zürich zu zentralisieren. Die fehlenden finanztechnischen Kompetenzen sind eine grosse Herausforderung für die Rohstoffbranche und die übrige Wirtschaft.
Wie gut geht es der Tessiner Wirtschaft?
Die Wirtschaftsfaktoren zeigen, dass wir im Schweizer Durchschnitt liegen. Die Tessiner Wirtschaft ist nicht mehr so schwach wie vor 20 oder 25 Jahren mit den damals hohen Arbeitslosenzahlen. Sie ist heute robuster und stärker diversifiziert. Das zeigt sich darin, dass sie die Finanzkrise und die beiden Währungsschock relativ gut überstanden hat. Im Empfinden der Leute sieht das aber etwas anders aus. Sie reagieren sensibler und haben ein Gefühl der Unsicherheit. Arbeitsplätze bei den Banken gingen verloren, ebenso bei der Post, Armee und SBB. Diese Unsicherheit ist nicht nur im Tessin zu beobachten, sondern in der ganzen Schweiz und auch weltweit. Denn der Wettbewerb, die Konkurrenz und der Druck sind grösser geworden.
Das Empfinden der Bevölkerung im Tessin stimmt nicht mit der wirtschaftlichen Realität überein.
Der Wettbewerb ist intensiver geworden. Die Arbeitskräfte aus der Lombardei sind eine Realität. Doch dem Tessin geht es wirtschaftlich gut. Die Zahlen sind eindeutig.
Fühlt sich das Tessin isoliert?
Die Schweiz und Europa sind für die Wirtschaft kein Fremdwort, sondern gelebte Realität. Doch empfinden die Tessiner Bern als weit entfernt und Italien als aggressiv. Und für sie entspricht Italien der EU. Diese Empfindung ist stark im Bewusstsein der Bevölkerung verankert. Da klaffen die Realität der Wirtschaft und jene der Gesellschaft auseinander. Wenn ein Tessiner Arbeitnehmer durch einen italienischen ersetzt wird, hat man mehrheitlich keine gute Meinung über die bilateralen Verträge, Brüssel und Bern. Deshalb ist es für mich als Vertreter der Handelskammer nicht immer ganz einfach, hier eine Scharnierfunktion wahrzunehmen und beide Sichtweisen unter einen Hut zu bringen.
Kann der neue Tunnel durch den Gotthard eine Deblockade bewirken?
Für uns Wirtschaftsvertreter ist der Tunnel genial. Wir sind viel schneller in Zug, Zürich oder Basel an Sitzungen. Die Deutschschweiz liegt nun praktisch vor der Haustüre. Man darf nicht vergessen, dass die Deutschschweiz und Nordeuropa für die Tessiner Wirtschaft überlebensnotwendig sind – mehr als Italien. Ob die Bevölkerung das auch so sieht, muss sich weisen. Es wäre schön, wenn das Tessin mehr wäre als ein Durchgangskorridor zwischen Zürich und Mailand und sich als eigenständiger Wirtschafts- und Tourismusstandort mit Top-Lebensqualität positionieren kann. Für mich ist eine Öffnung wie der Gotthardtunnel immer eine Chance.
Wie werben Sie für den Wirtschaftsstandort Tessin?
Unsere Trümpfe sind die gleichen wie in der übrigen Schweiz: eine liberale Gesetzgebung, keine allzu grosse Bürokratie, ein einfacher, guter, persönlicher Zugang zur öffentlichen Verwaltung und eine moderate steuerliche Belastung. Vielleicht helfen auch das Tessiner Klima und die zentrale Position zwischen Mailand und Zürich. Die Vernetzung mit der Neat und der zweiten Gotthardröhre werden das Tessin für die Schweizer Wirtschaft noch wichtiger machen.
Wo steht Ihr Kanton in zehn Jahren?
Wir haben eine gute Dynamik, haben die schwierigen 1990er-Jahre endgültig hinter uns gelassen. Dank der breiten Diversifizierung hat es viele Freiräume für Neues. Darauf müssen wir aufbauen, das Positive sehen und fördern – und endlich aufhören zu nörgeln. Das bringt uns definitiv nicht weiter.
Gespräch: Pascal Ihle