Adeguamenti salariali CNL 2020

Un’informativa sulle modifiche salariali relative ai contratti normali di lavoro.

La Commissione tripartita in materia di libera circolazione delle persone ha pubblicato sul Foglio ufficiale no.102/2019 del 20 dicembre 2019 gli adeguamenti salariali 2020 dei contratti normali di lavoro (CNL).

I CNL ex-art. 360a CO decretati dal Consiglio di Stato su proposta della Commissione tripartita prevedono un adeguamento agli eventuali aumenti salariali decisi dalle parti dei rispettivi CCL di riferimento oppure, laddove non vi è un CCL di riferimento, l’adeguamento al rincaro in funzione dell’evoluzione su base annua dell’indice nazionale dei prezzi al consumo (IPC del mese di novembre).

In breve, dal 1° gennaio 2020:

  • sono stati adeguati, in base all’aumento deciso dalle parti contraenti del CCL per gli impiegati di commercio nell’economia ticinese, i minimi salariali orari previsti dagli 11 contratti normali di lavoro (CNL) attualmente in vigore per la professione di impiegato/a di commercio, con un aumento da 19.85 a 20.06 franchi per un impiegato generico, da 21.45 a 21.67 franchi per un impiegato operativo e da 24.40 a 24.64 franchi per un impiegato responsabile;
  • è stato adeguato ai nuovi minimi del rispettivo contratto collettivo di riferimento (CCL Swissmem) anche il CNL per il settore della fabbricazione di macchinari e apparecchiature, con l’aumento da 21.10 a 21.25 franchi per il personale non qualificato e da 22.95 a 23.12 per il personale qualificato;
  • il CNL per gli operatori di call center è stato adeguato in base agli adeguamenti decisi dalle parti contraenti del CCL Contact e Call center con l’aumento da 19.25 a 19.62 per il livello 1, da 20.90 a 21.30 per il livello 2 e da 23.90 a 24.38 per il livello 3;
  • per quanto riguarda il settore dell’informatica, i minimi delle 3 categorie salariali degli informatici previsti nel CNL sono stati adeguati in linea con gli aumenti previsti per le tre categorie di impiegati di commercio, ossia da 19.85 a 20.06 franchi per la categoria a, da 21.45 a 21.67 franchi per la categoria b e da 24.40 a 24.64 franchi per la categoria c.

Non essendosi verificato un rincaro su base annua nell’indice nazionale dei prezzi al consumo (IPC novembre) non vi è invece stato nessun adeguamento dei salari minimi per i rimanenti CNL.

Nuova Legge cantonale sulle Aperture dei Negozi (LAN)

Da inizio gennaio 2020 il settore del commercio al dettaglio dispone di nuove regolamentazioni.

Il 1° gennaio sono entrati in vigore la Legge cantonale sulle Aperture dei Negozi (LAN) e il Contratto Collettivo di Lavoro per il settore della vendita, dichiarato di forza obbligatoria. Per la gestione del CCL è stata istituita una Commissione paritetica, la cui sede è a Lamone.

La legge si applica a tutti i negozi ed esercizi di vendita.

È considerato negozio ai sensi della legge ogni locale o impianto accessibile al pubblico e utilizzato per la vendita al dettaglio di prodotti di ogni genere, compresi gli stand di vendita, le strutture mobili o i commerci che si trovano all’interno dei locali di un’impresa di genere diverso o di un appartamento.

Basi legali

Le principali disposizioni

Il quadro normativo regola in particolare:

  • L’orario di apertura e di chiusura dei negozi in tutto il Cantone
    – dal lunedì al venerdì tra le ore 06.00 e le ore 19.00,
    – il giovedì tra le ore 06.00 e le ore 21.00,
    – il sabato tra le ore 06.00 e le ore 18.30.
  • Il principio della chiusura domenicale e festiva dei negozi.
  • La possibilità di chiedere deroghe puntuali agli orari di apertura nei giorni feriali, nelle domeniche e giorni festivi, in occasione di esposizioni, manifestazioni culturali, sportive o popolari, inaugurazioni, ricorrenze e anniversari.

L’introduzione di deroghe di legge:

  • per determinati negozi nei giorni feriali tra le ore 06.00 e le ore 22.30.
  • per l’apertura generalizzata dei negozi tra le ore 10.00 e le ore 18.00 per un massimo di tre domeniche all’anno, nelle domeniche che precedono il Natale dopo l’Immacolata, definite annualmente dal DFE.
  • per l’apertura generalizzata dei negozi tra le ore 10.00 e le ore 18.00 nelle feste infrasettimanali non parificate alla domenica, escluso il primo maggio.
  • per determinati negozi durante le domeniche e nei giorni festivi ufficiali tra le ore 06.00 e le ore 22.30.
Per maggiori informazioni il Segretariato di Federcommercio è a disposizione. Altri utili riferimenti sul sito dell’Ispettorato del lavoro del Canton Ticino, all’indirizzo www.ti.ch/negozi

Testo tratto da www.ti.ch/negozi

Obbligo di annunciare i posti vacanti: novità dal 2020

Vi proponiamo maggiori dettagli sull’aggiornamento dal 1° gennaio 2020.

Dal 1° gennaio 2020 il valore soglia per l’assoggettamento all’obbligo di annuncio sarà abbassato al tasso di disoccupazione medio del 5% come previsto per legge. I generi di professione assoggettati sono determinati in base alla nuova nomenclatura svizzera delle professioni.

Cliccando qui, è possibile trovare maggiori informazioni.

L’elenco dei generi di professioni soggetti all’obbligo di annuncio per il 2020 è consultabile su www.lavoro.swiss.

Necessitate di maggiori informazioni? Il nostro Servizio giuridico è sempre a disposizione degli associati per maggiori dettagli.

Prendersi una pausa

Ci sono collaboratori che anelano un attimo di pausa, altri invece che preferiscono “tirare dritto” e finire prima. Cosa rispondere?

Partiamo da alcune indicazioni di base. La settimana lavorativa per i singoli lavoratori non può eccedere i 6 giorni. I 6 giorni lavorativi nei giorni feriali da lunedì a sabato sono seguiti dal giorno di riposo settimanale. Quest’ultimo deve comprendere la durata di 24 ore della domenica e un tempo di riposo giornaliero di 11 ore.
I lavoratori chiamati a prestare lavoro domenicale, conformemente all’art. 21 OLL 1, non possono essere impiegati per più di 6 gironi consecutivi.
Non vi è nessun obbligo di ripartire le ore di lavoro dei singoli lavoratori in modo uniforme sull’arco della settimana lavorativa. Queste possono anche essere concentrate in singoli giorni lavorativi, sempreché siano osservate le prescrizioni sulla durata massima della giornata lavorativa nonché sulla durata del lavoro e del riposo.
È considerato posto di lavoro ai sensi della legge sul lavoro qualsiasi luogo nell’azienda o fuori della stessa ove il lavoratore deve rimanere per eseguire il lavoro assegnatogli. Un veicolo o tutti gli altri mezzi di trasporto ai sensi dell’articolo 13,2 e 15,2 OLL 1 sono di conseguenza considerati posti di lavoro, ma evidentemente non locali di pausa.

La pausa è un tema ricorrente e fonte di discussione, o meglio, d’interpretazione. Il collaboratore ritiene, spesso, di poter gestire questo tempo a suo piacimento, magari senza fermarsi per finire in anticipo la propria giornata. Il datore di lavoro ha un’idea ben precisa, spesso diversa, in merito alla concessione e all’utilizzo del “tempo aziendale”.

La base dalla quale partire è necessariamente la regolamentazione legale che varia notevolmente da settore a settore. La legge ci aiuta a identificare una prima linea (Legge sul lavoro e ordinanze 1 e 2 della SECO):

 Sezione 2: Pause e periodi di riposo  Art. 18 Pause (art. 15 e 6 cpv. 2 LL)

1 Le pause possono essere stabilite in modo uniforme o differenziato per i singoli lavoratori o gruppi di lavoratori.
2 Le pause devono essere fissate in modo da dividere a metà il tempo di lavoro. Un periodo di lavoro di una durata superiore a cinque ore e mezzo prima o dopo una pausa dà diritto a pause supplementari conformemente all’articolo 15 della legge.
3 Le pause di una durata superiore a mezz’ora possono essere frazionate.
4 Nel caso di orari di lavoro flessibili, la durata delle pause è calcolata sulla base della media della durata giornaliera del lavoro.5 È posto di lavoro ai sensi dell’articolo 15 capoverso 2 della legge, qualsiasi luogo nell’azienda o fuori dell’azienda, ove il lavoratore deve stare per eseguire il lavoro assegnatogli.

Ai sensi delle indicazioni sulla legge del lavoro, si recita quanto segue:

“Ai sensi del diritto del lavoro, qualsiasi interruzione del lavoro che consenta al lavoratore di riposare e mangiare ha validità come pausa”. Le interruzioni del lavoro dovute a problemi tecnici che, quindi per loro natura, non contemplano il riposo non sono considerate una “pausa”. Alla stessa stregua i tempi concessi all’inizio e alla fine di un turno di lavoro non possono essere considerate pause in senso stretto.          

Possiamo quindi riassumere asserendo che non possiamo valutare una qualsiasi interruzione del lavoro una pausa (v. Legge sul lavoro).
È buona abitudine che i datori di lavoro consultino i lavoratori o i loro rappresentanti in azienda in merito alla regolamentazione delle pause prima che queste siano fissate in modo definitivo.
Le pause possono essere fissate in modo uniforme a un determinato orario per l’intera azienda, o in modo differenziato per singoli lavoratori o gruppi di lavoratori.

Cosa ci indica il diritto del lavoro

La legge sul lavoro prevede norme molto concise su questo tema. Resta inteso che i lavoratori hanno diritto a fare delle pause.        
Le pause servono a nutrirsi e a riposarsi, perciò devono essere fissate in modo da dividere a metà le durate del lavoro (indicate nell’articolo 15 LL).
Anche se la pausa principale dura più a lungo di quanto prescritto dalla legge (es. pausa di mezzogiorno di un’ora tra le 12.00 e le 13.00) un periodo di lavoro di una durate superiore a cinque ore e mezzo prima o dopo questa pausa dà diritto a pause supplementari conformemente all’articolo 15 della legge.

Tempo secondo le indicazioni di legge:

  • un quarto d’ora, se la giornata lavorativa dura più di cinque ore e mezza;
  • mezz’ora, se la giornata lavorativa dura più di sette ore;
  • un’ora, se la giornata lavorativa dura più di nove ore.

Solo le pause di una durata superiore a mezz’ora possono essere frazionate. Questa mezz’ora rappresenta il tempo minimo necessario per potersi nutrire e riposare se il lavoro giornaliero dura più di 7 ore.È dato accertato che più pause brevi permettono di riposarsi meglio di una sola pausa lunga (. art. 17°cpv. 2LL). In generale: Nel caso di orari di lavoro flessibili, nei quali la durata giornaliera del lavoro può essere compresa fra meno di sette ore a più di nove ore, la durata della pausa principale è calcolata sulla base della media della durata giornaliera del lavoro convenuta. Anche in questo caso vale la disposizione secondo cui un periodo di lavoro di una durata superiore a 5 ore e mezzo da diritto a una pausa di un quarto d’ora.

Le pause non sono orario di lavoro

Il tempo di pausa, in generale, non conta come orario di lavoro. Le pause non dovrebbero essere pagate. Tuttavia, ci sono eccezioni: quando i lavoratori semplicemente non possono lasciare il luogo di lavoro (art. 15, 2 LL). Qualsiasi luogo in cui il lavoratore deve essere in grado di svolgere il lavoro affidatogli, all’interno o all’esterno del luogo di lavoro, è considerato un luogo di lavoro (art. 18, 5 OLL). Questo è il caso, ad esempio, quando è necessario garantire la permanenza del telefono. Il tempo ad esso dedicato viene quindi conteggiato come orario di lavoro e deve essere compensato.

Pausa sigaretta

Il datore di lavoro è libero di concedere o meno ai propri dipendenti pause supplementari, ad esempio le pause per il fumo di sigarette. I lavoratori che desiderano fare brevi pause per questo scopo devono compensare questo periodo: le pause sigaretta non vengono conteggiate come orario di lavoro.
Si consiglia pertanto di impostarlo in modo trasparente e dall’inizio. Questa concessione può anche portare rapidamente a tensioni e discussioni se, per esempio, i non fumatori si sentono discriminati da questo “favore”.

Riposo giornaliero

È necessario rispettare i requisiti di riposo giornaliero contenuti nel diritto del lavoro, ma essere anche attenti alle diverse esigenze dei nostri collaboratori a dipendenza della funzione e del tipo di lavoro assegnato.
Le interruzioni sono formalmente prescritte dalla legge e, a seconda della durata degli impegni, il datore di lavoro deve concedere almeno un’interruzione al minimo come prescritto dalla legge. Il datore di lavoro deve anche assicurarsi che i suoi dipendenti prendano le loro pause. Pause, di regola, non prevalgono come orario di lavoro e non dovrebbero essere, in orario normale, compensate.
Anche colazioni e pause pomeridiane non vengono conteggiate come orario di lavoro.
Sebbene i lavoratori debbano normalmente compensare le pause caffè, la maggior parte dei datori di lavoro concede loro volontariamente questo tempo come libero, senza richiedere alcun compenso per l’orario di lavoro.
Questa è un’ottima idea che contribuisce alla buona atmosfera del clima lavorativo.
Questo atteggiamento di “complicità” con i propri dipendenti non dovrebbe mai essere trascurato ed è il cemento di tutti i buoni rapporti di lavoro.

Fonti: SECO, Indicazioni relative alla legge sul lavoro e alle ordinanze 1 e 2 
WEKA, “Temps de pause: ni plus, ni moins”, 7.8.19

Il nostro Servizio giuridico per le aziende associate

Tra i differenti servizi che la Cc-Ti propone ai propri associati, quello giuridico offre alle aziende affiliate l’opportunità di usufruire di una assistenza puntuale su temi di natura giuridica, di regola legate all’ambito contrattualistico e del diritto del lavoro.

A seguito del crescente interesse per la consulenza giuridica dimostrata dai nostri  associati, per il 2020 abbiamo previsto di dare maggior tangibilità a questo  importante servizio.

Un contatto che consta di una prima valutazione della situazione con i relativi consigli da mettere in atto, un po’ come succede con il medico di famiglia in ambito sanitario. Qualora i problemi segnalati dovessero richiedere interventi più approfonditi o, addirittura, l’avvio di procedure giudiziarie, è da sempre nostra premura segnalare i nominativi di professionisti facenti parte della nostra rete di  contatti, sia in Svizzera che all’estero, affinché i nostri soci possano prevalersi di assistenza competente e confacente alle loro specifiche esigenze.

La Cc-Ti intende quindi identificarsi come riferimento autorevole in Ticino nel settore del diritto del lavoro, per le aziende o le associazioni di categoria associate, ma non solo. In tale prospettiva verranno maggiormente curati la comunicazione giuridica agli associati, come pure i momenti di incontro con le aziende su temi giuridici.

Vi ricordiamo che è già possibile nell’area soci consultare e scaricare articoli e pratiche schede di natura giuridica su differenti tematiche (diritto del lavoro, risorse umane, diritto commerciale, accordi bilaterali, proprietà intellettuale, fiscalità, assicurazioni sociali, ecc.).

Il nostro Servizio giuridico è diretto dall’Avv. Michele Rossi, delegato per le relazioni esterne per la Cc-Ti e pure docente all’Università dell’Insubria e alla SUPSI.

1° novembre 2019: abolizione delle azioni al portatore

Un’informativa sulle modifiche del Codice delle obbligazioni – decise dal Consiglio federale – che decretano l’abolizione delle azioni al portatore per le società non quotate in borsa.

Lo scorso 27 settembre il Consiglio federale ha stabilito che le modifiche del Codice delle obbligazioni che decretano l’abolizione delle azioni al portatore per le società non quotate in borsa decise dal Parlamento nel mese di giugno, sono entrate in vigore il 1° novembre 2019.

Le società avranno 18 mesi di tempo dall’entrata in vigore per adeguarsi a tale divieto e per modificare di conseguenza i propri statuti. Inoltre, dal mese di novembre in Svizzera non sarà più possibile costituire nuove società con titoli al portatore. 
Si consiglia pertanto a tutte le società con titoli al portatore di rivolgersi ai loro rispettivi notai di fiducia per procedere alle modifiche necessarie. In caso di inadempienza la nuova legge prevede sanzioni e l’annullamento delle azioni al portatore ancora esistenti entro 5 anni.

Atto parlamentare che mira a ridurre la burocrazia per le aziende

Presentata un’interpellanza interpartitica denominata “Eliminazione dei doppioni nella raccolta dati presso le imprese: occorre agire anche in Ticino”.

È stata inoltrata il 2 ottobre l’interpellanza denominata “Eliminazione dei doppioni nella raccolta dati presso le imprese: occorre agire anche in Ticino”, presentata da Cristina Maderni – Deputata PLRT in Gran Consiglio e Vicepresidente della Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del Cantone Ticino (Cc-Ti) e cofirmatari – Michele Foletti (Lega), Sabrina Gendotti (PPD) e Piero Marchesi (UDC). Questo atto parlamentare chiede un intervento volto all’eliminazione dei doppioni nella raccolta dati presso le imprese.
Ecco il testo integrale.

BYOD: alcuni aspetti da considerare

L’evoluzione tecnologica e le abitudini che questa porta con sé hanno avuto e stanno avendo un riflesso nel mondo del lavoro che solleva questioni giuridiche non sempre facili da risolvere. È questo il caso del fenomeno “Bring your own device” (BYOD) .

È diventato usuale che un dipendente lavori utilizzando il proprio cellulare, il proprio tablet o il proprio pc portatile (acquistato con i propri mezzi), sia sul luogo di lavoro sia a casa, connettendosi alla rete informatica del datore di lavoro ed elaborando dati riguardanti clienti, fornitori o lo stesso datore di lavoro.

Come regolare, quindi, l’uso a scopo professionale di dispositivi personali? Si tratta di un fenomeno globale, definito “bring your own device (BYOD)”, che sta prendendo sempre più piede soprattutto a seguito della capillare diffusione degli smartphones. I vantaggi sono evidenti: si va da una maggiore mobilità e produttività da parte del dipendente, che si sente più coinvolto e ha una familiarità maggiore con il proprio ‘device’, a minori costi in termini di spese di acquisto dei dispositivi per l’azienda.

Aspetti giuridici scelti

Tra gli aspetti che, a livello giuridico, è bene tenere in considerazione, ci permettiamo elencare, senza pretesa di esaustività, i seguenti.

  • Principio e costi

L’articolo 327 cpv. 1 CO indica che «salvo accordo o uso contrario, il datore di lavoro deve fornire al lavoratore gli utensili e il materiale di cui ha bisogno per il lavoro». Da qui si deduce che il BYOD non è obbligatorio e non può essere imposto. L’articolo 327 cpv. 2 CO prosegue dicendo che «se, d’intesa con il datore di lavoro, il lavoratore mette a disposizione utensili o materiale per l’esecuzione del lavoro, egli deve essere adeguatamente indennizzato, salvo accordo o uso contrario»: vediamo dunque come questa pratica sia facoltativa e debba essere oggetto di un accordo (datore di lavoro e collaboratore) tra le parti, anche se spesso quest’ultimo è tacito (con i rischi che ciò può comportare, soprattutto a livello di eventuali pretese di indennizzo del lavoratore nei confronti del datore di lavoro).

A livello di costi, l’acquisto dell’apparecchio deve essere – almeno in parte – a carico del dipendente, altrimenti cadrebbe per definizione il discorso del BYOD. I costi sostenuti per l’abbonamento, per la riparazione e quelli legati all’utilizzo andrebbero invece suddivisi proporzionalmente a dipendenza dell’uso effettivo del “device” (in conformità con quanto disposto dall’articolo 327a CO).

Cosa succede in caso di utilizzo improprio dell’apparecchio? Quali sono le responsabilità? Ve ne possono essere sia in capo al datore di lavoro, ad esempio in caso di danneggiamento del dispositivo nel contesto dell’attività lavorativa, ma anche al dipendente, nel caso in cui venissero causati dei danni al datore di lavoro tramite un uso improprio, anche accidentale, dell’apparecchio (un esempio potrebbe essere, banalmente, l’uso del telefono da parte dei figli del dipendente, i quali accidentalmente potrebbero commettere un’azione involontaria che causa un danno economico al datore di lavoro).

  • La protezione dei dati

Altro grande capitolo in tema di BYOD è la protezione dei dati, alla quale occorre prestare attenzione. Come tutelarla? Vi è una difficoltà tecnica e logica nel separare dati professionali e personali, i rischi sono quelli che dati professionali (ma anche quelli privati) divengano accessibili a terzi, o vi sia una perdita o un abuso. L’art. 7 cpv. 1 della Legge federale sulla protezione dei dati dispone che «i dati personali devono essere protetti contro ogni trattamento non autorizzato, mediante provvedimenti tecnici e organizzativi appropriati». In questo caso la responsabilità ricade sul detentore della collezione di dati. È bene dunque che il datore di lavoro preveda le necessarie misure di protezione per i dati commerciali/aziendali e, al contempo, tuteli anche la sfera privata del dipendente.

  • Aspetti critici di altra natura

La Legge sul lavoro regola il tempo di lavoro e di riposo, e prevede che il dipendente debba essere tutelato con misure di protezione della sua salute. I confini tra tempo di lavoro e tempo libero / luogo di lavoro e abitazione propria sono sempre più labili, anche in ragione dell’uso sempre più pervasivo dei dispositivi mobili, i quali tendono quindi a far filtrare il lavoro, sotto forma di telefonate, di email o addirittura di interi database accessibili da remoto, nella sfera domestica / privata del dipendente.

È evidente che questo fenomeno, e il potenziale dannoso per la salute del dipendente che porta con sé, si acuisce nell’ambito del BYOD.

Il consiglio è quello di prevedere delle direttive interne chiare, che regolino e disciplinino il tema del BYOD anche relativamente ai limiti da considerare per la tutela della salute e della personalità del dipendente.

L’approccio verso il BYOD deve far parte di una strategia aziendale globale, con una pianificazione generale e, possibilmente dove opportuno, un accordo bilaterale per casi particolari.

 

Articolo a cura di Alex Domeniconi, Avv. dr. iur., associato presso Walder Wyss SA, Lugano e Stefano Fornara, Avv., CAS in civil litigation, counsel presso Walder Wyss SA, Lugano

La Cc-Ti ha già dedicato un evento alla tematica, di cui qui potete riscoprire i dettagli. Inoltre il nostro Servizio giuridico è a disposizione dei soci per tutti i dubbi sull’argomento.

La modifica del contratto di lavoro

Determiniamo come affrontare e concretizzare i cambiamenti nei contratti lavorativi, nell’interesse di entrambe le parti in gioco: datore di lavoro e dipendente. Un vademecum in proposito.

Art. 319 CO

  1. In contratto individuale di lavoro è quello con il quale il lavoratore si obbliga a lavorare al servizio del datore di lavoro per un tempo determinato o indeterminato e il datore di lavoro a pagare un salario stabilito a tempo o a cottimo.
  2. E’ considerato contratto individuale di lavoro anche il contratto con il quale un lavoratore si obbliga a lavorare regolarmente al servizio del datore di lavoro per ore, mezze giornate o giornate (lavoro a tempo parziale).

I contratti individuali di lavoro sono generalmente concisi e chiari. Le disposizioni generali applicabili a tutti e che non devono essere necessariamente scritte, sono spesso contenute in un regolamento separato. Nel contratto di lavoro dovrebbe essere inclusa la conferma che il lavoratore ha ricevuto il regolamento in questione, che ha compreso il suo contenuto e che lo approva.

Salvo casi particolari e solo quando a vantaggio del dipendente in primis, il contratto di lavoro può essere modificato senza osservare una forma particolare e può, in determinate circostanze, anche derivare dal comportamento di una parte (modifica tacita). In questo caso occorre però valutare con attenzione quanto possa essere effettivamente ritenuto accettabile secondo le regole della buona fede, del diritto e dell’equità, poiché comunque non sono accettabili modifiche unilaterali ed è sempre necessario un accordo fra le parti (scritto, orale o concludente che sia).

E’ molto importante rilevare che, in ogni caso, devono sempre essere osservate le disposizioni imperative del CO (vedi art. 361 segg.) e le regole concernenti la disdetta di un contratto.

Una modifica immediata è accettata solo se è favorevole al dipendente. Se le parti non trovano un accordo sulla modifica proposta, il datore di lavoro deve sciogliere il contratto rispettando i termini di disdetta.

Una modifica delle condizioni di lavoro sfavorevole al lavoratore, ad esempio una riduzione del salario, può infatti diventare effettiva solo alla scadenza del termine di disdetta contrattuale o legale, poiché di fatto viene trattato come un nuovo contratto.

La disdetta con riserva di modifica

Un contratto di lavoro non è immutabile e deve essere adattabile alle diverse esigenze e necessità dell’economia o dell’impresa.

Per apportare modifiche all’accordo iniziale è necessario essere attenti e prudenti nella determinazione di ogni cambiamento che intendiamo introdurre nel rapporto di lavoro con il nostro collaboratore e farlo nel modo più corretto per entrambi.

Chiariamo subito che un contratto di lavoro non può essere modificato negativamente, unilateralmente, dal datore di lavoro.

Il datore di lavoro deve quindi ricorrere a “la disdetta con riserva di modifica” quando intende modificare unilateralmente un elemento essenziale del contratto di lavoro.

Consideriamo due scenari:

  • Il primo di questi consiste in un semplice accordo congiunto di modifica del contratto (con il consenso del collaboratore).

Ogni modifica contrattuale che peggiora le condizioni di lavoro del collaboratore (ad es. il salario) necessita sempre del consenso del medesimo. In tempi di crisi, non è escluso che il personale sia disposto, pur di mantenere il posto di lavoro, ad accettare dei sacrifici.

  • La seconda alternativa, qualora non fosse possibile raggiungere un accordo, consiste nella notifica di una disdetta con riserva di modifica.

Tramite una disdetta con riserva di modifica, il datore di lavoro che intende modificare le condizioni di un contratto di lavoro di durata indeterminata, presenterà al dipendente le nuove condizioni menzionando che, in assenza di accettazione il contratto terminerà allo scadere del termine di disdetta contrattuale o legale.

Una simile disdetta volge comunque a mantenere il rapporto di lavoro, ma ad altre condizioni.

La legge è silente in merito ai requisiti del contratto di lavoro che, per essere modificato, necessita della disdetta con riserva di modifica.

La dottrina ritiene che i punti chiave da considerare, senza dubbio, siano quelli “essenziali” del contratto di lavoro, ovvero: il tipo di attività, il principio della remunerazione, la durata determinata o indeterminata del contratto e, in linea di principio, il luogo di lavoro (a meno che il cambiamento del luogo di lavoro non comporti particolari inconvenienti per il collaboratore). La modifica di questi elementi del contratto deve quindi essere oggetto di una manifestazione di volontà reciproca e concordante e non possono in linea di massima essere modificati in modo unilaterale, se le modifiche svantaggiano il dipendente.

Per essere valida, la disdetta con riserva di modifica del contratto di lavoro deve quindi rispettare determinate condizioni. La giurisprudenza ritiene che, in linea di principio, una disdetta con riserva di modifica a sfavore del dipendente è possibile e non abusiva, se risponde a reali e comprovate nuove necessità economiche dell’azienda.

In altri termini, la disdetta pronunciata in assenza di una vera necessità potrebbe rivelarsi abusiva e comportare una sanzione sotto forma di versamento di un’indennità al dipendente.

Tipologie di disdetta con riserva di modifica

Occorre distinguere fra la disdetta con riserva di modifica “in senso stretto” e quella “in senso lato”.

In senso stretto:

  • Viene notificata contemporaneamente alla proposta di nuove condizioni di lavoro. Si consiglia, per evitare controversie, di procedere con atti scritti, menzionando quali condizioni sono modificate, le conseguenze di una mancata accettazione, il termine e le modalità di comunicazione dell’accettazione o del rifiuto, nonché il momento in cui il contratto terminerà in caso di mancata accettazione. Sarà anche opportuno precisare che in caso di accettazione le nuove condizioni verranno applicate alla scadenza del termine di disdetta.

In senso lato:

  • Si attua invece notificando al dipendente la disdetta solo dopo che questi ha rifiutato una determinata modifica di elementi essenziali del contratto di lavoro. La disdetta con riserva di modifica in senso lato è insidiosa perché, in caso di contestazione, corre maggiori rischi di risultare abusiva. Infatti, a seconda delle circostanze, la disdetta potrà apparire come una rappresaglia del datore di lavoro per la mancata accettazione della modifica da parte del dipendente. Sarà segnatamente il caso quando la disdetta non appoggia su un motivo oggettivamente fondato e le modalità della disdetta abbiano violato il principio della buona fede.
  • Occorre essere attenti nel proprio agire:

Il datore di lavoro che, informando il dipendente che una determinata modifica dettata da concrete necessità economiche entrerà in vigore alla fine del termine di disdetta (legale o contrattuale), e invita quest’ultimo a negoziare le nuove condizioni del contratto senza diffidare o imporre al dipendente di accettare immediatamente la modifica, agisce correttamente dal profilo della buona fede. In tal caso, la disdetta notificata dopo il rifiuto del dipendente di accettare le nuove condizioni, non sarà considerata abusiva.

È opportuno rammentare che le modifiche a sfavore del dipendente potranno entrare in vigore solo allo scadere del periodo di disdetta legale contrattuale. In altri termini, durante il periodo di disdetta le vigenti condizioni contrattuali dovranno continuare ad essere applicate.

La disdetta con riserva di modifica “collettiva”

Anche se più insidiosa, la disdetta con riserva di modifica “in senso lato” può risultare vantaggiosa nel caso in cui si dovessero modificare molti contratti.

Di seguito, illustreremo il motivo.

Qualora il datore di lavoro fosse costretto dalle circostanze a modificare l’insieme dei contratti dei dipendenti o di una parte consistente dei medesimi, dovrà tenere in considerazione le disposizioni del Codice delle obbligazioni relative al licenziamento collettivo (articoli 335d-335g).

Se il datore di lavoro procede a delle disdette con riserva di modifica “in senso stretto” nei confronti di un numero di dipendenti uguale o superiore ai valori menzionati all’art. 335d (ad esempio, almeno dieci nelle imprese che occupano più di venti dipendenti e meno di cento), egli dovrà rispettare la procedura di licenziamento collettivo anche se la maggioranza dei lavoratori dovesse accettare le modifiche e non essere pertanto licenziata.

Al contrario, l’azienda che attua una disdetta con riserva di modifica “in senso lato” proponendo dapprima la modifica dei contratti e licenziando unicamente i collaboratori che l’avranno rifiutata, sottostarà alle disposizioni sul licenziamento collettivo solamente nella misura in cui il numero di lavoratori effettivamente licenziati supererà i valori di cui all’art. 335d.

Queste, in sintesi, le principali possibilità di intervento dell’azienda, per affrontare i periodi di incertezza senza perdere validi collaboratori, premesso che siano utilizzate conformemente ai principi enunciati.

Da ricordare

Il contenuto di una modifica deve essere chiaro e non ambiguo. In particolare, deve menzionare espressamente le modifiche contrattuali desiderate. Pertanto, le nuove condizioni di lavoro devono essere indicate con precisione.
La modifica del contratto deve fissare la data effettiva di entrata in vigore delle modifiche. L’attuazione non può aver luogo prima della scadenza del periodo di preavviso applicabile. In caso contrario, il cambiamento sarà considerato come abusivo ai sensi dell’articolo 336 comma 1 lettera del Codice delle obbligazioni (CO).
Anche le conseguenze del rifiuto del cambiamento devono essere espressamente incluse nella disdetta con riserva di modifica. In caso di rifiuto delle modifiche contrattuali, i rapporti di lavoro terminano alla scadenza del periodo di preavviso senza ulteriore notifica.

Deve essere espressamente dichiarato che, senza l’accettazione scritta del dipendente, il rapporto di lavoro terminerà alla fine del periodo di preavviso.
Attenzione! Il silenzio del collaboratore non vale quale accordo tacito.

La disdetta con riserva di modifica non può essere utilizzata per ottenere un vantaggio immediato, per deviare la legge o un contratto collettivo, senza ritenersi abusiva. Ad esempio non è corretto per un datore di lavoro aumentare la durata del lavoro di un collaboratore senza aumentare il suo stipendio e licenziarlo due giorni dopo perché ha rifiutato. Il datore di lavoro pretendeva un beneficio unilaterale immediato, senza rispettare il periodo di preavviso.
I periodi di protezione contro i licenziamenti intempestivi sono previsti dal Codice delle obbligazioni per proteggere i lavoratori in caso di assenza per servizio militare, infortuni, malattia o incidente. Qualsiasi annullamento che si verifica durante questo periodo è da ritenersi abusivo, anche nel caso di disdetta con riserva di modifica.

Opposizione del dipendente

In caso di opposizione, la prova che la disdetta sotto riserva di modifica non avviene per motivi economici o legati al mercato incombe al dipendente. Fornire questa prova è, naturalmente, piuttosto difficile. D’altra parte, in giudizio, sarà altrettanto difficile per il datore di lavoro far credere al giudice che ha effettivamente dovuto fare ricorso a una disdetta sotto riserva di modifica spinto da una logica di economia aziendale o da ragioni di mercato, se quasi contemporaneamente, ha creato nuovi posti a tempo pieno, occupandoli con nuova forza lavoro.

Tuttavia, anche se il collaboratore fosse in grado di fornire la prova che la disdetta è abusiva, il giudice non la annullerebbe.

Il dipendente può opporsi alla modifica contrattuale e il rapporto di lavoro avrà tuttavia fine alla scadenza del termine di disdetta, sebbene la corte ne riconosca l’abusività.

Sul datore di lavoro incombe poi la minaccia di dover pagare, come sanzione, fino a sei mesi di salario. La disdetta non sarà annullata.

Il dipendente può decidere di accettare la disdetta sotto riserva di modifica e, alla scadenza del termine di disdetta, di continuare a lavorare per l’attuale datore di lavoro con le nuove modalità.

Viceversa, se vuole, può opporsi alla modifica e ricorrere alla giustizia.

NB: Secondo il diritto delle assicurazioni sociali, va ritenuto che in caso di rifiuto della modifica contrattuale il dipendente dovrà attendersi giorni di sospensione dal diritto, causa disoccupazione per colpa propria.

 

 

Obbligo di annuncio di posti vacanti: costi assunti dalla Confederazione?

L’8 marzo 2019 il Consiglio federale ha preso atto del rapporto sui risultati della consultazione concernente la legge federale sulla partecipazione ai costi dei Cantoni per il controllo dell’obbligo di annunciare i posti vacanti. Ha adottato il relativo disegno di legge e il messaggio e li ha sottoposti al Parlamento. 

La nuova legge porrà le basi legali per una partecipazione finanziaria della Confederazione ai costi di controllo cantonali. Inoltre, conferirà al Consiglio federale la competenza di adottare se necessario disposizioni esecutive quanto al tipo e alla portata dei controlli.

L’attuazione dell’obbligo di annunciare i posti vacanti e di svolgere i relativi controlli è di competenza dei Cantoni. Considerata la rilevanza nazionale di un’applicazione sistematica di tale obbligo, la Confederazione ha accolto la richiesta dei Cantoni e intende partecipare ai costi di controllo. Una sua partecipazione finanziaria presuppone però una base legale. Per la fase iniziale di attuazione dell’obbligo di annunciare i posti vacanti (dal 1° luglio 2018 al 31 dicembre 2019) non esiste una base legale e non è pertanto possibile una partecipazione finanziaria da parte della Confederazione.

La nuova legge, il cui disegno è stato ora adottato dal Consiglio federale e sottoposto per approvazione al Parlamento, dovrebbe entrare in vigore il 1° gennaio 2020. Al Consiglio federale va inoltre attribuita la competenza di emanare disposizioni esecutive sul tipo e sulla portata dei controlli. La Conferenza dei Direttori Cantonali dell’Economia pubblica (CDEP) e l’Associazione degli uffici svizzeri del lavoro raccoglieranno esperienze nei Cantoni sull’attuazione dell’obbligo di annunciare i posti vacanti e sul controllo del suo rispetto. Su tale base il DEFR (SECO) elaborerà entro il primo semestre 2019 un piano e un progetto di ordinanza, che idealmente dovrebbe entrare in vigore il 1° gennaio 2020, contemporaneamente alla legge. In tale ambito si dovrà tener conto delle molteplici modalità di controllo esistenti e della concorrenza che ne deriva al fine di trovare le migliori soluzioni.

In virtù dell’obbligo di annunciare i posti vacanti, i datori di lavoro sono tenuti a segnalare agli uffici regionali di collocamento (URC) i posti vacanti nei generi di professioni in cui il tasso di disoccupazione è di almeno l’8 per cento (5 per cento dal 2020), prima di pubblicarli su altre piattaforme. Durante cinque giorni feriali le persone in cerca d’impiego iscritte presso un URC hanno un accesso esclusivo ai posti annunciati. Beneficiano così di un vantaggio in confronto a tutti gli altri candidati perché possono informarsi e candidarsi in anticipo. Lo scopo dell’obbligo di annunciare i posti vacanti è di valorizzare meglio il potenziale di manodopera locale.

Fonte: DEFR

A quest’argomento sono stati dedicati due Networking Business Breakfast che hanno affrontato la tematica nel mese di giugno e a novembre. Inoltre il Servizio Giuridico della Cc-Ti è volentieri a disposizione dei soci per consulenze diverse.