La chiave del successo: la formazione professionale

Nell’edizione nr 4/2023 di Ticino Business abbiamo dedicato un ‘dossier’ al tema della formazione professionale, declinata in molti modi. Con un mix concertato di voci, emerge un messaggio chiaro: la formazione professionale è uno dei capisaldi della nostra economia.

La scorsa primavera l’Ufficio Federale di Statistica ha pubblicato alcuni dati inerenti il numero di giovani che terminano, per svariate ragioni, il loro contratto d’apprendistato: emerge che una persona su cinque scinde prematuramente il rapporto di lavoro. I mestieri artigianali tendono addirittura ad avere tassi di abbandono superiori alla media.

Questo dato era indicato in un articolo sulla rivista settoriale “Panissimo”, edito dall’Associazione svizzera mastri panettieri-confettieri (PCS), riportante riflessioni sull’argomento.

Abbiamo dunque pensato di approfondire il macro tema della formazione professionale, con numerosi contributi legati da questo fil-rouge, parlando di giovani, di apprendistati, del settore artigianale, di professioni insolite e di quelle ad alto potenziale, ecc.. Un mix concertato di voci da cui emerge un messaggio chiaro: la formazione professionale è uno dei capisaldi della nostra economia.

Attraverso essa convergono competenze, esperienze e innovazione che plasmano gli individui andando ad incrementare la professionalità e i virtuosismi di un sistema economico e sociale che genera benessere per tutti.

Aziende ed associazioni di categoria sono dunque in primo piano per lavorare – insieme agli altri attori in campo (istituti scolastici, autorità, famiglie) – al fine di strutturare i migliori percorsi per garantire il fiorire delle competenze dei giovani e non, che si inseriscono nel mondo del lavoro. Questo con una pluralità di visioni e l’aggiornamento continuo di programmi, esercitazioni e profili, proprio per stare al passo con i tempi, in un’epoca di grandi mutamenti tecnologici e sociali.

Scarica il dossier.

Carbon tax europea (CBAM): avviata la fase transitoria

Il 1° ottobre sono scattati i primi obblighi previsti dal regolamento che istituisce un meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM) e, in sostanza, una tassa sul carbonio.

Come anticipato nel nostro articolo La carbon tax europea è realtà, lo scorso 1° ottobre ha preso l’avvio la prima fase del meccanismo di aggiustamento del carbonio alle frontiere dell’UE (Carbon adjustment mechanism, CBAM), che obbliga gli importatori di sei settori industriali ad alta intensità di carbonio a comunicare alle autorità europee le emissioni di carbonio dei prodotti importati da Stati terzi e, indirettamente, gli esportatori extra-UE a fornire tali dati ai loro business partner europei.

Secondo il Regolamento (UE) 2023/956 che istituisce un meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM), le merci di origine non preferenziale svizzera non sottostanno al CBAM. La situazione è però diversa per le aziende svizzere che esportano nell’UE merci di origine terza: in questa prima fase e fino al 31 dicembre 2025 esse devono comunicare trimestralmente all’importatore europeo o, se l’importatore è stabilito al di fuori dell’UE, al suo rappresentante doganale indiretto

  • i quantitativi di merci importate
  • le emissioni dirette
  • le emissioni indirette (limitatamente al cemento e ai fertilizzanti)
  • il prezzo del CO2 pagato all’estero.

A tal proposito, la Commissione europea ha messo a disposizione un modello di comunicazione CBAM (file excel, 1.19 MB) per la richiesta dei dati ai fornitori (cfr. allegato IV del Regolamento di esecuzione (UE) 2023/1773 del 17 agosto 2023).

Per quanto riguarda il calcolo delle emissioni incorporate e per tutta la durata del periodo transitorio, il regolamento di esecuzione prevede un sistema flessibile: fino al 31 dicembre 2024 sarà infatti possibile fare riscorso a differenti modalità di rendicontazione (art. 4). La rendicontazione basata su valori di default potrà però essere impiegata solo fino al 31 luglio 2024. A partire dal 1° gennaio 2025 saranno invece accettati solo i metodi di rendicontazione completa (art. 4 par. 1).

Essendovi ancora molti punti aperti, la Commissione europea sta gradualmente mettendo a disposizione documenti e video utili, tra cui:

Da ultimo, ma non meno importante, la Commissione europea ha attivato il portale di identificazione per accedere al Registro transitorio CBAM e presentare le relazioni CBAM trimestrali e ha anche pubblicato una lista provvisoria (e ancora incompleta) delle autorità degli Stati membri competenti in merito all’implementazione del CBAM.


Il vostro contatto in Cc-Ti per ulteriori ragguagli:
Monica Zurfluh, Responsabile Commercio internazionale, T +41 91 911 51 35, zurfluh@cc-ti.ch

Gli svizzeri non sono ancora pronti per la mobilità elettrica

Il gruppo assicurativo AXA ha commissionato alla società di ricerca Sotomo uno studio sulla mobilità in Svizzera con particolare attenzione alla mobilità elettrica.

I risultati emersi dall’indagine dimostrano che i cittadini svizzeri non vogliono rinunciare all’utilizzo dell’automobile quale mezzo di trasporto individuale. Per il 71% degli intervistati è importante possederne una.

Una differenza però salta subito all’occhio se si guarda all’orientamento politico delle persone: chi sta a sinistra o è vicino ai verdi è più disposto a rinunciare all’uso dell’automobile privata a favore dei mezzi di trasporto pubblico.

Anche chi abita nelle grandi città tendenzialmente è disposto a rinunciare a questo veicolo. In quest’ultimo caso sicuramente entrano in gioco gli assillanti problemi di traffico negli agglomerati urbani e la buona disponibilità di mezzi di trasporto pubblici.

Se si osserva la mobilità elettrica si nota che oggi i possessori di un’auto completamente elettrica sono generalmente persone con un elevato reddito famigliare netto di circa 9’400.00 Fr. al mese. In questo caso possono permettersi anche una seconda automobile che generalmente è con propulsione tradizionale benzina o diesel. Questa constatazione, in aggiunta al fatto che per il 29% della popolazione l’acquisto di un BEV (Battery Electric Vehicle) non è attualmente un’opzione, dimostra che gli svizzeri sono ancora molto scettici rispetto questo tipo di propulsione a emissioni zero. I timori verso questo genere di propulsione sono sostanzialmente i seguenti: scarsa autonomia garantita dalle batterie e il loro impatto in fase di produzione 54%), lunghi tempi necessari per la ricarica, costo d’acquisto elevato di un veicolo elettrico (53%) e scarsa disponibilità di stazioni di ricarica pubblica o nei condomini.

Anche il riciclaggio delle batterie, che contengono diversi materiali rari e di difficile smaltimento, insinua qualche dubbio (52%). Nonostante ciò, le auto elettriche sono comunque considerate più ecologiche delle auto tradizionali.

La conclusione che possiamo trarre da questo studio è che gli automobilisti non sono ancora pronti ad affidarsi completamente all’energia elettrica per i loro spostamenti privati. La non conoscenza della tecnologia che sta alla base delle BEV, la scarsa informazione da parte degli operatori professionisti del settore e, non da ultimo, i costi ancora elevati per l’acquisto di una nuova auto a zero emissioni, rendono la transizione ecologica della mobilità privata più lenta.

Grafico 1: Propensione della popolazione svizzera all’acquisto di un’auto a propulsione elettrica (Fonte: AXA/Sotomo)

La conferma di questo risultato la troviamo anche nelle cifre di vendita di auto nuove totalmente elettriche che, dopo qualche anno di crescita esponenziale, in questi ultimi mesi si è letteralmente assestata su percentuali costanti del 16% circa in Svizzera e addirittura del 10% in Ticino. Sicuramente questa è una situazione che andrà modificata con uno sforzo da parte di tutti perché, se la mobilità elettrica non è la panacea di tutti i mali, almeno è una parte importante della soluzione.

È possibile scaricare il rapporto completo di Axa/Sotomo da: sotomo.ch/site/projekte/axa-mobilitaetstacho-2023/

Grafico 2: Quattro diversi tipi di mobilità evidenziati dalla ricerca (Fonte: AXA/Sotomo)

Testo a cura di Marco Doninelli, Responsabile mobilità Cc-Ti

La sicurezza informatica, i processi e la nuova legge federale sulla protezione dei dati

La crescente dipendenza dalla tecnologia e la proliferazione dei dati digitali hanno reso la cybersecurity una delle questioni più urgenti e rilevanti nel mondo moderno. Le interconnessioni del mondo digitale hanno infatti portato ad una crescente consapevolezza della necessità di proteggere le informazioni da minacce virtuali sempre più sofisticate: sono a rischio dati sensibili, informazioni personali e la continuità delle operazioni aziendali.

L’importanza della sicurezza informatica è oggi indiscutibile, ma spesso si misconosce la complessità di questo settore e l’importanza di considerarla come un processo continuo piuttosto che un prodotto da installare una volta per tutte.

Il nuovo paradigma è combinare tecnologia e procedure per una protezione efficace.

La sicurezza informatica non è un destino da raggiungere, ma piuttosto un viaggio in continua evoluzione. Come detto, spesso, si cade nell’errore di considerarla un prodotto, ovvero un insieme di software, firewall o dispositivi hardware che proteggano da minacce. Tuttavia, questa visione è parziale e fuorviante. La sicurezza informatica è piuttosto un processo articolato che coinvolge persone, procedure e tecnologia. Gli esperti del settore sono consapevoli di questa realtà: non offrono solo soluzioni tecniche, ma aiutano le organizzazioni a sviluppare una cultura di sicurezza, implementando procedure robuste e promuovendo la consapevolezza tra i dipendenti. Questo approccio olistico è fondamentale perché, in un mondo digitale in costante cambiamento, la sicurezza deve essere sempre aggiornata e adattata alle nuove minacce.

La tecnologia gioca evidentemente un ruolo fondamentale nella protezione delle informazioni. Firewall, sistemi di rilevamento delle intrusioni, crittografia e altri strumenti tecnologici sono pilastri della sicurezza informatica. Tuttavia, è importante sottolineare che la tecnologia da sola non è sufficiente. È l’abilitatore che consente alle procedure e alle politiche di sicurezza di funzionare in modo efficiente. Per il tramite di queste tecnologie è possibile raggiungere, con strumenti automatici, da configurare correttamente, un buon grado di tranquillità. Le aziende sono chiamate sia ad implementare le soluzioni tecnologiche necessarie sia ad avere una spiccata competenza nella loro gestione e manutenzione. La tecnologia deve essere costantemente monitorata e aggiornata per rimanere efficace contro le minacce in evoluzione. Questo concetto vale sia nel caso in cui si abbia un’infrastruttura gestita internamente sia nel caso in cui questa sia gestita con aziende di supporto esterne.

Le procedure sono la spina dorsale di qualsiasi sistema di sicurezza. Devono essere chiare, accessibili e facili da seguire per essere efficaci. Le aziende devono sviluppare procedure che non solo proteggano le informazioni, ma che siano anche sostenibili nell’uso quotidiano.

L’obiettivo è creare un ambiente in cui le procedure di sicurezza siano integrate nella routine lavorativa senza ostacolarne l’efficienza. Questo equilibrio tra sicurezza e praticità è fondamentale per garantire che le procedure vengano seguite in modo coerente da tutto il personale. Un errore comune è ritenere che un informatico possa occuparsi da solo della sicurezza informatica.

Questa è una visione limitata, poiché le competenze richieste per gestire la sicurezza sono diverse da quelle necessarie per gestire l’infrastruttura tecnologica. Un informatico è responsabile della gestione quotidiana dei sistemi e delle reti, ma un esperto di sicurezza ha una prospettiva differente. Si occupa di valutare le minacce, sviluppare politiche e procedure, monitorare l’efficacia delle misure di sicurezza e garantire la conformità alle normative. Queste responsabilità richiedono una profonda comprensione delle minacce digitali e delle migliori pratiche di sicurezza.

Le due figure non sono in contrasto ma sono chiamate a cooperare in modo attivo. La presenza di due figure è fondamentale per garantire un corretto bilanciamento nell’IT aziendale, oltre che perseguire il principio di separazione tra controllato e controllore. Grazie alle competenze di chi si occupa di sicurezza cibernetica, è possibile sviluppare il cosiddetto principio di security by design e security by default, ovvero fornire a chi si occupa di informatica pura tutte le informazioni per implementare i sistemi in modo tale che siano rispondenti ai requisiti di sicurezza che ciascuna azienda si pone. Per questo motivo non è possibile costruire un modello di sicurezza univoco per tutti, se non per questioni fondanti, di principio, ma ciascuno deve ritagliare in modo sartoriale le proprie politiche di gestione della cybersecurity.

L’introduzione, il 1° settembre 2023, della nuova legge federale sulla protezione dei dati (di cui si è anche discusso nell’evento “LPDomani!” tenutosi lo scorso 31 agosto presso il Casinò di Lugano, organizzato dalla Cc-Ti con Gruppo Sicurezza e Casinò di Lugano) sottolinea ulteriormente come la Confederazione ritenga centrale l’importanza della sicurezza informatica e della gestione delle informazioni. La legislazione impone infatti requisiti rigorosi per la protezione dei dati personali e richiede un approccio proattivo alla sicurezza delle informazioni.

A seguito dell’introduzione della nLPD, le aziende devono garantire che i sistemi e le procedure siano conformi alle leggi sulla protezione dei dati, proteggendo così la privacy degli individui. Anche in questo caso, se non per principi cardine, non è possibile creare una gestione della privacy “fotocopia”, uguale per tutte le aziende e le organizzazioni, ma, per garantire le specificità di ciascuno, si deve analizzare e redigere quanto necessario in modo circostanziato e puntuale.

Non si tratta però di un moloch: la chiave del successo è capire che si tratta di un’opportunità per affrontare un viaggio introspettivo nella vita aziendale e comprendere quali dati si trattino e quali procedure siano in essere, per garantirne la corretta protezione. I dati e tutte le informazioni sono la base fondamentale su cui le aziende e le organizzazioni vivono: diventa quindi mandatorio dedicare del tempo a rendere sicure le infrastrutture affinché non vengano modificati, trafugati, divulgati.


Articolo a cura di Ing. Pietro Vassalli, Cyber Security Manager, Gruppo Sicurezza

Il futuro dell’approvvigionamento energetico, fra flessibilità e sicurezza

L’obiettivo della Confederazione in ambito climatico è chiaro: la neutralità carbonica, ossia il saldo zero tra emissioni e assorbimento di gas serra, entro il 2050. Per raggiungerlo si prevede di trasformare radicalmente il sistema di approvvigionamento energetico del Paese, chiamando in causa tutti gli attori coinvolti: produttori, distributori e consumatori.

La chiave di questo piano risiede nella decarbonizzazione, ovvero la sostituzione delle fonti di energia di origine fossile, che emettono CO2 nell’atmosfera, con fonti rinnovabili a emissioni zero. Benzina, olio combustibile e gas, che oggi assicurano circa il 60% del consumo energetico svizzero, saranno sostituiti da energia proveniente da fonti rinnovabili, prevalentemente elettrica. Le termopompe sostituiranno gran parte dei sistemi di riscaldamento ad olio combustibile e i veicoli elettrici prenderanno il posto di quelli a combustione interna.

Decarbonizzare significa quindi elettrificare, che significa a sua volta accrescere il fabbisogno di energia elettrica. La maggiore efficienza dei motori e dei moderni sistemi di riscaldamento elettrici rispetto a quelli a combustione porterà ad un calo dei consumi globali di energia, ma la produzione di elettricità non potrà che aumentare in maniera importante e dovrà essere accompagnata, per quanto possibile, da misure di efficienza che ne ottimizzino l’impiego.

I piani elaborati dalla Confederazione prevedono che l’incremento del fabbisogno dielettricità venga coperto in primo luogo da una massiccia crescita della produzione fotovoltaica. Gli scenari per il 2050 prospettano un sistema di approvvigionamento basato su due pilastri, idroelettrico e fotovoltaico, dove il primo sarà chiamato a compensare l’assenza di produzione del secondo durante le ore senza sole (circa 6’750 delle 8’760 ore annue), in particolar modo nei mesi invernali. Lo sviluppo del solare dovrà quindi essere affiancato da un incremento della produzione idroelettrica invernale, ottenibile attraverso l’aumento della capacità dei bacini di accumulazione e la creazione di nuovi impianti di pompaggio-turbinaggio.

Gli obiettivi di produzione fissati dalla Confederazione sono molto ambiziosi e per il loro raggiungimento le Camere federali hanno recentemente approvato lo stanziamento di fondi miliardari. I primi importanti progetti, tra i quali spicca in Ticino l’innalzamento della diga del Sambuco, stanno vedendo la luce, ma il ritmo degli investimenti nel prossimo decennio dovrà crescere in maniera esponenziale, e non solo a parole.

Il tempo ci dirà se quanto previsto dalla Confederazione permetterà di centrare gli obiettivi climatici, riuscendo contemporaneamente a soddisfare il fabbisogno di energia del Paese in modo sicuro e continuativo. I piani per la transizione energetica sono diffusi in tutto il continente europeo, non solo in Svizzera, e se immaginiamo come influenzeranno le dinamiche degli scambi di energia elettrica tra i singoli Stati, le incognite si moltiplicano.

Ciò che sappiamo già oggi è che non sarà soltanto il fronte della produzione a dover agire. L’aumento della capacità di stoccaggio dei bacini permetterà di spostare una parte della produzione idroelettrica dall’estate all’inverno, compensando il naturale calo di produttività del fotovoltaico in questa stagione, ma le continue e crescenti oscillazioni delle nuove produzioni rinnovabili all’interno delle giornate e delle settimane richiederanno l’adozione di sistemi supplementari per la gestione dei carichi. I consumatori finali, imprese ed economie domestiche, diventeranno sempre più parte attiva del sistema energetico e saranno incentivati a investire in impianti di produzione, di accumulazione e di gestione della flessibilità.

Una quota crescente dei loro consumi sarà coperta dalla produzione di impianti fotovoltaici di proprietà, i veicoli elettrici potranno essere impiegati come sistemi di regolazione, capaci non solo di accumulare ma anche di cedere energia, e l’uso di impianti domestici – quali ad esempio le termopompe – potrà essere modulato in funzione dei carichi di rete. Questa evoluzione permetterà di flessibilizzare il consumo e la produzione dell’energia elettrica, ma richiederà importanti investimenti supplementari da parte delle aziende del settore per adeguare le reti di distribuzione. Parte della produzione di energia sarà ripartita tra migliaia di piccoli impianti e i punti di allacciamento alla rete dovranno gestire un’enormità di microflussi in entrata e in uscita.

Per regolare una tale complessità di transiti e la mole dei dati ad essi collegati, la rete dovrà essere potenziata in tutte le sue componenti. Un recente studio pubblicato dall’Ufficio federale dell’energia stima che l’adeguamento della rete di distribuzione richiederà investimenti superiori ai 40 miliardi di franchi entro il 2050.

Investimenti che, sommati a quelli paventati per lo sviluppo delle nuove produzioni rinnovabili e le ulteriori misure per la neutralità carbonica, faranno lievitare il costo globale della svolta energetica Svizzera ad oltre 100 miliardi di franchi.

Un ciclo di investimenti come non se ne vedevano dai tempi della realizzazione dei grandi impianti di produzione che hanno assicurato l’approvvigionamento del paese nel secondo dopoguerra, quasi 80 anni fa, i cui costi ricadranno su tutti gli attori coinvolti: dalle aziende del settore energetico ai consumatori, passando per il mondo delle imprese.

Ciò che verrà realizzato da qui al 2050 dovrebbe (ed uso il condizionale) garantire il fabbisogno di energia del Paese per i prossimi 80 anni, ma le incognite, a fianco delle opportunità, non mancano. Personalmente non posso non rimarcare come la sicurezza dell’approvvigionamento verrà esposta a grandi rischi e quanto i costi per il consumatore finale siano destinati ad aumentare.


Articolo a cura di Giovanni Leonardi, Presidente del CdA AET

Nuovo anno fiscale, tasse di sdoganamento in aumento negli USA

L’autorità doganale americana CBP ha annunciato l’aumento delle tasse di sdoganamento dal 1° ottobre 2023.

La U.S. Customs and Border Protection (CBP), ovvero l’autorità doganale USA, ha annunciato i seguenti adeguamenti della Merchandise Processing Fee (MPF), la tassa riscossa sulle importazioni, e di altre tasse in coincidenza con il nuovo anno fiscale, ossia a partire dal 1° ottobre 2023:

  • l’importo minimo della MPF per le spedizioni di valore superiore a 2’500 dollari (ingresso formale) passerà a 31.67 dollari e l’importo massimo salirà a 614.35 dollari. L’aliquota ad valorem resterà invece invariata allo 0.3464%;
  • la nuova tariffa per l’ingresso/ il rilascio informale (spedizioni sotto i 2’500 dollari) sarà di 2.53 dollari;
  • la sovrattassa per l’entrata/il rilascio manuale passerà invece a 3.80 dollari.

Per ulteriori ragguagli: Federal Register: COBRA Fees to be Adjusted for Inflation in Fiscal Year 2024 CBP Dec. 23-08

L’intrepido imprenditore: coraggio e resilienza

Non è facile oggi fare impresa

Da imprenditori bisogna confrontarsi giorno per giorno con rischi e ostacoli che le tensioni congiunturali di questi anni hanno reso più complessi e gravosi rispetto al passato. Una sfida ancora più dura in Ticino. Lo strisciante interventismo statale, anche federale e non solo cantonale, ha condizionato pesantemente la libertà economica. Alimentando ad arte, inoltre, un clima poco favorevole alle imprese, all’insegna di un diffuso politically correct economico per cui il mercato è la fonte di ogni ingiustizia, il profitto un furto, il capitale una parola oscena e l’imprenditore è solo uno sfruttatore privo di coscienza sociale. Eppure, i nostri imprenditori hanno continuato a fare tenacemente il loro lavoro. Non certo incuranti della pioggia di accuse ingenerose, ma per l’alto senso di responsabilità che caratterizza la stragrande maggioranza delle imprenditrici e degli imprenditori, tutt’altro che mossi solo da interessi egoisti.

Con creatività, flessibilità e grande spirito di adattamento il mondo imprenditoriale ticinese ha affrontato la grave crisi del 2008, il successivo sconvolgimento del cambio franco-dollaro-euro, le radicali trasformazioni tecnologiche del sistema produttivo, i repentini alti e bassi dei mercati internazionali che hanno imposto veloci cambiamenti dei modelli di business, la pandemia, la crisi delle materie prime, i problemi di approvvigionamento, le conseguenze della guerra in Ucraina e gli abnormi rincari dei costi dell’energia. Nonostante questa lunga catena di avversità gli imprenditori non hanno rinunciato a investire, a innovare per salvaguardare e migliorare la competitività delle loro aziende. Hanno creato migliaia di nuovi posti di lavoro, rafforzando la base economica e occupazionale del Cantone.

Nonostante tutto si investe

Anche in un contesto così instabile e imprevedibile, imprese e imprenditori si sono confermati come una componente vitale della società: se le aziende funzionano l’economia gira, se l’economia funziona si generano ricchezza e benessere per tutta la collettività. È questa l’essenza di quella autentica funzione sociale dell’impresa che purtroppo non è riconosciuta per come meriterebbe. Ma affinché un’azienda funzioni, l’imprenditore sa che non può stare fermo, che deve anticipare i tempi, investire e innovare per restare concorrenziale. Un compito a cui l’imprenditoria ticinese non si è di certo sottratta, dimostrando come l’innovazione non sia un concetto astratto, ma che può e deve essere parte dell’attività quotidiana, pena l’esclusione dal mercato. Anche questo un elemento spesso negletto da chi considera l’innovazione limitata alle navette spaziali sparate su Marte.

Le sole società anonime che fanno capo alle imprese di famiglia in Ticino, settore che da noi rappresenta oltre il 60% delle aziende, nel triennio 2019-21 hanno investito in beni tangibili circa 6,5 miliardi di franchi, con investimenti medi per azienda poco al di sotto del milione di franchi. Grazie anche a questi investimenti le aziende a conduzione familiare hanno visto aumentare l’occupazione, superando largamente gli 83mila impieghi. Nel comparto chimico-farmaceutico, una delle punte di diamante della nostra economia, le aziende dal 2018 al 2022 hanno investito da sole un miliardo in Ricerca e Sviluppo, nuovi laboratori e siti di produzione, creando oltre 500 nuovi posti di lavoro.

Pur tra i contraccolpi della pandemia sulle supply chain, l’aumento dei costi dell’energia, il rincaro e la difficoltà di reperire materie prime, il trend positivo degli investimenti è stato confermato dall’ Inchiesta congiunturale della Cc-Ti del 2022: nel settore industriale ha investito il 67% delle aziende, percentuale che sale al 77% per le imprese con oltre 100 dipendenti. L’indagine ha pure rilevato per l’anno in corso un 44% di aziende che ha già investito o che intende farlo.

Sulla base dei dati dello Swiss Innovation Survey, lo studio nazionale del Kof sull’innovazione, l’Ufficio cantonale di statistica (Ustat) ha evidenziato che le imprese ticinesi, che fanno innovazione e investono in R&S sono in proporzione di più rispetto alla media svizzera. Un chiaro segnale del fatto che i nostri imprenditori credono nel territorio in cui operano, che sanno valorizzare i saperi e le competenze dei loro collaboratori perché da essi dipende lo sviluppo competitivo dell’azienda.

Il profitto non è un furto

Se l’investimento nell’innovazione abbraccia molti aspetti, dal miglioramento dei processi produttivi a quello dei prodotti, non va dimenticato che esso innesca anche delle trasformazioni positive che si riflettono direttamente su tutta la società: nuovi prodotti che soddisfano nuovi bisogni, più sviluppo produttivo, crescita del know-how del sistema Paese, più lavoro qualificato, più redditi e ricchezza per tutti. In poche parole, una generale evoluzione non solo economica ma anche sociale. E al centro di questo progresso c’è l’imprenditore con la sua voglia di fare, con le sue visioni per far crescere l’azienda.

Sebbene sia confrontato con non poche difficoltà, chi fa impresa crede nel futuro altrimenti non potrebbe, non saprebbe affrontare le sfide del presente, vive la passione di chi ragiona sul lungo termine da cui nasce il coraggio di pensare e ideare cose che ancora non esistono.

Ma un’azienda non può investire, non può innovare se non ha risorse sufficienti, ossia se non consegue dei profitti. Il profitto, che in Ticino è condannato a prescindere come un’appropriazione indebita dei “padroni”, quando viene conseguito nel rispetto delle leggi e delle consuetudini economiche locali, dimostra innanzitutto che l’impresa funziona, che chi la guida fa un uso efficiente dei fattori produttivi. I veri imprenditori, come diceva qualcuno, non servono la società con annunci e dichiarazioni roboanti sulle loro buone intenzioni. Svolgono invece la loro funzione fondamentale perseguendo quel profitto che garantisce i mezzi adeguati per investire, mantenere competitiva l’impresa, continuare a produrre quei beni e servizi che i consumatori richiedono, per conservare i posti di lavoro e offrirne di nuovi. È così che si consolidano pure i legami col territorio e la comunità locale, si accresce la fiducia dei clienti, dei fornitori e degli stessi dipendenti che si sentono rassicurati dal buon andamento aziendale. Preoccupante e sbagliato credere che l’imprenditore miri solo al suo profitto personale, non è così! L’imprenditore investe nel suo lavoro, nella propria azienda e, che lo si accetti o meno, rappresenta l’unica fonte per creare e ridistribuire ricchezza alla comunità.

Chi crea il lavoro

Del resto, in Ticino l’occupazione continua a crescere. Secondo gli ultimi dati dell’Ustat, anche nel secondo trimestre del 2023 è aumentato il numero degli occupati attivi sul mercato del lavoro: più 5600 unità, rispetto allo stesso trimestre dell’anno scorso, con un incremento del 2,4% che ha portato il numero totale degli occupati oltre quota 242.650. Una crescita che riguarda anche i residenti (+4,6%), in misura maggiore rispetto ai frontalieri (+3,5). In rapporto al 2022 si contano 1’500 disoccupati in meno.  Dunque, l’economia continua a creare lavoro: il tasso di crescita degli impieghi offerti dalle nuove imprese ticinesi tra il 2013 e il 2020 è addirittura superiore alla media nazionale.

Il fatto che negli ultimi cinque anni lo sviluppo dell’occupazione sia stato trainato principalmente dai lavoratori d’oltre confine dimostra il dinamismo del nostro sistema produttivo che, al di là delle ricorrenti critiche sull’effetto sostitutivo del frontalierato, ha fame di manodopera. Oggi uno dei principali problemi degli imprenditori è, infatti, la mancanza di personale qualificato e a volte persino di lavoratori poco formati.

Certo, nel Cantone esistono anche aziende, prevalentemente piccole, che sopravvivono grazie al basso costo della manodopera, perché il contesto internazionale molto concorrenziale non lascia altra scelta. Attenzione però nel criminalizzare queste imprese, come si fa abitualmente nel dibattito pubblico, perché esse offrono comunque spesso impieghi anche a persone meno qualificate che altrimenti resterebbero senza un posto e senza un salario. Semmai queste realtà andrebbero aiutate, con interventi mirati, a consolidarsi e a crescere, quando ci sono i presupposti per un possibile miglioramento.

Il lavoro non si crea per legge, lo creano le imprese se sono messe nelle condizioni di farlo. I nostri imprenditori, che già operano in una situazione difficile, contrassegnata da profondi e rapidissimi cambiamenti strutturali, da un risorgente nazionalismo economico e da tensioni geopolitiche che destabilizzano di continuo i mercati, chiedono solo che la loro attività non sia resa ancora più complicata. Vorrebbero che, quando si discute di politica economica si ragionasse sulla base di dati e fatti concreti e non di preconcetti ideologici.

Sostenere gli imprenditori oggi significa credere nel nostro sistema Paese domani!

Conservazione digitale delle prove dell’origine all’import

Dal 1° gennaio 2024 sarà consentita la conservazione delle prove dell’origine all’importazione in formato digitale.

Le prove dell’origine che servono per un’imposizione all’aliquota preferenziale all’importazione devono attualmente essere custodite in formato cartaceo originale.

Secondo quanto comunicato dall’Ufficio federale della dogana e della sicurezza dei confini (UDSC) il 3 agosto scorso, dal 1° gennaio 2024, dopo l’imposizione sarà consentita la conservazione di copie, anche in forma digitale, dei documenti. Durante il periodo di conservazione, tali prove dell’origine (o le relative copie) dovranno poter essere presentate, su richiesta, all’UDSC.

Questo NON si applicherà alle prove dell’origine per imposizioni all’aliquota preferenziale precedenti il 1° gennaio 2024, che dovranno continuare ad essere archiviate in formato cartaceo originale. E ciò anche se il periodo di conservazione andrà oltre la data sopra indicata.

Link utili:

Il Candidato ideale – Scegliere l’eccellenza

L’efficace selezione del personale e la gestione delle risorse umane sono elementi vitali per il successo di qualsiasi azienda. In un mercato del lavoro in continua evoluzione, trovare i candidati giusti e sviluppare un team coeso, è fondamentale per raggiungere gli obiettivi ed il successo aziendale. Questo articolo esplora i concetti chiave legati alla selezione del personale e alla gestione delle risorse umane, analizzando le strategie, le sfide e i benefici associati.

Selezione del personale: il primo passo verso il successo

La selezione del personale è il processo attraverso il quale le aziende identificano, valutano e scelgono i candidati più adatti per occupare determinate posizioni. È un processo strategico che richiede attenzione e cura, poiché le decisioni prese in questa fase influenzano direttamente la performance e la cultura aziendale. La selezione efficace può portare a una maggiore produttività, soddisfazione dei dipendenti e riduzione del turnover.

Fasi chiave della selezione del personale

  • Pianificazione: Comprendere le esigenze dell’organizzazione e definire le competenze richieste per il ruolo.
  • Ricerca: Attrarre candidati tramite annunci di lavoro, reti professionali, social media e altre fonti.
  • Screening: Valutare i curriculum e le lettere di presentazione per identificare i candidati idonei.
  • Interviste: Condurre interviste strutturate per valutare le competenze tecniche e le caratteristiche personali.
  • Valutazione: Utilizzare test psicometrici per determinare le capacità cognitive ed emotive.
  • Referenze: Controllare le referenze dei candidati per verificare le informazioni fornite.
  • Offerta: Fornire un’offerta al candidato scelto, inclusi salario e benefici.
  • On-boarding: Accogliere i nuovi assunti e facilitare la loro integrazione nell’organizzazione.

Sfide nella selezione del personale

La selezione del personale può presentare diverse sfide, tra cui la scarsità di talento, la concorrenza tra le aziende per i candidati migliori e la valutazione accurata delle soft skills. Inoltre, è fondamentale evitare pregiudizi e discriminazioni durante il processo di selezione, promuovendo la diversità e l’inclusione. Entrare nella mente del candidato ideale è un viaggio intrigante. Comporta molto di più che un semplice sguardo sul curriculum. Occorre avere la capacità di scoprire e scavare a fondo nelle ambizioni, nelle passioni e nei valori che guidano ogni individuo. Il candidato ideale è la persona le cui esperienze e aspirazioni si intrecciano perfettamente con le necessità dell’azienda, creando una sinergia che genera crescita reciproca.

Le capacità di analisi sono l’arma segreta del recruiter di talenti. Dietro ogni candidato si nasconde una storia, una serie di competenze e risultati che necessitano di un’interpretazione acuta per individuare i punti di forza nascosti, scivolando tra le righe dei CV e scoprendo quel “qualcosa in più” che fa la differenza.

Ma c’è di più. Il recruiter del personale ideale non tratta solo le assunzioni, ma anche le relazioni. Questo abile comunicatore sa come mettere a proprio agio i candidati, raccogliere informazioni preziose e gettare i semi di un potenziale coinvolgimento duraturo. La sua conversazione non è solo un dialogo, ma un ponte verso il futuro.

Gestione delle risorse umane: coltivare il potenziale dei dipendenti

Una volta selezionati i candidati giusti, la gestione delle risorse umane gioca un ruolo cruciale nel garantire il successo continuo dell’organizzazione. La gestione delle risorse umane si occupa di aspetti come lo sviluppo delle competenze, la motivazione dei dipendenti, la gestione delle performance e la creazione di un ambiente di lavoro positivo e costruttivo.

Componenti chiave della gestione delle risorse umane

  • Sviluppo delle Competenze: Offrire opportunità di formazione e sviluppo per migliorare le competenze dei dipendenti.
  • Gestione delle Performance: Stabilire obiettivi chiari, fornire feedback regolare e valutare le performance dei dipendenti.
  • Motivazione: Implementare strategie per mantenere alta la motivazione, come riconoscimenti, opportunità di crescita e premi.
  • Gestione del Turnover: Identificare le cause del turnover e adottare misure per migliorare il coinvolgimento e la soddisfazione dei dipendenti.
  • Politiche e Benefici: Creare politiche aziendali chiare e offrire benefit competitivi per attrarre e trattenere il talento.
  • Comunicazione Efficace: Favorire una comunicazione aperta e trasparente tra i dipendenti e i dirigenti.

Vantaggi della gestione efficace delle risorse umane

La gestione delle risorse umane ben strutturata può portare a numerosi vantaggi, tra cui una maggiore produttività, un clima organizzativo positivo, una riduzione del conflitto interno e un migliore equilibrio tra vita professionale e personale per i dipendenti.

In conclusione

Un’azienda, se desidera eccellere e ottimizzare tempo e denaro, deve scegliere le persone giuste. La selezione del personale e la gestione delle risorse umane sono elementi cruciali per il successo aziendale. Attraverso una selezione accurata e una gestione attenta, le aziende possono costruire team di talento e coltivare un ambiente di lavoro stimolante e produttivo.

Investire nelle risorse umane non è solo un dovere, ma anche un processo strategico che può generare rendimenti significativi nel lungo termine. Per questo motivo è importante frequentare il corso Cc-Ti “Il candidato ideale” che si terrà nei prossimi 7 e 14 novembre 2023 (info: www.cc-ti.ch/calendario/il-candidato-ideale).

Articolo a cura di Luciana Mazzi, titolare di POWER LIFE ACADEMY, Lugano

Prodotti siderurgici trasformati e sanzioni contro la Russia: quale prova dell’origine?

Nell’ambito delle misure restrittive contro la Russia vige, tra gli altri un divieto di acquisto, importazione e trasporto di prodotti siderurgici provenienti dalla Federazione russa o originari della stessa. A partire dal 30 settembre tale divieto è esteso ai prodotti che, sottoposti a trasformazione in un Paese terzo, incorporano prodotti siderurgici provenienti dalla Federazione Russa o originari della stessa. Si pone ora la questione dell’individuazione dei documenti a comprova dell’origine di tali fattori produttivi.

Conformemente all’art. 14a cpv. 2 dell’ordinanza che istituisce misure restrittive nei confronti della Russia, dal 30 settembre sono vietati l’importazione, il trasporto e l’acquisto dei prodotti siderurgici di cui all’allegato 17 che sono stati sottoposti a trasformazione in un Paese terzo e incorporano prodotti siderurgici provenienti dalla Federazione Russa o originari della stessa. Il cpv. 4 dell’art. 14a specifica che tale divieto non si applica all’acquisto dei beni che rientrano nei contingenti di importazione stabiliti dall’Unione europea, né all’importazione, al transito e al trasporto in e attraverso la Svizzera di tali beni, a condizione che all’atto dell’importazione in Svizzera sia apportata la prova attestante il Paese di origine dei fattori produttivi siderurgici impiegati per la trasformazione dei beni in un Paese terzo.

Le note interpretative delle sanzioni, che la Segreteria di Stato dell’economia (SECO) ha aggiornato il 1° settembre e il 15 settembre(*), chiariscono quali documenti devono essere prodotti per attestare il Paese di origine del ferro o dell’acciaio utilizzati come fattori produttivi:

a) per i prodotti semilavorati: il certificato di prova (mill test certificate), che contiene il nome dell’azienda in cui avviene la produzione, il nome del Paese in cui è avvenuta la fusione (cfr. numero di fusione) e la classificazione del prodotto nella sottovoce (voce di tariffa doganale a sei cifre);

b) per i prodotti finiti: il certificato o i certificati di prova contenenti le seguenti informazioni
i. il nome del Paese e dell’azienda in cui è avvenuta la fusione (cfr. numero di fusione) e la classificazione del prodotto nella sottovoce (voce di tariffa doganale a sei cifre); e
ii. il nome del Paese e il nome dell’azienda in cui, eventualmente, sono state effettuate le seguenti lavorazioni:
1. laminazione a caldo
2. laminazione a freddo
3. rivestimento metallico a caldo
4. rivestimento metallico elettrolitico
5. rivestimento organico
6. Saldatura
7. perforazione/estrusione
8. stampaggio/laminazione
9. saldatura ERW/SAW/HFI/laser.

In aggiunta ai documenti summenzionati, possono essere riconosciuti quali elementi di prova idonei anche le fatture, le bolle di consegna, i certificati di qualità, le dichiarazioni a lungo termine dei fornitori, la documentazione relativa al calcolo e alla produzione, i documenti doganali del Paese esportatore, la corrispondenza commerciale, le descrizioni dei prodotti, le dichiarazioni del produttore o le clausole di esclusione nei contratti di acquisto, che comprovano l’origine non russa dei prodotti intermedi. La responsabilità della correttezza e veridicità delle informazioni contenute nei certificati di prova è dell’importatore.

In caso di importazioni dall’UE di prodotti siderurgici, non è richiesta alcuna prova. In caso di importazione diretta da un Paese terzo, al momento dell’importazione di prodotti siderurgici di cui all’allegato 17 che sono stati lavorati in un Paese terzo deve essere disponibile una prova, da presentare su richiesta alle autorità di esecuzione. In caso di dubbi le autorità di esecuzione possono richiedere ulteriori prove, ad esempio certificati di prova separati per le diverse fasi di trasformazione subite dal prodotto. Tutti i certificati devono essere coerenti tra loro.

Poiché i prodotti delle voci di tariffa doganale 7207.11, 7207.1210 e 7224.90 sono prodotti semilavorati, secondo le disposizioni sanzionatorie in vigore

  • per le merci realizzate utilizzando i fattori produttivi della voce di tariffa doganale 7207.11 il divieto si applica dal 1° aprile 2024;
  • per le merci realizzate utilizzando i fattori produttivi delle voci di tariffa doganale 7207.1210 o 7224.90 il divieto si applica dal 1° ottobre 2024.

Ergo: fino alle date sopra indicate la Federazione Russa può figurare sul certificato di prova come nome del Paese in cui è avvenuta la fusione (cfr. numero di fusione).

Da ultimo, ma non meno importante, se la Federazione Russa è indicata come il Paese in cui sono state effettuate le altre lavorazioni (p. es. laminazione a caldo, laminazione a freddo), l’importazione o l’acquisto dei prodotti non sono consentiti.

(*) La modifica del 15 settembre fa seguito al rilascio, il 12 settembre, di nuove FAQ da parte della Commissione europea sugli strumenti di prova utilizzabili (cfr. domanda 11) e alla pubblicazione di una nota da parte delle dogane tedesche “Einfuhrverbot für Eisen- und Stahlerzeugnisse” – Zoll.de).