Formazione continua in azienda

Da alcuni anni, i dati statistici mostrano che il tasso di partecipazione alla formazione continua in Svizzera è buono, soprattutto se si considerano le persone che già possiedono solide qualifiche grazie alla formazione di base. Dei margini di miglioramento si evidenziano per quanto riguarda le competenze di base degli adulti e la formazione professionale continua. Per questo motivo il Consiglio federale ha deciso di adottare delle misure per migliorare le condizioni quadro nel campo della formazione degli adulti in modo da incoraggiare e facilitare la partecipazione alla formazione continua, con particolare attenzione alle PMI e ai loro dipendenti.

Infatti, il 23 giugno 2021 il Consiglio federale ha incaricato il Dipartimento federale dell’economia, della formazione e della ricerca (DEFR) di ottimizzare le condizioni quadro di partecipazione ai corsi di formazione per adulti e incoraggiare così l’iscrizione di coloro che presentano lacune nelle competenze di base.

Oltre a perfezionare le condizioni quadro per la formazione professionale e continua, la Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione (SEFRI) è stata incaricata di promuovere il programma “Semplicemente meglio! …al lavoro”, che sostiene finanziariamente le aziende che vogliono migliorare le competenze di base dei propri dipendenti.

Anche le associazioni professionali interessate saranno maggiormente coinvolte grazie al programma pilota “Coaching formazione continua per le PMI”, che vuole sviluppare un’offerta di consulenza per rilevare e definire le esigenze di formazione continua di piccole e medie imprese (PMI).

Con l’inserimento della promozione delle competenze di base nella legge federale sulla formazione continua (LFCo) e con le misure annunciate la Confederazione ha dato degli impulsi che dovrebbero stimolare le aziende a promuovere l’apprendimento dei propri collaboratori e parallelamente aumentare la partecipazione alla formazione continua di quei pubblici che attualmente ancora faticano ad avere accesso ai corsi.

In questo particolare periodo storico – che ha visto l’accelerazione di processi, come ad esempio la digitalizzazione – la Conferenza della Svizzera italiana per la formazione continua degli adulti CFC, accoglie con favore la decisione del Consiglio federale e ritiene di fondamentale importanza rafforzare ulteriormente la politica della formazione continua adottando adeguate misure di sostegno e riconoscendo la necessità di maggior azione, in particolare nella formazione continua professionale. Per questo motivo, in collaborazione con i suoi soci – fra cui la Cc-Ti, che siede anche nel Comitato – e i suoi partner, la CFC mira a mettere in rete e rafforzare la collaborazione tra chi offre formazione e le aziende del territorio che intendono implementare misure di formazione specifiche come quelle sostenute dal programma “Semplicemente meglio! …al lavoro”.

Le aziende interessate al programma che desiderano avere maggiori informazioni possono rivolgersi al segretariato CFC oppure consultare il sito www.meglio-adesso.ch/aziende dove, nella sezione “testimonianze”, si possono visionare dei filmati che presentano le esperienze di aziende che hanno beneficiato del programma, permettendo ai propri collaboratori di acquisire le competenze necessarie a sviluppare la loro professionalità sul posto di lavoro. Insomma, siamo di fronte ad un’interessante possibilità per continuare in modo coerente e strutturato quel difficile percorso di costruzione di una chiara identità aziendale formativa. Un’occasione unica e forse irripetibile di cui speriamo anche al Sud delle Alpi si riesca ad approfittare.

LINK UTILI
Il Consiglio federale intende rafforzare l’acquisizione delle competenze in particolare nelle PMI – comunicato stampa
– Programma “Semplicemente meglio! …al lavoro
Conferenza della Svizzera italiana per la formazione continua degli adulti CFC

Articolo a cura di Paolo Ortelli, Presidente Conferenza della Svizzera italiana per la formazione continua degli adulti CFC

Tema aziende: obbligo di vaccinazione?

Il Coronavirus con il quale siamo purtroppo confrontati da oltre un anno e mezzo non pone solo difficili questioni di gestione della sanità, degli aspetti sociali ed economici, ma presenta inevitabilmente anche molti aspetti di rilevanza giuridica. Come ampiamente previsto e prevedibile, la vaccinazione e un eventuale obbligo di sottoporvisi non fanno eccezione.

Anzi, è un tema molto delicato che ci accompagnerà nei prossimi mesi. Alcuni paesi, Francia in testa, proprio in questi giorni hanno iniziato a introdurre un obbligo di vaccinazione, inizialmente per il personale sanitario, ma vi è da credere che la discussione si estenderà anche ad altri ambiti, visto che comunque è già stata ventilata l’ipotesi che chi non è vaccinato nei prossimi mesi avrà una forte limitazione delle sue libertà, per cui si sfiora abilmente di fatto l’obbligatorietà generale per tutti. Qui non si tratta di dare giudizi, ma semplicemente di chiarire quali sono le basi legali oggi applicabili a questo tema.

1. Mondo del lavoro e vaccinazione

In generale, va rilevato che la legge federale del 28 settembre 2012 sulle epidemie, LEp, RS 818.101), e più precisamente l’articolo 22, prevede quanto segue:

“Se esiste un pericolo considerevole, i Cantoni possono dichiarare obbligatorie le vaccinazioni di gruppi di popolazione a rischio, di persone particolarmente esposte e di persone che esercitano determinate attività.”

Come si traduce questo nel contesto del mondo del lavoro, in assenza (finora) di un obbligo imposto dallo Stato?

La vaccinazione è considerata un modo efficace per controllare il Coronavirus e nel rapporto di lavoro evidentemente può assumere una certa rilevanza anche per evitare le assenze per malattia o per quarantena, la diffusione del virus, in un contesto di protezione per dipendenti e clienti. Si pone quindi in primo luogo la questione di sapere se vi sono le basi legali sufficienti ad oggi per il datore di lavoro di ordinare una vaccinazione obbligatoria e chiedere ai dipendenti se sono stati vaccinati.

Partiamo dal principio che nel quadro dell’attività lavorativa il datore di lavoro ha il diritto di impartire istruzioni, come previsto dall’art. 321d del Codice delle obbligazioni, per quanto riguarda l’esecuzione del lavoro.

Questa base legale è sufficiente per prevedere un obbligo generalizzato di vaccinazione per i dipendenti? Il fatto di poter disporre unilateralmente delle istruzioni sull’esecuzione del lavoro e il comportamento in azienda sembra aprire uno spiraglio in questo senso. Tuttavia, questo diritto va esercitato in modo ponderato, tenendo conto degli interessi dei dipendenti e deve avere un rapporto fattuale o funzionale con l’attività professionale svolta.

2. Vaccinazione obbligatoria solo in casi eccezionali?

Non esiste un potere generale per il datore di lavoro di ordinare la vaccinazione obbligatoria dei dipendenti, anche sulla base del diritto di dare istruzioni. Occorre valutare caso per caso. Maggiore è l’interesse operativo del datore di lavoro riguardo alla vaccinazione, tanto più grande sarà la probabilità che il diritto alla vita privata del dipendente e quindi la sua libertà di scelta sul vaccino possano essere limitati. L’obbligo di vaccinare i (singoli) dipendenti dell’azienda deve quindi essere reso necessario dall’attività professionale e solo se non vi è altra misura possibile per impedirlo.

È possibile ritenere che queste misure alternative siano costituite dagli elementi essenziali del concetto di protezione, come il regolare lavaggio delle mani con sapone, la regolare disinfezione delle mani e delle attrezzature di lavoro e l’uso di dispositivi di protezione (maschere, guanti, protezione degli occhi, tute protettive, ecc.).

3. Obbligo di vaccinazione e piani di protezione

Una vaccinazione obbligatoria ordinata dal datore di lavoro può essere attuata quando è necessaria per l’applicazione di un concetto adeguato e completo di protezione. Inoltre, la vaccinazione obbligatoria può essere giustificata se i dipendenti hanno contatti regolari o sono fisicamente vicini a persone che appartengono a un gruppo a rischio (ad esempio persone che soffrono di alcune malattie cardiache, malattie polmonari e respiratorie croniche, cancro, malattie renali, malattie del fegato o diabete). Nelle professioni sanitarie e di assistenza, la vaccinazione obbligatoria è ipotizzabile per le persone che hanno un contatto diretto con queste persone vulnerabili. Benché, nel contesto sanitario, la strategia di vaccinazione punti piuttosto a vaccinare queste persone particolarmente vulnerabili il più presto possibile, per cui la vaccinazione obbligatoria del personale curante dovrebbe essere l’eccezione piuttosto che la regola.

4. Obbligo di vaccinazione e viaggi all’estero

La questione dell’obbligo di vaccinazione assume una valenza particolare per i dipendenti che viaggiano all’estero se il viaggio è possibile solo con la vaccinazione, perché questo diventa una parte essenziale dell’adempimento del lavoro impartito. Obblighi presenti anche nel rapporto, ad esempio, con le compagnie aeree, che richiedono la prova della vaccinazione come parte dei termini contrattuali del viaggio.

Anche qui va valutato attentamente se i viaggi di lavoro sono sempre necessari, fatto in parte relativizzato negli ultimi mesi. In questo contesto, una vaccinazione obbligatoria per i dipendenti che appartengono a gruppi a rischio è difficilmente applicabile, visto che probabilmente non tutti gli spostamenti sono indispensabili. Inoltre, il datore di lavoro deve prendere le misure necessarie e ragionevoli per proteggere i dipendenti interessati, che siano vaccinati o meno e quindi tenere conto di questi aspetti nella situazione particolare dei viaggi di lavoro.

5. Si può rifiutare il vaccino?

Se i dipendenti si rifiutano di rispettare un obbligo di vaccinazione, violano il loro dovere di seguire le istruzioni. Se, di conseguenza, il lavoro non può essere eseguito, il datore di lavoro non è obbligato a pagare il salario. Inoltre, il datore di lavoro può dare disdetta del rapporto di lavoro, osservando i termini contrattuali o generali del preavviso necessario e tale disdetta non è abusiva. Se l’obbligo di vaccinazione risulta essere illegale, i dipendenti possono rifiutarsi di essere vaccinati senza che vi siano conseguenze di alcun genere. Se vi è stata disdetta del rapporto di lavoro sulla base di un obbligo considerato illegale, il licenziamento è abusivo e dà diritto al dipendente di chiedere un risarcimento fino a sei mesi di stipendio.

6. Come promuovere la vaccinazione volontaria

Ovviamente l’azienda può disporre misure che incitino i dipendenti a vaccinarsi volontariamente. L’azienda può pagare un premio per il fatto di essersi vaccinati o dare buoni-regalo, ma l’importo non dovrebbe essere troppo alto, altrimenti c’è il rischio che la vaccinazione non sia più veramente considerata volontaria. Lo stesso vale per i test volontari in azienda.

Al fine di promuovere la vaccinazione volontaria o di attuare la vaccinazione obbligatoria, un’azienda può organizzare una campagna di vaccinazione coordinata. Anche in una tale azione, i dipendenti devono essere liberi di decidere se vogliono partecipare o se vogliono essere vaccinati da un medico di fiducia. Inoltre, i dipendenti devono sapere quale vaccino verrà somministrato, poiché alcune persone non vogliono essere immunizzate con i vaccini di alcuni fornitori per paura degli effetti collaterali. Vi è quindi un chiaro obbligo di informazione da parte del datore di lavoro. Da non trascurare che, in caso di effetti collaterali gravi, vi può essere una responsabilità del produttore, di chi somministra il vaccino ma anche dell’azienda stessa, soprattutto se la persona che somministra il vaccino è uno dei suoi dipendenti.

7. Domanda se si è vaccinati o meno. È lecita?

Nel diritto del lavoro si pone spesso la questione di sapere se il datore di lavoro può porre determinate domande ai suoi dipendenti. Un caso classico è quello che concerne un’eventuale gravidanza in occasione del colloquio di assunzione.

Anche chiedere ai dipendenti se sono stati vaccinati può essere delicato. Sia appunto nel contesto del colloquio di assunzione che durante un rapporto già in essere. In linea di principio, il datore di lavoro è autorizzato a trattare solo i dati personali del lavoratore che sono rilevanti per la sua idoneità al rapporto di lavoro o che sono necessari per l’esecuzione del contratto di lavoro (art. 328b CO). Ciò significa che la questione della vaccinazione è consentita solo in misura limitata.

È ammissibile se un obbligo di vaccinazione è anche applicabile per legge o se i dipendenti non sono in grado di svolgere il loro lavoro o sono in grado di farlo solo in misura limitata se non vaccinati. Ciò può essere il caso, come visto anche in precedenza, per i dipendenti che devono spesso viaggiare all’estero e se le norme di viaggio della compagnia aerea o quelle di ingresso del paese di destinazione prevedono una vaccinazione obbligatoria. Se il fatto di essere vaccinati è importante per lo svolgimento del lavoro, la domanda è quindi possibile anche in altri casi in cui vi siano ragioni fattuali e non una semplice curiosità del datore di lavoro. In casi eccezionali, se la domanda su una vaccinazione esistente è inappropriata, non vi è obbligo di rispondere.

8. Protezione dei dati

In termini di protezione dei dati, il datore di lavoro deve anche garantire che le informazioni sul fatto che i dipendenti siano stati vaccinati o meno non vengano trasmesse a terzi. Particolare è il caso in cui vi sia un trattamento diverso fra i dipendenti vaccinati e non vaccinati (ad esempio, mascherina obbligatoria per i dipendenti non vaccinati, esclusione da certi eventi aziendali, ecc.). In tal caso, la divulgazione dei dati diventerebbe di fatto manifesta.

9. Conclusione

Se, in determinate circostanze, un’azienda può disporre un obbligo di vaccinazione per i propri dipendenti, questo eventuale obbligo va maneggiato con grande cura e ponderando bene tutti gli aspetti della situazione concreta. Un obbligo generalizzato, senza motivi particolari legati alla protezione e allo svolgimento concreto del lavoro sarebbe difficilmente considerato ammissibile. Difficile pertanto, ad oggi, stabilire regole che valgano indiscriminatamente per tutti. Ogni situazione va valutata con attenzione e individualmente. Almeno finché non dovesse esservi un obbligo impartito per ordine dello Stato.


Fonte: parte delle considerazioni che precedono sono tratte dall’articolo di Stefan Rieder, Avvocato specialista del diritto del lavoro, “Vacciner! Vacciné/e? pubblicato nella Newsletter n°7 di Ressources Humaines di luglio/agosto 2021

L’araba fenice nel mondo del lavoro

Conosciuta quale simbolo e figura mitologica, l’araba fenice rinasce dalle ceneri. È proprio la rinascita, la capacità di rialzarsi, di cambiare e di riadattarsi dopo un percorso, dopo il fallimento di un progetto o di un rapporto di lavoro terminato, l’esperienza da cui partire per parlare di resilienza.

Nel mondo del lavoro non tutto va sempre come pianificato e ci si scontra con un insuccesso, che può rilevare un’ottica diversa dalla quale ripartire.

È questo quanto tematizzato nel webinar della Cc-Ti del 16 giugno scorso, dove Romina Henle, Professional Development Director di International Coaching Federation Svizzera e Andrea Martone, Director Research and studies di Von Rundstedt & Partner Svizzera SA, sono intervenuti quali esperti; moderati da Lisa Pantini, Responsabile comunicazione Cc-Ti.

Un insegnamento pratico

Le “notti dell’insuccesso” si basano su storie di fallimenti professionali e imprenditoriali a differenti livelli. Se dai successi è possibile trarre un vantaggio evidente e immediato, è l’analisi degli insuccessi che può fornire approcci utili, percorsi diversi e differenti visioni.
Questa testimonianza vuole dimostrare che da un progetto mancato, come un’araba fenice, rinascere più forti e resilienti è possibile.

Se dovessimo dare una definizione di resilienza, potremmo dire che essa è intesa come la capacità delle persone di affrontare in modo costruttivo la pressione delle prestazioni, i cambiamenti e le crisi, di rimanere capaci di agire e, infine, anche di riemergere più forti da tutto questo. Il coaching (inteso come una partnership con i clienti che, attraverso un processo creativo, stimola la riflessione, ispirandoli a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale) può essere un valido supporto per le ripartenze, in ogni ambito. Diventa per cui un’opportunità per reinventarsi.

Durante l’evento sono stati portati esempi famosi di “arabe fenici” che poi si sono rivelati vincenti.
Possiamo ricordare James Dyson (inventore, designer e imprenditore britannico, fondatore dell’azienda Dyson) che notò che il filtro dell’aria in una cabina di verniciatura risultava costantemente ostruito dalle particelle di polvere (proprio come un sacchetto di aspirapolvere). Così disegnò e costruì una torretta ciclonica industriale, in grado di eliminare le particelle esercitando spinte centrifughe centomila volte maggiori della forza di gravità. A quel punto si domandò se avrebbe potuto applicare lo stesso principio a un’aspirapolvere. E si mise al lavoro: dopo 5 anni e 5’127 prototipi venne alla luce il primo aspirapolvere senza sacchetto al mondo con il marchio Dyson, il Dual Cyclone.
Storia simile anche per quanto riguarda la 3M e i post-it. La colla del Post-it fu scoperta nel 1968 da Spencer Silver, un ricercatore della 3M, che voleva realizzare l’adesivo più potente al mondo, capace di essere impiegato in campo ingegneristico ed aeronautico. L’esperimento si rivelò un fallimento a tal punto che diede vita a un collante così debole da non riuscire a tenere insieme neanche dei fogli di cartoncino, ma solo i foglietti che tutti conosciamo.

Rinascere ogni volta che si cambia lavoro

Quando si cambia lavoro, o quando viene terminato un rapporto di lavoro, non ci si dovrebbe ‘fossilizzare’ solo sull’insuccesso, ma cogliere questa opportunità di crescita, da trasformare in un’esperienza positiva.
Per employability (o impiegabilità) si intende proprio la capacità di un individuo di mantenere nel tempo un impiego o la probabilità di trovarne un nuovo in caso di inoccupazione.

Nel mondo del lavoro e con gli scenari futuri che si prospettano, il “lavoro per sempre” va, purtroppo, scomparendo (dove si intende lavorare per lo stesso datore di lavoro – quale ‘posto fisso’ – dall’inizio della vita lavorativa sino alla pensione): in questo senso l’employability permette di concentrarsi su livelli diversi, in una concezione di “workforce transformation”, che coinvolge più attori di un sistema complesso (lavoratore, azienda, istituzioni).

Per migliorare l’impiegabilità di un collaboratore devono intervenire principalmente tre fattori: la persona stessa (con le sue abilità professionali, capacità comportamentali e aspettative di carriera), l’azienda (per le sue politiche HR e i servizi di ‘job facilities’ che mette in atto) e la società (andamento del mercato del lavoro, servizi a supporto dell’impiego).

Ottimizzare le proprie risorse, rivedere e/o sconvolgere i propri progetti, ripresentarsi in veste diversa, è possibile promuovendo maggiormente questa visione nell’impiegabilità nelle strategie delle risorse umane in azienda. L’essere umano deve restare e distinguersi al centro del sistema.


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Elevator Pitch

Sono conosciute differenti ipotesi di origine di questa forma di comunicazione nel business. Una storia comunemente nota è quella di Ilene Rosenzweig e Michael Caruso, due ex giornalisti negli anni ’90. Secondo Rosenzweig, Caruso era un redattore senior di Vanity Fair e stava continuamente tentando di fasi notare dal redattore capo della sua rivista e l’unico modo che alla fine escogitò fu quello di provare a parlarle approfittando anche di brevi periodi liberi di tempo, come in un giro in ascensore.

Prende il nome dal tempo necessario per comunicare, la durata di una breve corsa in ascensore (da 30 a 60 secondi o 75 circa)

L’Elevator pitch è infatti un discorso che una persona farebbe a un investitore, per esempio, se si trovasse per caso con lui in ascensore. L’imprenditore, quindi, si troverebbe costretto a descrivere sé o la propria attività sinteticamente, chiaramente ed efficacemente per convincere l’altro ad investire su di lui, ma con i limiti di tempo imposti da una corsa in ascensore (la letteratura specialistica al riguardo fissa tale limite massimo di 5 minuti).

Si tratta di una vera competenza

Sviluppare questo tipo di competenza è sicuramente basilare e richiede una grande dedizione e tanto tanto allenamento. Si può parlare di elevator pitch sia se viene fatto durante un evento fisico, che in modalità asincrona (un’e-mail o un video).

Esistono varie tipologie di elevator pitch a seconda della durata oppure del target a cui è rivolto (consumatori, imprenditori, superiori o colleghi, …). Normalmente viene calcolato “un pitch” della durata dai 30 ai 120 secondi.

Descrive l’idea per cui una persona dev’essere in grado di presentare il proprio pensiero nel tempo di una corsa, reale o immaginaria, in ascensore.

Un breve, utile e accattivante riassunto… A volte si pensa che i pitch degli ascensori siano specifici per un’idea o un prodotto, ma si possono anche usarli per “promuoversi” come professionisti.

I professionisti dovrebbero avere sempre a disposizione un discorso accattivante in grado di fornire informazioni su sé stessi o su di un proprio progetto, che possano fornire in un breve periodo di tempo. Invece di aspettare che l’altra parte diriga la conversazione e, potenzialmente, lontano da ciò di cui si vorrebbe discutere, si può spiegare in modo assertivo ciò che si ha da offrire.

È da considerarsi come un documento da aggiornare costantemente e “sfoderare” ad ogni buona occasione, che sappia “dare valore” ad ogni vostra singola parola.

Viene valutato come un’intraprendenza positiva

Un vantaggio nell’usare questo approccio quando parlate della vostra carriera o delle vostre aspirazioni è che potete dimostrare di essere in grado di prendere l’iniziativa. In molte interazioni, come un colloquio di lavoro, questo può essere impressionante per il vostro pubblico: sarà lieto di vedere che sapete sia cosa volete, sia come chiederlo.

Essere in grado di presentarvi a qualcuno in modo convincente, può aiutarvi a prepararvi per una conversazione professionale di successo, sia che si tratti di un evento di networking, con un collega o all’inizio di un colloquio. Uno strumento per rendere le informazioni da comunicare semplici ed efficaci.

Dallo schermo del telefono al colloquio di persona, vi verrà chiesto di fornire un riepilogo di chi siete, della vostra formazione e di ciò che desiderate dal prossimo lavoro. Questa sintesi “mentale” può essere una buona struttura mentre state pianificando la vostra risposta alla popolare domanda “parlami di te”.

Allo stesso modo può essere utilizzata per delineare la vostra lettera di presentazione o una dichiarazione riassuntiva professionale o, ancora, un’offerta di collaborazione azienda/azienda. Una dichiarazione di sintesi deve avere lo scopo di raccontare al lettore chi siete professionalmente, quale lavoro vi appassiona e perché siete qualificati per farlo, in un modo che vi aiuti a distinguervi dagli altri.

Quali passi sono alla base

Una presentazione personale è utile anche per il networking a un evento o durante un incontro spontaneo. Che voi siate in fila al supermercato, a un cocktail party o a un incontro professionale organizzato, la presentazione può aiutare rapidamente i nuovi contatti a capire perché dovrebbero connettersi con voi o considerarvi quando si presenta un’opportunità.

1. Iniziate presentandovi (i primi 10 secondi sono importantissimi). Assegnate delle priorità ai vostri contenuti

2. Fornite un riepilogo di ciò che fate o rappresentate. Siate preparati e attenti a rispondere alle molte domande che vi faranno, probabilmente quelle sono le cose che vogliono sentirsi dire

3. Spiegate cosa volete (create pitch di diversa durata 30 secondi, 60 secondi, 120 secondi in modo da essere sempre pronti ad affrontare ogni imprevisto)

4. Terminate con un invito all’azione (“Ha tempo per prendere un caffè? Ci possiamo sentire per un fissare un incontro? Le posso inviare una mail? …) Non dimenticate il vostro biglietto da visita.

Errori comuni

Parlate in modo naturale
Suonare troppo preparato può rendere la conversazione forzata, quindi fate del vostro meglio per esprimervi con un tono colloquiale.

Rallenta
Se parlaste troppo velocemente, l’ascoltatore potrebbe perdere alcune informazioni importanti. Potrebbe essere la vostra tendenza naturale a parlare velocemente o potrebbe verificarsi se vi sentite nervosi. Indipendentemente da ciò, fate uno sforzo consapevole per ridurre la velocità e incorporare questa strategia quando provate il vostro tono.

Usa un tono per la maggior parte (ma non tutte) le occasioni
Potrebbe non essere necessario personalizzare la vostra presentazione per tanti diversi tipi di pubblico. È una buona idea avere una presentazione generale che potete usare in qualsiasi momento, ma dovreste provare ad adattare la vostra presentazione ogni volta che potete. Più le vostre idee sono personalizzate, più è probabile che voi otteniate un risultato positivo dalla conversazione. Mostrate il vostro profondo interesse e rispetto per il tempo dell’ascoltatore.

Facile da capire
Usate un linguaggio semplice che tutto il pubblico possa capire. Ad esempio, se includete un gergo tecnico e termini specifici del settore che solo qualcuno conoscerebbe, potreste alienare un reclutatore, o chiunque altro, che non ha lo stesso livello di conoscenza. Questo può rendere difficile per loro farvi domande di follow-up e potrebbe renderli meno propensi a continuare la conversazione con voi. Salva termini di nicchia per un colloquio tecnico e rendete il vostro discorso facile da seguire per tutti.

In una realtà che corre sempre più veloce e non concede tempo, questo può essere un modo per usare il vostro tempo nel modo più opportuno, senza sprecarne neppure 30, 60,120 secondi.

A, B e C

Riflessioni per la ricerca di un team ben concertato e vincente, per ottenere e guidare un’azienda di successo.

Steve Jobs, con le sue idee innovative e la sua straordinaria creatività, è stato il co-fondatore e poi CEO di Apple, e ha cambiato il mondo e non solo quello dell’elettronica di consumo. Egli ha diviso il personale di Apple in A, B e C perché credeva che un’azienda possa essere forte solo quanto il suo anello più debole.
Egli aveva introdotto il principio delle tipologie di collaboratori A, B e C, quindi aveva diviso i suoi dipendenti in diverse categorie al fine di eventualmente separarsi dagli anelli più deboli o dare loro occasione di miglioramento.

È assolutamente delicato e poco empatico categorizzare le persone, ma la differenziazione, in questa riflessione non si rivolge al valore personale, bensì alla ricerca di un team ben concertato e vincente.

Dipendente A

I collaboratori A si assumono le loro responsabilità. Sono le figure professionali sulle quali poter contare e assicurano all’azienda uno sviluppo positivo. Hanno un atteggiamento fondamentalmente positivo, sono motivati e sviluppano idee e strategie creative per far progredire il business. Sono essenziali per la sopravvivenza e in definitiva garantiscono il successo di un’attività commerciale.

Il collaboratore A, è il tipo di persona che devi trovare e assumere. “Difficile da trovare ma facile da supervisionare”. Sono personaggi che incoraggiano e motivano, agendo sempre per il bene dell’azienda. I “Re Mida” dell’impresa.
Il dipendente A riassume le qualità più edificanti per l’azienda:

  • È completamente concentrato e dedicato
  • Si assume la piena responsabilità
  • Mantiene ciò che promette nel tempo previsto
  • Informa in modo tempestivo riguardo eventuali cambiamenti nello sviluppo dell’incarico
  • Resta positivo e orientato alla ricerca di soluzioni
  • È assolutamente flessibile
  • Condivide i successi
  • Supera spesso gli obiettivi fissati
  • È al fianco del capo / dell’azienda con un atteggiamento protettivo e propositivo.

Ogni azienda dovrebbe quindi avere il maggior numero possibile di dipendenti A.

Dipendente B

I dipendenti B sono i classici “dalle 9.00 alle 17.00”, cioè arrivano alle 9:00 e lasciano la loro postazione alle 17:00. Solitamente svolgono il loro lavoro senza necessità di un controllo puntuale. Sono lavoratori che assumono i compiti loro affidati e li svolgono, punto. Si assumono poca o nessuna responsabilità. Limitano il loro impegno al tempo stretto definito per contratto, per esempio, tra le 9:00 e le 17:00. Se chiedi a un dipendente di B di rispondere a una richiesta di informazioni di un cliente che arriva poco prima delle 17.00, risponderà che darà seguito alla stesso “domani”.

Il dipendente B riassume le qualità di base per l’azienda:

  • Svolge il suo compito secondo le indicazioni fornite
  • Non prevede straordinari
  • Di solito commette pochi errori
  • Sfrutta mediamente le sue capacità
  • Propone pochi o nessun suggerimento
  • Non è né negativo né positivo, diremmo neutro

C’è una possibilità che i collaboratori B possano diventare collaboratori A se la composizione del team è adeguata. I dipendenti B hanno scarsi legami emotivi con l’azienda e svolgono il proprio lavoro solo sulla base delle istruzioni fornite loro. Questa categoria di dipendenti è inoltre caratterizzata da un assenteismo superiore alla media (diversi giorni all’anno) e da un tasso di fluttuazione più elevato.

Dipendente C

I dipendenti C sono motivo di preoccupazione in un’azienda. Sono responsabili della cattiva atmosfera e attraverso il loro comportamento contribuiscono in modo significativo al fallimento dei progetti, se non aziendale. Vedono sempre il bicchiere mezzo vuoto e sono inclini al pessimismo. Pertanto generalmente incolpano coloro che li circondano per i loro errori e fallimenti. La più grande fonte di demotivazione per i colleghi A sono i colleghi C.
C necessita normalmente del doppio del tempo per portare a termine il proprio compito.

Il dipendente C:

  • Lavora solo il minimo necessario
  • Parte e ha pregiudizi o giudizi negativi sull’attività e sull’azienda
  • È spesso malato
  • Contribuisce alla cattiva atmosfera e alla discordia
  • È costantemente alla ricerca di problemi
  • È sempre stressato e non ha mai tempo per fare il suo lavoro
  • Il lavoro che consegna è generalmente incompleto
  • Delega il proprio lavoro spesso e volentieri
  • Gironzola spesso senza meta per l’azienda, mimando grande occupazione
  • Esegue svogliatamente ciò che gli viene assegnato

Purtroppo esiste un solo modo per relazionarsi con i dipendenti C: o il cambio di atteggiamento avviene in modo rapidissimo o devono essere allontanati dall’azienda nello stesso rapidissimo tempo. Sono un danno.
I collaboratori C non considerano e non costruiscono alcun legame emotivo con il proprio lavoro o con l’azienda, loro sono già “licenziati internamente”.

La gestione delle diverse tipologie di collaboratori

Ora potete considerare queste tre categorie di collaboratori e provare a dare un riscontro reale nella vostra azienda.
Steve Jobs dava per scontato che ai colleghi A piacesse lavorare anche con colleghi A e che potessero lavorare bene anche con colleghi B.
D’altra parte, i colleghi A non potevano lavorare affatto con i colleghi C, essendo questi una fonte di demotivazione permanente. Inoltre, i dipendenti B potevano diventare dipendenti A con il tempo, purché collaborassero attivamente con i collaboratori A. Ma possiamo anche fare un passo in più in questo ragionamento. Proprio come il comportamento dei dipendenti A, anche il comportamento dei dipendenti C è “contagioso”. Ciò significa che se un’azienda ha pochi collaboratori A e, invece, diversi collaboratori B e C, si osserverà il seguente risultato: i collaboratori A lasceranno l’azienda perché impossibilitati a un rendimento consono alle loro capacità e aspettative. I collaboratori B e C resteranno in azienda. Il comportamento “distruttivo” dei collaboratori C influirà sui i collaboratori B, che livellano le loro prestazioni verso il basso. I collaboratori devono essere i tesori della vostra azienda. È necessario disporre di una formazione continua di qualità e buone condizioni sotto tutti i punti di vista: lavorativi, salute, ambiente e mentali. Sono le vostre “galline dalle uova d’oro”.
Inoltre, tenete presente che i collaboratori A renderanno anche il vostro lavoro di dirigente o responsabile più agevole e motivante.

Fondamentale è essere consapevoli del reale atteggiamento di un dipendente nei confronti dell’azienda. Utilizzando i seguenti criteri, è possibile intravvedere il gruppo a cui appartiene un collaboratore (la scala delle risposte potrà variare da molto buono a insoddisfacente). Il datore di lavoro e la persona risponderanno entrambi a queste domande. In questo modo le percezioni delle due parti potranno avere un valore completo.

Questi sono alcuni possibili criteri che potrebbero essere inclusi in un questionario comune:

  • Qual è il livello di esperienza?
  • Qual è l’interesse per la formazione continua?
  • Volontà di assumere delle responsabilità?
  • Quale orientamento verso la ricerca di soluzioni?
  • Collaborazione e rapporto con colleghi e superiori?
  • Qual è l’attitudine verso l’azienda?
  • Quanto è flessibile?
  • Qual è la motivazione sul posto di lavoro?
  • Qual è il ritmo del suo lavoro?
  • Qual è la qualità del suo lavoro?
  • Quanti suggerimenti di miglioramento vengono dal dipendente?

Il progetto finale A, B e C

Come abbiamo già evidenziato sarebbe ideale (utopistico forse) che la maggioranza dei vostri collaboratori appartenesse al gruppo dei collaboratori di categoria A.
Vale comunque la pena sostenere i collaboratori B e incoraggiarli nel loro cammino a migliorarsi ed essere ambiziosi.
Una buona quota nella classificazione A, B e C è 80:20:0. L’assunzione di un collaboratore C non dovrebbe neanche essere presa in considerazione.
Con pazienza e perseveranza verso obiettivi comuni, vengono stimati dai tre ai cinque anni, di dovrebbe poter raggiungere la quota 80:20. Questo equilibrio è un obbiettivo ottimale e sarete positivamente sorpresi e appagati dai grandi progressi e successi della vostra azienda.


Fonte: Weka

Squadra vincente, anche online

Negli ultimi tempi il telelavoro si è imposto per molte aziende quale must. Diventa così imprescindibile riuscire a mantenere elevato lo spirito di gruppo e la coesione fra i collaboratori.

Un’antitesi? No. Benché in diversi settori e per molte società si lavori da casa, le riunioni in videocall sulle diverse piattaforme come Zoom, Teams, Skype, ecc. sono diventate una norma. Per i responsabili dei team, come pure per chi conduce regolarmente gli incontri diventa indispensabile acquisire una buona leadership che coinvolga le persone, mantenga viva l’attenzione e stimoli la produttività.

La leadership a distanza si impara? Nelle riunioni online la sfida, quindi, è quella di mantenere lo spirito di gruppo, evitando che i collaboratori si isolino, ma al contrario motivandoli a mantenersi attivi.

Compito non facile, ma sicuramente affascinante. Quali sono quindi gli ingredienti da dosare in queste occasioni?

Online non è offline

Non si possono rievocare le dinamiche delle riunioni tradizionali (quelle faccia a faccia). Occorre frammentare in modo diverso il tempo, perché la nozione del tempo stesso muta online: nelle videocall le attese si diluiscono, si potrebbe pensare di perdere tempo prezioso.

Convocare online solo le persone indispensabili all’esercizio, e fare in modo che tutti abbiano la possibilità di interagire, ponendo delle domande (chat o live).

Momenti informali? Volentieri.

Le pause caffè o quegli istanti di chiacchiere in corridoio sono azzerati con lo smart working. A ciò si può rimediare organizzando delle pause virtuali, che servono a ricreare e riattivare i legami sociali. Come? Ad esempio, con un caffè via Skype 15 minuti prima dell’incontro ufficiale per allineare le idee e mettersi d’accordo o un aperitivo serale dove parlare di hobby e progetti futuri. Questi nuovi modi d’incontro sono benvenuti e servono, per l’appunto, a rinsaldare i legami. Non solo lavoro, ma sentirsi vicini, anche a distanza.

L’ascolto attivo

Si tratta della capacità di porre attenzione alla comunicazione dell’altro senza formulare giudizi. È un atto intenzionale che impegna la nostra attenzione a cogliere quanto l’altro ci riferisce sia in modo esplicito che implicito, sia a livello verbale che non verbale. Online è sicuramente una tecnica da affinare per quanto concerne la comunicazione non verbale.

Mantenere lo spirito di gruppo

Un detto sportivo recita “squadra che vince non si cambia”, ecco il motivo per cui è essenziale preservare l’unione del team con equilibri e concertazione, tanto online che in presenza. Allineare l’équipe sulla visione comune dell’organizzazione crea un maggior senso d’appartenenza e migliora la comunicazione.

Le attività di team building sono necessarie anche quando si lavora da remoto, in quanto la collaborazione degli attori che compongono la squadra è fondamentale. Il team building è un potente strumento a disposizione delle aziende per aiutare le persone a lavorare insieme nel modo giusto e ottenere risultati di business altamente soddisfacenti.

Questo genere di progetti ora si organizza online: virtualmente, visto che partecipanti non sono tutti nello stesso spazio, ogni collaboratore partecipa stando alla propria scrivania.
Sicuramente applicare aspetti ludici alle attività di team building è un buon incentivo. La cosiddetta “gamification” (traducibile in italiano come “ludicizzazione”) è l’utilizzo utilizzo di dinamiche proprie del gioco (come punti, livelli, premi) in contesti non ludici, per sollecitare impegno e competitività e stimolare la ricerca di soluzione a un problema.

Le attività che vengono proposte per mantenere attiva la coesione e lo spirito di gruppo riescono a calamitare le persone, le coinvolgono con allegria, insegnando, motivando e trasferendo – spesso anche in modo inconscio – messaggi e valori.

Tipi di attività

La varietà di proposte da svolgere è davvero illimitata e si espande come la creatività di chi organizza le attività (che permettono anche, a livello di risorse umane, di valutare i collaboratori su aspetti quali la disponibilità, l’interazione, la conoscenza della propria azienda, ecc.).

Si va dai cruciverba (personalizzabili con parole ad hoc sui rami organizzativi aziendali) all’inventare e cantare canzoni aziendali (o jingles), dai quiz online all’aperitivo post riunione.

Sfide e attività d’interazione solo apparentemente ludici permettono ai membri di un team di restare uniti e manifestare skills sopite o non così sviluppate.
Un benvenuto alle squadre unite e vincenti anche online!

Reverse mentoring

Ai collaboratori è richiesto un continuo aggiornamento personale per poter far fronte alle richieste di un mercato lavorativo sempre più puntuale ed esigente. Proprio a questo scopo assistiamo a un ampliamento e una rivisitazione costante dell’offerta formativa disponibile sul mercato. Solo un ambito non può essere coperto da nessun altro, se non dall’individuo stesso: l’esperienza.

Viene, sempre più, largamente rivalutato il concetto di mentoring.

I primi giorni, le prime settimane in azienda sono costituiti dai momenti di istruzione e di adattamento al nuovo ambiente lavorativo. Sarebbe buona regola affiancare il nuovo collaboratore a una figura di riferimento a fini formativi ed informativi. La figura di mentore è tanto necessaria quanto la formazione stessa all’apprendimento delle attività e dei dinamismi dell’occupazione. L’iniziale inesperienza comincia, in questo modo, ad essere colmata con un passaggio di conoscenze e di esperienza che un mentoring trasmette con il proprio bagaglio.
Quanto descritto è la definizione classica di “mentoring”. Figura che funge da ala durante l’accompagnamento all’inizio di un percorso professionale all’interno di un’azienda.

Nello stesso momento che questa “educazione” ha inizio, prende avvio anche il “reverse mentoring”. Fondamentale per entrambe le figure e molto arricchente. Proprio perché strettamente personale, estremamente variegato e, a volte, con contenuti inaspettati, questo scambio di informazioni diventa un valore aggiunto per i collaboratori stessi, il datore di lavoro, quindi per l’azienda.
Il numero di collaboratrici e collaboratori si differenzia da azienda ad azienda, così come la combinazione, più o meno eterogenea in senso generazionale. Tutte le imprese si ritrovano con un mix generazionale.
Il concetto è simile, ma a doppio senso, a quello di mentore. “Reverse mentoring” è il passaggio di conoscenze, spesso legate, per esempio, al mondo della tecnologia, da parte dei più giovani in azienda, verso coloro che hanno meno famigliarità con questo mondo infinito di nozioni.

Sul tema del gap intergenerazionale è stata interessante una riflessione del CEO della Bank of New York Mellon Corporation. Mark Tibergien osservò come i millennials fossero meno interessanti a lavorare nell’ambito dei servizi finanziari, e di come il turnover dei giovani avesse quindi un tasso molto alto rispetto a quello dei collaboratori senior.
Alle medesime conclusioni arrivarono i dipartimenti HR di molti altri istituti bancari e intermediari finanziari.

Fu così che vennero concepiti i primi programmi di “reverse mentoring”, dove i senior venivano abbinati ai giovani impiegati per condividere, discutere e sostenere decisioni strategiche in modo intelligentemente innovativo.
Il “reverse mentoring” è attuabile nelle grandi realtà come nelle minori. Interessante il fatto che non si attua nessuna concorrenza tra le due figure aziendali, fiducia e rispetto, senza gerarchia conducono a una produttività alla pari con risultati ottimali.

I benefici del “reverse mentoring” sono soggettivi e legati alla natura economica dell’azienda, ma spesso possiamo suddividerli su quattro assi principali.

  • Calo del tasso di rotazione delle nuove leve
    Offrendo ai giovani la possibilità di mostrare le loro conoscenze, di applicarsi in programmi di insegnamento e condivisione delle proprie competenze, nonché di avere degli spazi dove poter essere riconosciuti per le proprie capacità; vi è una crescita dell’interesse e del coinvolgimento dei millennials. Questi programmi di “reverse mentoring” assicurano un ruolo attivo per i giovani, i quali sviluppano un senso di appartenenza e di responsabilità verso l’azienda.
  • Condivisione delle competenze tecnologiche
    Con il progresso digitale, non tutti i passaggi d’informazione e formazione, soprattutto sull’uso interno dei mezzi di comunicazione, avviene rapidamente e facilmente per tutte le figure aziendali. Quanto rilevato è stato un avvicinamento alle nuove tecnologie, soprattutto all’uso dei social e dei mezzi di comunicazione, grazie al coinvolgimento da parte dei giovani, ben più avvezzi all’uso delle piattaforme social.
  • Riorientamento della cultura aziendale
    Un programma di leadership dove non solo le idee possono venire condivise, ma anche analizzate da diversi punti di vista, egualmente validi, e messe in azione da parte dei vari gruppi di discussione; uno scambio coinvolgente di diverse abilità, creatività e dinamismi in più ambiti, dalla strategia finanziaria al marketing.

    Quando l’azienda Estée Lauder ritenne di avere un momento nel quale le proprie forze innovative sembravano essersi arenate, decise di mettere in agenda un programma di “reverse mentoring”, il quale prese il nome di “Dreamspace”. Al suo interno i millennials potevano scambiare le loro ingegnosità e le loro percezioni riguardo i social media e il mondo degli influencer. “Dreamspace” fu un successo.
  • Promozione della diversità
    I benefici di un dialogo aperto e dell’implementazione di un programma di “reverse mentoring” sono molti, sia per l’individuo che funge da mentore sia per colui che viene accompagnato nell’apprendimento di nuove padronanze.

Per poter garantire un successo di questi programmi sono essenziali sei aspetti:

  • L’empatia
    La compatibilità tra mentore e candidato è cruciale perché il processo di “reverse mentoring” sia efficiente. La personalità di entrambi i collaboratori è il perno centrale; abbinare due personalità simili, per esempio due persone introverse, non è sempre una coppia vincente, in quanto, è l’uscita dalla zona di comfort che permette un dialogo ed una crescita personale. In aggiunta, è importante consultare le persone da affiancare prima di decidere la loro collaborazione. L’accettazione deve essere bivalente e pari per entrambi i collaboratori.  
  • Trasparenza e fiducia
    Un programma di “reverse mentoring” è uno specchio laddove si è confrontati in primis con il proprio manco di conoscenze in individuati ambiti. Questa vulnerabilità, ed esposizione, non è per tutti semplice da gestire, soprattutto quando si tratta di due posizioni dissimili a livello di anzianità professionale. I primi scambi di mediazione devono essere aperti, fondati sulla fiducia, e trasparenza delle informazioni condivise, solo così un programma di “reverse mentoring” trionfa.
  • Professionalismo
    Il professionalismo da parte di entrambi i collaboratori va oltre le conoscenze pratiche e tecniche dei temi che si vogliono percorrere durante il programma di “reverse mentoring”. Dietro il termine professionalismo vi sono aspetti come l’empatia, la capacità di comunicare, la comprensione della persona e dell’identità, l’abilità diplomatica nel conversare e nel gestire la mediazione tra più parti.
  • Coinvolgimento top-down
    Il coinvolgimento e la popolarità dei programmi di mentoring devono includere tutto il personale. Il problema che spesso molte aziende riscontrano con iniziative simili è quella di saper coinvolgere e di invitare alla partecipazione il proprio personale. La regola di successo per avere un tasso di partecipazione più alto, soprattutto quando si tratta di convincere i senior, è quella di dare il buon esempio, iniziando con i collaboratori di direzione. Un approccio top-down è in questo caso una carta vincente.
  • Attitudine proattiva e positiva
    Non solo il coinvolgimento è un aspetto importante, ma l’attitudine alla cooperazione, e il volersi mettere in gioco, per poter ampliare le proprie conoscenze. Anche in questo caso, avere una parte della direzione o dei top managers ad avviare questi progetti è un modo per trasmettere un messaggio anche al resto del resto personale. Una propensione di apertura non è sempre facile da conseguire, particolarmente perché i conflitti generazionali sono un fenomeno che si vive nella vita privata, e sul posto di lavoro si possono riscontrare le stesse difficoltà e le stesse barriere di dialogo. Per questi motivi, diventa cruciale la presenza delle risorse umane per agevolare la comunicazione.
  • Procedura
    Il programma in sé deve essere mappato, con inizio e fine, obiettivi e scadenze regolari. Per quanto sia creativo, chiaro e dinamico, un programma “reverse mentoring” deve essere sostanzialmente preparato e pianificato, con un fil rouge operativo. Una buona organizzazione, sia dei candidati, che del programma stesso, sono un base per una buona riuscita e di esito positivo dell’intero approccio di mentoring.

Un programma di “reverse mentoring” richiede un grado di allestimento, di coinvolgimento e di compartecipazione attiva tutto il lungo del processo. Senza questa propensione e risolutezza di dovere, di sostegno e di collaborazione, è difficile riuscire a concludere con risultato positivo. I benefici di questo concetto sono molteplici e su ampia scala, ma non bisogna sottovalutarne gli impegni e i doveri che esso esige. Ogni azienda è unica nel suo genere, e ogni collaboratore porta con sé un bagaglio di esperienze e di padronanze, di idee e di creatività che possono estendere le probabilità di successo interno e poi verso l’esterno. Il valore aggiunto dell’applicazione di questo concetto è tutto potenziale di cui poter avvalersi, sta nella determinazione del gruppo ad avvantaggiarsene pienamente.

Over the rainbow… ovvero la pentola d’oro del team

Una riflessione a 360 gradi sui team e sul lavorare in modo efficiente e concertato in essi.

Un team: insieme nella stessa direzione

Esco da una riunione di Direzione in cui abbiamo speso 2 ore per decidere che…non eravamo pronti a decidere. Amo lavorare in team.
Vibra il cellulare, è un messaggio sulla chat del Project team. Durante la riunione sono arrivati 23 messaggi. Tranne due gli altri sono inutili commenti su commenti…bla bla bla… Amo lavorare in team.
Vibra il cellulare, è un collega che si preoccupa perché un’altra collega sarebbe secondo lui (lei non ha parlato) demotivata e gli sembra (sic!) che gli altri componenti del team non se ne curino abbastanza (si concentrano “solo” sulle attività operative!). “Che team è quello che non si prende cura dei suoi membri?” si chiede. La discussione prende la piega del gruppo psicoterapeutico. Amo lavorare in team. O forse no.
A pensarci bene certe volte non amo lavorare in team…no. Diciamo la verità: molto spesso si lavorerebbe meglio da soli.

Il fatto è che spesso il team invece di costituire il vantaggio promesso diventa la sorgente di dinamiche disfunzionali, di crepe relazionali e di totale perdita di tempo.
Dipende dai singoli? Forse. Ma se chiedete in giro tutti vi diranno che loro sanno lavorare in team e sono degli ottimi team player.
Dipende dalla diversità? Di sicuro non volevate il fenomeno del group thinking…ma mettete insieme cinque teste diverse e avrete sei partiti.
Dipende dal leader? Ah beh, c’è qualcosa che dicono che non dipenda dal leader? Se il team non funziona è di sicuro colpa sua.

Quello che però penso davvero è che (tenetevi forti) il team non esista se non nella nostra testa. Non esiste un “oggetto”, o anche un soggetto che si chiami team e che si è costruito una volta per tutte in qualche modo. Quello che esiste è invece una manifestazione che è il risultato di un processo o di più processi costitutivi. Cioè esiste un qualcosa di dinamico, il team, che emerge fintanto che vi siano processi che lo fanno emergere (no, non ho preso sostanze allucinogene). Appena questi processi finiscono o diventano difettosi il team cessa di esistere, a parte nella nostra mente dove lo abbiamo oggettivato (cioè reso un “oggetto” dalle proprietà immutabili). Il team è un “emergente dinamico” (calma, continuate a leggere!) le cui proprietà sono anch’esse dinamiche. In pratica è come un arcobaleno, c’è fintanto che il sole si proietta di taglio su goccioline di pioggia: più sole più arcobaleno, via il sole o via la pioggia fine dell’arcobaleno.

Quindi il punto è che se un team non funziona, vuol dire che in quel momento il team di fatto non esiste e se il team non esiste è perché i processi che lo dovrebbero mantenere tale sono in quel momento e in quel contesto difettosi o assenti.
Ora poiché nessun processo è a costo zero, dovrebbe risultare chiaro a tutti, ma proprio a tutti (aspiranti team leader e membri del team), che lavorare in team è fatica. Più fatica che a lavorar da soli. Quindi o questa fatica è ripagata o invece di essere un investimento è una perdita certa.

Questo ci porta dritti ad uno dei processi fondamentali di emersione del team: il senso del perché siamo insieme. Attenzione questo non è definito una volta per tutte, il senso deve essere presente costantemente e sfortunatamente deve anche essere lo stesso per tutti. Altrimenti mentre voi starete lottando disperatamente per rispettare una consegna, ci sarà un collega che aprirà discorsi (e conflitti) sul fatto che in questo team non si comunica e non c’è empatia. E i team sono diversi perché hanno molti sensi possibili. Vi siete mai chiesti se il vostro è lo stesso di quello degli altri? (sicuramente quando il team non funziona).

Il secondo processo (che farà male ai più delicati) è legato al concetto di utilità. Sarò parte del team se il resto dei colleghi percepisce la mia utilità rispetto allo scopo, ovvero se il mio contributo è visibile e consente un passo in più verso lo scopo. Un concetto imprescindibile da quello di competenza. Per quanto si possa valorizzare l’impegno di una persona, la sua competenza rispetto allo scopo è una condizione necessaria. Per chi si stia chiedendo che fine ha fatto l’empatia e la relazione affettiva, ricordo che ci sono molti team che non ne hanno bisogno per funzionare bene (magari non è il team che fa per voi), ma ce ne sono alcuni senza cui il team non esisterebbe del tutto (questi invece lo sono!). Quindi la domanda da porsi è: cosa devo saper fare perché io vada bene per il mio tipo di team?

Il terzo processo è la definizione delle regole d’ingaggio, quelle esplicite e ancora di più quelle implicite. Si la diversità è una bella ed utile cosa, ma porta rapidamente al caos se non ci sono regole. Le regole stabiliscono i modi e gli spazi di azione. La cattiva notizia è che sfortunatamente non c’è un altro modo che il conflitto per far emergere gli impliciti: farli emergere per poi poterseli negoziare. Quindi abituiamoci a vivere nel conflitto e a saperlo usare, altrimenti è meglio che vi ritiriate a lavorare nella solitudine dello smartworking.

Il quarto processo è l’uso che si fa della disciplina, intesa nel suo senso più lato. Nessuna regola può resistere senza disciplina. Un team che non costruisce un suo modo di interpretare la disciplina finirà per non raggiungere il suo scopo, disperdendo le sue risorse e perdendo opportunità.

Infine, il punto più delicato: l’apprendimento. Senza la capacità di apprendere il team vive un intenso attimo e poi sparisce. È il modo come apprende ad apprendere che gli permette di durare, manutenendo ed evolvendo costantemente tutti i processi che lo fanno “emergere”.
L’insieme di questi processi porta all’emersione nel tempo di una identità di team che ha delle proprietà definite, i colori del suo arcobaleno.
Fin tanto che questi processi sono adeguati ed efficaci il team emerge e l’arcobaleno splende in tutti i suoi colori.

In ciascuno di essi c’è uno sforzo e una responsabilità individuale, che può essere diversa da ruolo a ruolo, ma che è comunque distribuita, non importa se si sia leader o membri del team.
Smettiamo di credere alle favole sul team: non c’è nessuna facile pentola d’oro sotto l’arcobaleno. Solo l’arcobaleno e i suoi colori…finché li facciamo durare, ma farli durare…è fatica.

Scusate, vibra il cellulare. È il mio team leader…ha bisogno di essere motivato…


Articolo a cura di

Andrea Abbatelli, Partner KIAI Sagl

Di baby boomers e formazione continua

La popolazione svizzera è sempre più longeva. Lo dicono le statistiche e lo conferma il numero crescente di persone inscritte ai circoli della terza età. Questa metamorfosi del popolo svizzero è dovuta dal raggiungimento dell’età pensionistica dei baby-boomers. Cosa significa questo cambiamento nella composizione della popolazione?

Un’economia che muta, così come la società e i suoi bisogni. Oggi chi è attivo sul mercato del lavoro contribuisce al sostentamento delle spese pubbliche. Da domani a cambiare saranno le necessità sociali.

I baby-boomers, ovvero coloro nati tra gli anni 1950 e 1970, raggiungeranno tra alcuni anni l’età della meritata quiescenza. Il periodo storico del dopoguerra – che ha visto nascere i ‘baby-boomers’ – è definito unico nel suo genere, poiché negli anni a seguire non è più stato registrato un tale incremento demografico. Se il tasso di crescita della popolazione svizzera negli anni ‘60 era attorno al 2% annuo, oggi siamo al di sotto dell’1%.

All’inizio degli anni ‘70 la percentuale di persone con più di 64 anni era vicino al 10%, oggigiorno questa percentuale si aggira attorno al 18% ed è destinata a superare il 25% entro il 2065. Secondo una statistica UE (EuroStat), entro il 2100 circa il 30% della popolazione europea raggiungerà la fascia pensionistica, mentre il numero di persone in età lavorativa continuerà a ridursi. Questo trend si prevede anche nella Confederazione.

Cosa significa questo cambiamento nella composizione della popolazione? Da un lato ci si aspetta un aumento della percentuale delle persone in AVS, dall’altro un abbassamento della percentuale di popolazione attiva sul mercato del lavoro. Tendenze che si traducono in una tematica che involve e coinvolge tutti i cittadini.
Coloro attivi sul mercato del lavoro contribuiscono operosamente al sostentamento delle spese pubbliche e ai vari servizi annessi. A cambiare saranno le necessità sociali e, allo stesso tempo, si prevede la crescita della domanda per alcuni settori tra cui quello farmaceutico e quello della sanità pubblica (spingendo così l’economia ad adeguarsi ai bisogni della società).
Meno evidente è il potenziale mutamento del comportamento finanziario del singolo cittadino, il quale subirà a sua volta una trasformazione nel suo modo di agire. Con l’aumentare dell’età, il comportamento speculativo e capitalistico ha tendenza ad essere più conservativo e meno predisposto a grandi investimenti. Fenomeno che potrebbe sfociare in un rallentamento del flusso di capitali nell’economia nazionale. Inoltre un numero minore di persone occupate fa sì che il rapporto del capitale investito per persona sia maggiore, bilanciando così gli effetti di una decrescita degli investimenti.

Oltre a registrare un calo del numero delle persone impiegate nel mondo del lavoro, vi è un secondo fenomeno che si rivela nell’attuale fotografia dell’economia contemporanea. È stato evidenziato, da un recente studio della SECO, un abbassamento della produttività globale del lavoro dovuto all’incremento del numero di persone più vicine ai 60 anni d’età.
Si potrebbe pensare che, grazie alle nuove tecnologie, sia possibile incrementare il rendimento e la produttività lavorativa, ma quello che è meno evidente da comprendere è che l’utilizzo di queste tecnologie è spesso estraneo o poco familiare nelle fasce d’età più alte (ossia in là con gli anni), tranne eccezioni.
Due aspetti si controbattono: l’assottigliamento della capacità di apprendimento e delle abilità fisiche con il passare degli anni, e d’altra parte l’aumento del numero di competenze acquisite nel corso delle diverse esperienze lavorative.
Una calo del rendimento lavorativo si riflette fortemente sul PIL pro capite. Se dal 1960 in Svizzera il PIL per abitante è aumentato, si rischia di vedere questo dato invertirsi nell’arco dei prossimi 20 anni. Uno degli effetti dell’invecchiamento demografico si traspone in una decrescita del PIL pro capite.

L’educazione e l’aggiornamento delle competenze sono l’essenza dell’innovazione e del progresso economico-sociale, necessari a garantire un futuro di ogni generazione.

Cosa si può fare per combattere questo ipotizzabile regresso della ricchezza? Le soluzioni proposte dai ricercatori della SECO sono quelle di focalizzarsi sull’aumento della produttività e sul consolidamento degli investimenti dei capitali. L’aumento della redditività e il numero di investimenti sono strettamente correlati. Di fatto si constata un esponenziale rafforzamento della produttività a seguito dell’influsso di capitali nei vari settori economici.

A sostenere il rendimento e l’aggiornamento delle competenze in ambito lavorativo vengono in soccorso le formazioni continue e le riqualifiche, le quali offrono uno spettro di possibilità nei vari campi e settori economici.
La Svizzera è in tal senso al passo con i tempi, il carnet di formazioni offerte a livello cantonale e federale è molto vasto.
L’educazione e la specializzazione, nonché l’aggiornamento delle competenze attuali, sono l’essenza dell’innovazione e del progresso economico-sociale, necessari a garantire un futuro di ogni generazione.

Evitare l’obsolescenza programmata delle competenze

Nelle differenti teorie economiche e industriali del XX e XXI secolo, con ‘obsolescenza programmata’ si definisce la fine pianificata del ciclo vitale di un prodotto. Cosa succede se applichiamo questo concetto alle risorse umane?

L’obsolescenza programmata serve a limitare la durata di un bene in un periodo prefissato. Il prodotto diventa così inservibile e obsoleto agli occhi del consumatore, soprattutto se confrontato con modelli e/o altri prodotti più innovativi. Questo tipo di strategie industriali sono ricorrenti se pensiamo ad esempio al mondo dell’high-tech: dai cellulari o smartphones agli elettrodomestici.

Cosa succede se applichiamo questo concetto alle risorse umane? In che modo l’evoluzione digitale e tecnologica – su cui come Cc-Ti stiamo portando avanti da diverso tempo un’informazione che tocca sfumature e aspetti diversi – influisce sulle dinamiche di formazione continua dei collaboratori, e di riflesso sul mercato del lavoro? In che modo il lockdown e la pandemia Covid-19 hanno modificato e ampliato questo processo?

Alcuni mesi fa il WEF (World Economic Forum) nel suo rapporto “Future of jobs” ha stimato che nei prossimi 2 anni saranno creati 133 milioni di nuovi posti di lavoro a livello mondiale. Professioni il cui profilo non è ancora ben tracciato poiché le dinamiche dell’economia mutano repentinamente e sono in costante evoluzione. La spinta innovatrice degli ultimi anni ha già modificato in modo importante il mondo del lavoro facendo sparire o mutando alcune mansioni, visto che nuove tecnologie si impongono rendendo obsolete alcune tecniche. Questo significa, parallelamente, che vi saranno migliaia di persone che dovranno riqualificare le proprie competenze con formazioni continue e corsi d’aggiornamento.

Le aziende oggi investono nel loro capitale più prezioso: quello umano, con azioni concrete volte allacostante e continua formazione dei propri collaboratori. Quest’azione resta una delle migliori misure concrete da attuare per far fronte all’“obsolescenza programmata delle competenze” nelle risorse umane. Ecco perché oggi le tendenze danno lo sviluppo personale e professionale – mediante corsi di aggiornamento per l’incremento delle proprie competenze e nuove attitudini – quale fondamento di crescita.

Raggiungere un traguardo concludendo un corso di formazione continua permette di restare aggiornati e competitivi sul mercato del lavoro. Di riflesso le aziende possono contare su figure professionali specializzate.

Al pari del perfezionamento continuo dei collaboratori, anche la società e le istituzioni si adoperano per mantenere aggiornati i programmi e le basi giuridiche su cui poggiano i sistemi di formazione di base a tutti i livelli (primario, secondario e terziario), mediante le revisioni di ordinanze sulla formazione. Occorre dunque agire a monte per sensibilizzare gli attori in gioco sul valore della questione e per trovare in modo concertato misure che siano innovative e garantiscano la giusta preparazione – dai giovani ai professionisti – nel mondo del lavoro (orientamento professionale).

In questo scenario che si sta concretizzando, acuito sicuramente dal Covid-19 che ha spinto sull’acceleratore del telelavoro e dello smartworking, emergono nuove figure professionali molto specialistiche, che vanno nella direzione di divenire “gli impieghi del futuro”.

I mestieri di domani 

Dove ci porterà il futuro? Ecco qualche ipotesi.

  • Data Detective 
    Se Peter Falk (celeberrimo Tenente Colombo) indagava su misfatti e delitti, il futuro domanda ancora di detective abili che analizzino il mondo di Internet. Difatti il “Data Detective” sarà un impiego ricercato, in quanto il numero di dati riservati tra cui elementi biometrici e informazioni personali che invadono la rete, richiedono un certo livello di sicurezza nel loro trattamento. È così che le Business Intelligence aziendali sussisteranno per il controllo dei dati ricevuti e trasmessi, in modo da garantirne un uso discreto e rigorosamente serbato.   
  • Ethical Sourcing Officer Manager
    Ad emergere, nel futuro più di oggi, saranno le professioni che implicano la responsabilità etica e sociale delle imprese. Aziende internazionali e non, avranno bisogno di ESO, ovvero un Ethical Sourcing Officer. Questo ruolo avrà il compito di garantire l’esercizio dei principi morali attraverso tutti i processi operativi e le relazioni interne ed esterne alla società; ovvero assicurarsi che i valori dell’esistenza di una compagnia rispecchino l’immagine per cui essa è riconosciuta dai suoi clienti, fornitori, investitori e collaboratori.  
  • Assistente camminatore e parlatore
    Nel 2050 si prevede che la percentuale delle persone a superare i 65 anni d’età sarà più del 16%, in confronto al 2019 dove “solo” il 9% della popolazione mondiale rientrava nella fascia ‘over 65’. Quest’incremento delle persone di terza e quarta età si rifletterà sulle generazioni più giovani, dando loro il compito di offrire un servizio di assistenza e supporto. Un mestiere del futuro sarà quindi quello del “camminatore/parlatore”, ovvero passeggiare in compagnia e scambiare due chiacchiere. La collettività è sinonimo di unità e inclusione, l’emarginazione di persone non fa parte di una visione futura.  
  • Personal Trainer 3.0
    Se le persone anziane avranno degli accompagnatori, allo stesso tempo, le persone più giovani e attive richiederanno un supporto per restare dinamiche, sportive e in salute. C’è chi deciderà di dedicarsi al coaching sportivo (una sorta di ‘Personal Trainer’ avanzato), per motivare e appoggiare donne e uomini nel loro cammino verso una vita più sana.
  • Infermieri specializzati
    Il campo della medicina è evoluto incredibilmente e continuerà in questa direzione. La necessità di personale medico sempre più formato e specializzato è stata anche – purtroppo – confermato negli scorsi mesi dalla pandemia Covd-19. In ottica futura possiamo vedere come in campo MedTech, ad esempio, non sarà più necessaria la presenza di un chirurgo per l’esecuzione di un intervento, ma sarà sufficiente l’accompagnamento di infermieri specializzati, che grazie all’uso dell’intelligenza artificiale, potranno svolgere operazioni in modo più autonomo. 
  • Professioni relative alle ‘Smart Cities’
    La maniera di costruire case e di modellare la realtà urbana si è trasformata nel tempo. Il lavoro di asfaltatori, costruttori, muratori, ingegneri e architetti si è dovuto confrontare con nuovi metodi di concepire e modernizzare le città di domani. Le “Smart Cities” sono già parte del presente. Se nel 2016, a livello globale, venivano spesi 80 miliardi di dollari per lo sviluppo di città intelligenti, nel 2021, si prevede un budget consacrato a questo scopo, di 135 miliardi di dollari. I lavori coinvolti nella progettazione, nella costruzione e nel mantenimento delle metropoli moderne, verranno profondamente sviluppati, in termini di competenze, e conoscenze, di materiali e di infrastrutture hi-tech. Specialisti nei sistemi fotovoltaici e solari saranno ingaggiati nell’ideazione di configurazioni energetiche volte a soddisfare le esigenze dei cittadini. 

Lavori del futuro che si uniscono alla tecnologia per fornire beni e servizi. È questa una delle strade da percorrere per non incorrere nell’ “obsolescenza programmata delle competenze”, insieme al potenziamento della formazione continua, affinché si possa fornire al tessuto economico una concreta risposta di personale qualificato.


Incrementare le proprie competenze
Con corsi mirati e di breve durata la formazione puntuale Cc-Ti è pensata per offrire in modo concreto ai partecipanti delle solide basi sulle diverse tematiche legate alla gestione aziendale (diritto; export; finanza; marketing e vendita; organizzazione; risorse umane e soft skills). Tutte le nostre formazioni sono erogate rispettando le direttive sanitarie Covid-19. Per altre informazioni: www.cc-ti.ch/formazione