Il potere dell’empatia

Cos’è l’empatia

L’empatia è la capacità di comprendere lo stato d’animo, i comportamenti e le emozioni altrui. È un’abilità sociale di fondamentale importanza ed è uno dei principali strumenti per una comunicazione interpersonale efficace e gratificante.
Daniel Goleman (psicologo, autore e giornalista scientifico, si è affermato come una figura di rilievo nel campo dell’intelligenza emotiva) ci dice che in ogni tipo di rapporto la radice dell’interesse sta nel riuscire ad entrare in sintonia emozionale. Le emozioni vengono però raramente verbalizzate, soprattutto in ambito professionale, ed è qui che entra in gioco l’empatia. Questa competenza ci permette di comprendere meglio le emozioni toccate decodificando sia i messaggi verbali che quelli emessi dai canali di comunicazione non verbali. Riuscire ad essere empatici facilita l’accettazione delle diversità, migliora la comunicazione, rafforza l’autostima, migliora i rapporti interpersonali e ci spinge a seguire alcuni principi morali come, ad esempio, intervenire a favore di una persona in difficoltà.

I vantaggi dell’empatia per il business

Le aziende e le organizzazioni sono formate da persone, per questo motivo diventa importante sviluppare l’empatia anche in questi contesti e a tutti i livelli, permettendo la crescita personale dei collaboratori ma anche di migliorare le relazioni tra colleghi, con i superiori o con clienti e fornitori. In altre parole, in un’organizzazione empatica vengono generate relazioni più solide, oltre a una maggiore e migliore collaborazione, e si potrà osservare un aumento della produttività. Sempre secondo Goleman le organizzazioni intelligenti a livello emotivo hanno maggiore chiarezza nei valori e nella missione aziendale gettando così le basi di una cultura organizzativa positiva e veicolando un’immagine chiara e precisa che riesce a distinguersi sul mercato.
Ricapitolando, coltivare l’empatia in azienda significa: creare un ambiente di lavoro positivo, facilitare la libertà di espressione di tutti i lavoratori, sviluppare migliori relazioni interne facendo sentire tutti ascoltati, compresi e rispettati, favorire la collaborazione e la gestione dei conflitti ottenendo migliori risultati di business.

L’empatia si può imparare

Molti credono che l’empatia sia qualcosa di innato. È pur vero che ci sono persone più portate perché possiedono delle capacità di intelligenza emotiva naturali, questo però non significa che non si possa apprendere. Gli studi hanno dimostrato che le competenze empatiche, come del resto tutte le competenze, possono essere apprese, a patto che ne si conoscano e comprendano le componenti e le si possano poi mettere in pratica.
Un’impresa che propone ai lavoratori di formarsi sul tema dell’empatia e riesce a metterla in pratica e quindi allenarla quotidianamente, permetterà ad ogni membro di un team di diventare un elemento importante della squadra che saprà lavorare in sintonia con il resto dei membri. Un gruppo di lavoro così formato sarà in grado di risolvere più rapidamente qualsiasi problema, aumenterà la sua efficacia e porterà proposte innovative. Individualmente ogni membro affinerà queste capacità che diventeranno parte integrante della sua professionalità. Si avrà così a che fare con persone capaci di rispettare le idee altrui, capaci di ascoltare punti di vista diversi ma anche di esprimere la propria opinione.
Nella realtà lavorativa questo si tradurrà in un aumento della collaborazione tra colleghi e si moltiplicheranno gli scambi produttivi.
I responsabili di team, se formati sull’empatia, saranno più efficaci nella gestione delle relazioni con i collaboratori, e non solo: sapranno accogliere i feedback e integrarli nei processi aziendali nell’ottica del miglioramento continuo.
Offrire ai lavoratori gli strumenti adeguati per poter sviluppare l’empatia risulta essere una scelta vincente a tutti i livelli.

I leader empatici

Come sappiamo i leader sono fondamentali nel creare una cultura aziendale positiva. Questo vale anche per l’empatia. Una delle cinque componenti chiave dell’intelligenza emotiva, sempre secondo Goleman, è proprio la leadership empatica. I leader emotivamente intelligenti sono più efficaci perché sanno riconoscere i sentimenti e le esigenze dei loro collaboratori e infondono loro un senso di fiducia. Promuovono relazioni più forti all’interno del team, favoriscono senso di appartenenza e motivazione. Tutto questo si traduce in una maggiore soddisfazione professionale e nell’aumento del benessere dei dipendenti.

Empatia al lavoro: non solo parole ma azioni

Concretamente quindi come può un’organizzazione sviluppare l’intelligenza emozionale?
La risposta spontanea è: attraverso la consulenza e la formazione. Vediamo più nel dettaglio cosa si intende. Per prima cosa offrire una formazione mirata ai collaboratori, partendo dai vertici, per far crescere competenza e consapevolezza su questo tema all’interno dell’organizzazione.
Occorrono poi delle azioni concrete da implementare in azienda, per questo la collaborazione di uno specialista che sappia consigliare le azioni da intraprendere e che aiuti a monitorare e tracciare l’efficacia di quanto messo in atto è auspicabile.
Una volta appresa questa competenza sarebbe opportuno coinvolgere i collaboratori e trovare il modo di mettere in pratica quanto acquisito introducendo piccoli cambiamenti nella quotidianità lavorativa. Ad esempio, sviluppando una cultura del feedback, utilizzando l’ascolto empatico e accertandosi di dare seguito a quanto emerso.

Si potrebbe anche realizzare un progetto di sviluppo condiviso, con attività volte a coltivare le relazioni all’interno dell’impresa. Anche in questo caso occorre coinvolgere il personale, tenendo sempre presente la necessità di misurare l’efficacia degli interventi effettuati, di condividere i risultati e di discutere insieme sui possibili miglioramenti.
I responsabili potrebbero elaborare con ogni collaboratore dei piani di sviluppo personale, valorizzandone i meriti, indagando sulle loro aspirazioni e sostenendoli nel cambiamento. Una pratica ancora poco utilizzata in Ticino e che mi sta particolarmente a cuore è la cultura dell’errore. È una preziosa risorsa di apprendimento e miglioramento continuo personale e di tutto il team che, per essere messa in pratica in maniera efficace, deve essere sostenuta dall’empatia.
Un altro punto critico in molte realtà aziendali è la comunicazione. Spesso c’è un divario importante tra quanto ci si sforza di mettere in atto per favorire la comunicazione e quanto viene recepito. Rivedere dal punto di vista empatico i processi comunicativi (come, ad esempio, le riunioni) può dare risultati sorprendenti.

In conclusione

Le aziende a volte sottovalutano l’importanza e l’impatto dell’intelligenza emotiva sul luogo di lavoro. Diversi studi hanno dimostrato che in ogni organizzazione ci sono regole non esplicitate che guidano i collaboratori e che vengono trasmesse inconsciamente. Essi sanno esattamente cosa possono o non possono esprimere
sul posto di lavoro e agiscono di conseguenza.
Per questo è estremamente importante che le imprese misurino il livello di empatia al loro interno. Purtroppo, gli strumenti standard che vengono normalmente utilizzati per le valutazioni aziendali non sono adatti allo scopo. Per questo motivo le aziende che valutano la loro empatia e sviluppano l’intelligenza emotiva sono ancora poche.
Riuscire ad instaurare una comunicazione interna più aperta aiuta a considerare tutti gli aspetti degli eventuali problemi e a trovare soluzioni migliori e innovative. Questo è però possibile unicamente se il personale si sente abbastanza libero di dire quello che pensa, senza paura di ritorsioni. Spesso tra quello che pensano i vertici aziendali e quello che percepiscono i collaboratori c’è un divario che non viene percepito o considerato. Troviamo quindi la dirigenza convinta che il personale possa dire liberamente la sua opinione mentre i collaboratori non si sentono al sicuro e per questo non esprimono il loro parere. Da qui l’importanza di costruire e coltivare relazioni empatiche.
Ricorrendo all’aiuto di un consulente preparato e dando ai propri collaboratori la possibilità di formarsi, ogni azienda o organizzazione può sviluppare l’intelligenza emozionale al proprio interno.


Articolo a cura di Monica Garbani-Nerini, Formatrice, consulente e Chief Happiness Officer

Intelligenza artificiale e mondo del lavoro: una sfida per le imprese

Il termine “Intelligenza Artificiale (IA)” è oggi sulla bocca di tutti

Pur essendo oltre 50 anni che se ne parla, sono stati i più recenti progressi nella potenza dei computer, la disponibilità e la capacità di analizzare enormi quantità di dati e lo sviluppo di nuovi e sempre più complessi algoritmi, ad aver fatto fare balzi in avanti giganteschi all’IA.

Balzi avanti talmente dirompenti che oggi i Governi di tutto il mondo discutono di come “gestire” questa tecnologia e, soprattutto, come stabilire delle norme che ne regolino l’applicazione ed il funzionamento garantendo i diritti fondamentali dell’individuo i cui dati sono coinvolti nei processi.

Con IA si definisce “l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività”. In altre parole, l’IA è una tecnologia che simula i processi dell’intelligenza umana attraverso la creazione e l’applicazione di algoritmi (sequenza finita di operazioni da svolgere per risolvere un problema).

L’applicazione dell’IA nel mondo del lavoro non è fantascienza ma ormai realtà. Il mondo digitale ha visto emergere nuove professioni inesistenti fino a pochi anni fa ma anche l’incremento di lavoratori autonomi che offrono servizi tramite piattaforme o applicazioni mobili che utilizzano l’IA basandosi su algoritmi predefiniti. Far queste citiamo Uber, Deliveroo o Airnbnb.

L’IA non tocca solo la “forma” del lavoro ma ne influenza e stravolge anche la sostanza, andando a condizionarne le strutture di funzionamento ed i processi più profondi.
Ormai da tempo l’IA è parte integrante dei programmi di recruiting utilizzati dalle aziende per la selezione del personale. Significa che sempre più aziende delegano alle macchine la gestione dei colloqui di selezione e di conseguenza la scelta dei collaboratori. Tali sistemi riposano su un sistema di presa di “decisione automatizzata” e sono altresì utilizzati nella sorveglianza e nella valutazione del personale. Questo determina il fatto che l’IA non interviene solo nelle procedure di selezione ma anche nella valutazione dei collaboratori e, in ultima analisi, può determinare eventuali collaboratori non più idonei a svolgere il lavoro attribuitogli.

Un altro esempio. Oggi l’IA è in grado di redigere agilmente e in maniera autonomia testi anche complessi, la piattaforma più famosa in questo ambito è senz’altro Chat GPT (Generative Pretrained Transformer). Applicando questa capacità alla casella mail di una persona, l’IA è in grado, in brevissimo tempo, di sostituirla. L’IA è in grado di leggere e comprendere le mail in entrata e in uscita. Può rispondere simulando lo stile di chi scrive, il suo modo di ragionare, il suo atteggiamento e addirittura la sua fantasia. L’interlocutore, artificiale o umano o che sia, non si accorgerà della sostituzione.

Questa tecnologia specifica, sviluppata ad esempio da Microsoft, è già in uso in numerose aziende, soprattutto americane, dove l’IA si occupa della gestione delle mail e di tutta una serie di processi aziendali un tempo appannaggio degli uomini e oggi sempre più delegati ai computer.

Se l’IA costituisce un’importante opportunità di sviluppo, non mancano i rischi ad essa connessi. In particolare, l’utilizzo improprio dell’IA potrebbe comportare rischi anche gravi. L’Unione Europea parla espressamente del rischio di manipolare il comportamento delle persone, violandone, di fatto, i diritti fondamentali.

Proprio allo scopo di definire e contenere i potenziali rischi dell’IA, la Commissione Europea ha stabilito delle linee guida e dei limiti chiari: i sistemi di IA devono essere “sicuri, trasparenti, tracciabili, non discriminatori e rispettosi dell’ambiente”. Inoltre, è esplicito che la supervisione deve essere affidata a delle persone e non a degli automi. Dunque, non può essere l’IA a controllare l’IA.
Nelle scorse settimane, il Consiglio e il Parlamento europeo sono riusciti a trovare un’intesa su quello che sarà il contenuto del primo atto normativo che regolamenterà l’utilizzo dell’IA (Regolamento europeo sull’IA), il quale pone le basi per un utilizzo dell’IA sicuro e rispettoso dei diritti umani.

La Svizzera, come centro scientifico dello sviluppo dell’IA, seppur con un approccio moderato, vuole contribuire all’elaborazione di questo quadro normativo internazionale che consenta di sfruttare le opportunità offerte dall’IA e di affrontare in modo mirato le sfide che essa pone.

In attesa di norme che definiscano in modo più concreto l’utilizzo dell’IA, ci si chiede in che modo sia attualmente regolamentato l’utilizzo dell’IA all’interno dei rapporti professionali e in che misura i diritti fondamentali dei dipendenti siano tutelati.

Il punto centrale che permette da subito di definire delle regole è riconoscere che le tecnologie che si basano sull’IA utilizzano i dati personali degli individui e dunque rientrano indubbiamente nell’ambito del “trattamento dei dati personali”.
Il trattamento di dati è regolamentato in Svizzera dalla Legge sulla Protezione dei dati (la cui modifica sostanziale è entrata in vigore il 1° settembre 2023) e, per quanto riguarda il rapporto di lavoro, dall’art. 328b del Codice delle Obbligazioni che circoscrive la cerchia di dati che il datore di lavoro può utilizzare nell’ambito del rapporto di lavoro. Questa norma prevede infatti che il datore di lavoro è legittimato ad utilizzare (trattare) le informazioni (dati) dei dipendenti solo se si riferiscono all’idoneità lavorativa o se necessari all’esecuzione del contratto.
Un utilizzo, oltre questo scopo sarebbe illecito e comporterebbe una violazione della personalità del dipendente (diritto inalienabile e fondamentale dello stesso).
Questi principi sono validi anche nell’ambito dell’utilizzo dell’IA e, anzi, ne ampliano il campo d’applicazione.

Nel concreto, come per tutti i processi, il datore di lavoro è autorizzato ad utilizzare le tecnologie basate sull’IA solo ed esclusivamente se lo scopo ricercato è quello indicato nella norma citata.
È primordiale che nell’utilizzo delle tecnologie “permesse” il datore di lavoro salvaguardi la personalità del dipendente, applicando altresì in modo rigoroso i principi previsti dalla LPD. In particolare: liceità, informazione, consenso esplicito (dove necessario), buona fede, esattezza, finalità, trasparenza, proporzionalità e sicurezza.
Per quanto concerne il caso concreto delle “decisioni individuali automatizzate” (quali i casi di selezione di dipendenti per l’assunzione, la promozione o il licenziamento nel rapporto di lavoro), l’art. 21 LPD accorda a colui i cui dati sono oggetto di trattamento (in questo caso al dipendente) il diritto di ottenere un riesame della decisione da parte di una persona fisica (questa prerogativa può essere esclusa in caso di consenso preventivo e completo alla presa di decisione automatizzata).
È opportuno osservare che vi sono altre norme (sovente trascurate) che devono essere considerate nell’applicazione dell’IA al rapporto di lavoro, in particolare la Legge sul lavoro e la Legge sulla Partecipazione. Per ogni singolo caso, vi è una declinazione specifica dei principi citati che va discussa e delineata, ma vi è sempre un denominatore comune: un obbligo di informazione chiaro e completo.

Per approfondire il tema, circoscrivere e definire le norme applicabili a situazioni concrete durante il rapporto di lavoro, rinviamo al corso: “L’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale nel mondo del lavoro: quali obblighi per il datore di lavoro?” che si terrà il prossimo 6 maggio 2024 online.

Dettagli e iscrizioni:
https://www.cc-ti.ch/calendario/lutilizzo-dellintelligenza-artificiale-nel-mondo-del-lavoro-quali-obblighi-per-il-datore-di-lavoro-online/


Articolo a cura di Avv. Roberta Bazzana-Marcoli, titolare RB Legal

Se una zebra incontra un ippopotamo

In occasione dello svolgimento di riunioni, siano esse di gruppo o di team di lavoro, si incontrano individui e si constatano aspetti rivelatori e sovente sorprendenti.

Molte persone hanno comportamenti e attitudini molto differenti, se si relazionano a livello personale con un unico interlocutore oppure se sono inseriti in un gruppo. Questi cambiamenti possono creare difficoltà e imprevisti nella gestione delle riunioni.

Kurt Zadek Lewin è considerato il maggiore studioso delle relazioni all’interno di un gruppo psico-sociale. Il suo approccio si basa sulla teoria della Gestalt, per cui si valuta l’insieme differente, nuovo o altro (e non maggiore quantitativamente né migliore qualitativamente) rispetto alla somma delle singole parti. L’individuo, quindi, si colloca al centro di un campo di forze ambientali che lo modificano e che, grazie a lui, mutano a loro volta.
Il taylorismo, il fordismo e il toyotismo, hanno portato al boom della produzione, razionalizzando grazie anche all’ottimizzazione continua. Rischiano di fare dimenticare che il gruppo ha degli aspetti emotivi cruciali. Lo studioso Le Bon (1985), fondatore della “psicologia delle folle”, e Freud (1921), consideravano il gruppo come sede di istinti emotivi, inconsci e tribali. Per Freud il gruppo portava ad una sorta di regressione delle persone.
Ciò porta a porsi questa domanda: “perché le emozioni in azienda sono importanti?” Perché le emozioni sono un grande sistema motivante (emozione ha anche la stessa radice etimologica di motivazione).
Questi cambiamenti comportamentali possano avere molte cause: l’uso della riunione quale arena per esprimere impulsi inconsci e a volte repressi, l’incertezza nella formulazione degli obiettivi, le modalità comunicative non condivise, gli spazi e l’ascolto concesso in modo arbitrario, la mancanza di ricerca della condivisione, la gestione errata dei feedback e altro ancora.
Per l’analisi e la gestione di un team e delle sue forme operative, come ad esempio le riunioni, si rivela utile identificare in quale momento del ciclo di vita del gruppo ci si muove.

Il periodo della formazione del team è il momento in cui il gruppo interagisce per le prime volte. Se i suoi membri stanno lavorando a un progetto, possono allinearsi sugli obiettivi o definire il proprio piano di progetto. In questa fase di sviluppo, i membri del gruppo si comportano indipendentemente l’uno dall’altro: la maggior parte delle loro conversazioni sono razionali, ma emotivamente distanti.

La seconda fase di sviluppo inizia sovente con un primo disaccordo di qualche tipo. Tale disaccordo funge da catalizzatore per i membri del gruppo affinché condividano più attivamente e focalizzano le proprie opinioni e siano concreti, trasparenti e onesti tra di loro. Questa onestà fa sì che inizino a fidarsi a vicenda.

Una volta che il gruppo ha risolto i primi disaccordi o conflitti iniziali ed “esplorativi”, le interazioni al suo interno diventano cooperative e possibilmente amichevoli. Durante questa fase, il gruppo inizierà a stabilire delle norme, anche se non discute su di esse né le registra in qualche modo: viene data la priorità alla coesione del gruppo. In effetti, il pericolo di questo momento è che i membri del gruppo siano troppo riluttanti a condividere le proprie opinioni, cosa che può portare all’immobilismo, oppure che alcuni partecipanti si arrocchino su ruoli e comportamenti stereotipati: il lupo, la zebra, l’ippopotamo e il rinoceronte (vedi box sotto).

Il periodo detto della prestazione è quando il gruppo dà il meglio di sé. I membri sono in grado di agire in modo indipendente o affrontare la risoluzione dei problemi in gruppo. Invece di preoccuparsi di come gli altri membri li percepiscono, i singoli membri si concentrano sugli obiettivi del gruppo e le soluzioni concrete.

La quinta e ultima fase è quella di sospensione o del lutto, per descrivere la separazione del gruppo dovuta, ad esempio, al completamento del progetto. Se i membri lavoravano bene insieme, possono provare un senso di perdita al momento dello scioglimento del gruppo.

Per evitare i più comuni errori nella gestione delle riunioni occorre procedere con metodo ed avere quindi un approccio strutturato sia nella fase di preparazione che di conduzione di esse.
I passaggi essenziali devono essere i seguenti:

  • Leadership, che si concretizza con una chiara focalizzazione sull’innovazione e sulla scelta di una visione del futuro motivante, attitudine all’ascolto e alla delega, gestione del Sé efficace, non temere i conflitti e capacità di prendersi cura degli altri.
  • Individuare le principali finalità di ciascun tipo diverso di riunione. Pochi obiettivi, sintetici, concreti e raggiungibili.
  • Predisporre una traccia di quanto verrà detto o proposto, prevedere scenari alternativi.
  • Prevedere le possibili obiezioni ed inglobare le risposte nel materiale che verrà presentato.
  • In fase di conduzione tenere presente le esigenze delle diverse tipologie di partecipanti.
    Tenere conto della propria emotività.
  • Essere determinati nel ricercare le soluzioni e non focalizzarsi sulla continua analisi dei problemi.
  • Essere aperti e disponibili nei confronti delle persone.
  • Verificare durante l’incontro il livello di comprensione di ciò che viene detto.
  • Monitorare il livello di responsabilizzazione delle persone rispetto alle decisioni prese.

Per avere successo bisogna saper riconoscerne i potenziali e non temere i rischi.

Tipi di personalità da evitare in un meeting strategico

Nel libro “The essential guide to prioritizazion by product board” (2021), vi è un grafico – in una versione adattata da Jeroen Kraaijenbrink e Timothy Timur Tiryaki, consulenti di strategia e leadership –, in cui vengono delineati quattro tipi di personalità a cui sono attribuite caratteristiche peculiari da “evitare” per la conduzione ottimale e, dunque, buona riuscita di una riunione.
Non solo: queste personalità, attraverso i loro atteggiamenti, possono ostacolare le dinamiche che si instaurano all’interno del gruppo nel portare a termine un progetto, un processo o una collaborazione.
Originariamente conosciuti come “gli animali pericolosi nel management”, sono identificati quattro tipi di figure: la zebra, l’ippopotamo, il lupo e il rinoceronte. Ecco cosa significano e come affrontarli nelle riunioni strategiche.
Acquisendo queste conoscenze, potrebbe essere più facile gestire la conduzione di una riunione, affrontando le personalità in modo un po’ più efficace.

GEN Z: minaccia o opportunità per le aziende?

La Gen Z viene descritta come la generazione che richiederà alle organizzazioni il maggiore sforzo di adattamento alle sue peculiarità. Come affrontare questo processo di sviluppo organizzativo e quali strategie adottare?

La Gen Z è composta dai nati tra il 1996 e il 2010 circa ed è la prima generazione di nativi digitali. Desidera sentirsi inclusa, essere parte integrante dell’organizzazione per cui opera, valorizzata e forse addirittura capita nel profondo. Ambisce ad essere seguita da manager interessati al loro sviluppo professionale. Mostra una preferenza per ruoli che permettono di esplorare e ampliare una varietà di competenze rispetto a un lavoro che si focalizza su un particolare bagaglio di competenze. Questo, peraltro, è in linea con la richiesta sempre maggiore da parte del mercato del lavoro di competenze trasversali.

Ogni generazione ha la sua prospettiva rispetto al mondo del lavoro. Tendenzialmente la Gen Z predilige il lavoro ibrido o remoto, con la possibilità di essere mobile e lavorare da luoghi diversi, si aspetta di collaborare con un’organizzazione tecnologicamente innovativa, chiede maggiormente una remunerazione equa, verosimilmente darà una spinta verso la diffusione della settimana lavorativa di quattro giorni come realtà operativa e la gestione agile delle organizzazioni.
Avere spazio e voce per esprimersi è vitale per la Gen Z, che ama condividere idee e opinioni, sperimentare, agire in un ambiente psicologicamente sicuro, dove errori e fallimenti vengono “celebrati” come strumento di apprendimento. Predilige l’assegnazione di progetti stimolanti e responsabilità significative
come opportunità di mettere alla prova e mostrare le proprie capacità. Si sente soffocata dal micromanagement. Apprezza ricevere a intervalli regolari feedback sulla performance, per capire come migliorare e ricevere supporto per farlo. Ambisce al coinvolgimento nelle decisioni aziendali e a sentirsi parte integrante dell’organizzazione.

Generalizzando, la Gen Z è stata educata a essere istantaneamente gratificata, premiata soprattutto per la partecipazione più che meritocraticamente per avere dimostrato una perfomance eccellente. Viene descritta come impaziente, con una durata piuttosto breve della capacità di attenzione, abituata a fare sentire la propria voce, si sente più competente delle precedenti generazioni e non si fa scrupoli a comunicarlo. Talvolta pare denotare una mancanza di disciplina e di un’etica lavorativa – quell’etica orientata all’impegno che premia sforzi e risultati tanto famigliare a precedenti generazioni – e quindi risulta facilmente frustrata se non vede risultati immediati. Non vuole perdere tempo ad imparare ciò che non le sembra utile. Questo ha il “pregio” di minimizzare il tempo d’apprendimento, può delineare un grande focus, un forte orientamento ai compiti da portare a termine, ma comporta il rischio di offuscare una visione d’insieme più ampia.

Spesso questa generazione viene percepita come la più sfidante da gestire, come una vera e propria minaccia per il modus operandi organizzativo in essere. C’è frustrazione da parte dei datori di lavoro rispetto alle esigenze della Gen Z, di conseguenza preferiscono non assumere i nativi digitali o si sentono messi con le spalle al muro e quindi praticamente obbligati ad accettare le loro condizioni. Gioca un ruolo determinante in questa dinamica poco funzionale, la difficoltà a reclutare forza lavoro qualificata in alcuni settori.

Si sconsiglia alle organizzazioni un’accettazione unilaterale e passiva delle aspettative portate avanti dalla Gen Z. È invece necessario mettere in atto un lavoro di co-creazione, in cui comprendere le rispettive esigenze, su cui basare le fondamenta di un’integrazione di successo della Gen Z nel mondo del lavoro.

La sensibilità della Gen Z per tematiche quali l’impatto sociale e ambientale, la salute mentale, la flessibilità, l’inclinazione al dialogo e a prendere decisioni in tutte le sfere della vita facendo riferimento al loro sistema valoriale, può essere sfruttata come leva per produrre cambiamenti di paradigma sostenibili all’interno delle organizzazioni a beneficio di tutte le generazioni attive nel mondo del lavoro.

A livello aziendale, metaforicamente parlando, sarebbe utile scattare una fotografia dello status quo, definire dove si vuole andare, cosa bisogna cambiare e come. È necessario che visione e missione aziendale siano chiare e l’operatività declinata su questi principi – ci si può fare accompagnare da consulenti organizzativi che con la loro expertise facilitano questa tipologia di processi e trasformazioni. La Gen Z aspira a un lavoro all’interno di un’organizzazione che abbia un impatto positivo sulla società. Lo scopo e i valori delle organizzazioni devono quindi essere comunicati con trasparenza e messe al centro, a partire dalle attività per attrarre talenti.

Per gestire efficacemente i collaboratori nativi digitali, è necessario adottare un approccio innovativo verso la tecnologia nella propria modalità gestionale. La Gen Z è stata esposta a comunicazione e apprendimento supportate dalla tecnologia e desidera avere a disposizione strumenti per velocizzare e rendere più efficace il lavoro: questo permette di dedicare meno tempo al lavoro, dando più spazio alla vita privata.
I Gen Z sono motivati da un lavoro che considerano significativo e gravitano attorno alle organizzazioni che sostengono i loro principi. Trasmettere loro in modo efficace gli obiettivi dell’organizzazione serve a far emergere il loro scopo individuale e a stabilire un legame profondo e fruttuoso tra loro, i ruoli e l’azienda.

Dialogando con i nativi digitali, è utile illustrare aspettative chiare nei loro confronti, percorsi di carriera e sviluppo ben definiti e come i loro contributi potranno avere un impatto positivo sulla missione dell’organizzazione. Guidare i rappresentanti della Gen Z a trovare uno scopo nel loro lavoro aumenta il loro impegno, la loro motivazione e la loro dedizione, spingendoli verso le loro aspirazioni.
Non facendolo, si corre il rischio che esternalizzino la loro ricerca di uno scopo, che siano poco presenti e performanti sul posto di lavoro e decidano, senza troppe remore, di lasciarlo.

Un rischio reale anche in Svizzera dove nel 2022 secondo l’Ufficio federale di statistica la Gen Z rappresentava il 13,4% della popolazione attiva?
Recenti dati di un’indagine Randstad evidenziano che il 32% della Gen Z in Svizzera non si sente compreso dal proprio datore di lavoro. Inoltre, secondo la Swiss Gen Z and Millenial Survey 2023 condotta da Deloitte, il fattore principale per cui la Gen Z ha deciso di licenziarsi è la considerazione del lavoro nell’attuale ruolo come non appagante o significativo. Questo motivo è seguito dalla percepita mancanza di una retribuzione competitiva, pur essendo quest’ultima in prima posizione nella media europea.

Un allineamento tra sistema valoriale individuale e organizzativo è cruciale per una collaborazione di successo, indipendentemente dal discorso generazionale. Una visione che potrebbe sembrare romantica, viene però supportata da dati e fatti. I candidati assunti da un’azienda, in effetti, oltre ad essere ben qualificati, è opportuno che mostrino un elevato adattamento persona/ruolo e persona/cultura organizzativa. Il matching è possibile farlo con l’implementazione di strumenti dedicati e intensifica la fidelizzazione dei dipendenti. La riduzione del turnover non solo migliora morale e performance, ma contribuisce anche al risultato economico e porta considerevoli risparmi di costi associati alla sostituzione di forza lavoro.
I successi portano grande soddisfazione quando, durante il percorso per raggiungere i traguardi prefissati, i comportamenti messi in atto onorano i propri valori. E se questi non collidono con quelli organizzativi, il talento “fiorisce” proprio grazie all’allineamento tra il sistema valoriale individuale e quello aziendale.
Il tutto porta benessere in senso più ampio, sia a livello individuale sia con effetti benefici tangibili per l’organizzazione, misurabili spesso in un migliore ritorno finanziario per l’azienda.

Nell’accompagnamento individuale, finalizzato allo sviluppo della leadership o di altre competenze trasversali, la figura del coach professionista supporta generalisti, specialisti e manager nel miglioramento della loro relazione con sé stessi e gli altri: un viaggio che inizia spesso dalla (ri-)scoperta dei propri valori come principi guida nelle scelte di vita. Decidere di onorare i propri valori, attraverso il modo di essere e di agire, permette di provare maggiore soddisfazione per gli obiettivi raggiunti e una maggiore consapevolezza del proprio impatto sul mondo in cui si opera.

Fare leva sulle caratteristiche della Gen Z rispetto alla ricerca di benessere e significato sul posto di lavoro, potrebbe dimostrarsi una grande opportunità che offrirà un vantaggio competitivo alle organizzazioni che la coglieranno.


Articolo a cura di Romina Henle, Consulente organizzativa e coach professionista, titolare di Dance In Your Essence

Quando il galateo entra in azienda

Nel 2023 il galateo fa ancora la differenza? L’etichetta nel contesto aziendale risulta essere un elemento preponderante, sia in termini di organizzazione come pure di clima.

Le “buone maniere” sono un aspetto fondamentale per creare un ambiente di lavoro positivo e produttivo. In particolare, nel contesto dell’ufficio, il galateo gioca un ruolo essenziale nella promozione di relazioni professionali efficaci e nella costruzione di un clima lavorativo armonioso. Rappresenta, inoltre, le norme sociali che regolano le interazioni tra colleghi e svolgono un ruolo cruciale nell’instaurare un senso di rispetto reciproco.

Questi assunti valgono all’interno di ogni azienda, come pure nelle interazioni che si intrecciano periodicamente nel mondo business, sia esso locale, nazionale o internazionale. Fare business non è mai facile, ma farlo con culture diverse dalla nostra lo è ancora di più. Per condurre una buona trattativa e, in generale creare un buon rapporto con un cliente di cultura diversa dalla nostra, bisogna tenere conto di molte variabili – anche differenti da quelle a cui pensiamo –, che nulla hanno a che vedere con il progetto tecnico ed economico in gioco (abbiamo già pubblicato due approfondimenti su questo tema: www.cc-ti.ch/cross-culture e www.cc-ti.ch/tips-di-business-etiquette).

Quali gli ingredienti per il successo professionale? Le parole chiave sono comunicazione e rispetto.

Le buone maniere ci permettono di vivere meglio in ogni ambiente sociale. E con due termini quali ‘comunicazione’ e ‘rispetto’ è possibile riassumere una serie di dettami che potrebbero andare a comporre una “ipotetica” lista che, insieme ad un pizzico di buon senso, permetterebbero una buona conciliazione lavorativa.

L’aspetto personale e la propria attitudine sono essenziali: vestirsi in modo appropriato, adattando l’abbigliamento al contesto aziendale, e – forse è scontato dirlo – una buona igiene personale, un sorriso e un saluto cordiale possono fare la differenza nell’interazione con i colleghi, completando il quadro; creando un clima accogliente e positivo.

La comunicazione è cruciale. Parlare in modo rispettoso ed evitare toni eccessivamente informali o offensivi è essenziale. Inoltre, è importante ascoltare attivamente i colleghi durante le riunioni e le conversazioni, mostrando interesse e rispetto per le loro opinioni. La gestione del tempo e degli spazi condivisi è altrettanto rilevante, con ordine e pulizia.
Capitolo a parte quello della privacy e della confidenzialità delle informazioni, sancita anche a livello legale.

Gestire in modo costruttivo i conflitti e le divergenze di opinioni è importante per mantenere un clima di collaborazione all’interno del team (a tal proposito è utile ricordare i corsi di formazione puntuale che la Cc-Ti eroga nell’ambito della gestione di conflitti e delle HR – www.cc-ti.ch/ formazione-risorse-umane).

Il galateo in ufficio rappresenta un insieme di comportamenti e attitudini che contribuiscono a mantenere un creare un ambiente di lavoro positivo e produttivo.

FOCUS
Eclissarsi con stile da eventi e manifestazioni

Probabilmente vi siete già trovati una situazione simile: siete stati invitati a un pranzo o una cena di lavoro e avete l’intenzione di congedarvi dopo tre o quattro ore al massimo. Tuttavia, l’evento si protrae molto più a lungo di quanto avreste inizialmente immaginato e, di conseguenza, vi trovate bloccati: cosa fare? Andarsene o rimanere?

Lo stigma della maleducazione

Andarsene prima della fine è più facile a dirsi che a farsi. Si rischia di apparire maleducati, soprattutto a fronte di inviti e ospiti importati. A maggior ragione se si abbandona una tavola rotonda: una sedia vuota desterà ancor più l’attenzione. Come agire? L’importante è non “scappare”. Raggiungete il padrone di casa e spiegate brevemente il motivo per il quale dovete abbandonare l’evento.
Meglio sarebbe anticipare questa conversazione in modo da chiarirsi quanto prima. Ringraziate per l’invito e sottolineate il successo rilevato dell’evento, congratulandovi.

Ringraziamenti

Può essere utile scrivere una breve lettera – magari a mano e non con il computer – nei giorni successivi, in cui si ringrazia ancora una volta ribadendo l’ottimo successo dell’evento.

Una questione anche… di tatto

Per declinare un invito occorre tatto: fa sicuramente piacere ricevere un invito, anche se non potremo accettarlo. D’altro canto, in qualità di organizzatore di un evento, può risultare antipatico ricevere un ‘no’ ad un invito appena spedito.
Ecco perché occorre motivare in modo schietto le proprie ragioni qualora si decidesse di declinare un invito, con un lasso di tempo massimo di una settimana. Più si esita, avvicinandosi la data dell’invito, più il rifiuto sarà spiacevole per chi vi ha invitato.

Essere invitati è sempre un onore: questo vale per eventi molto personali, come un compleanno, le nozze d’oro o una cena, ma anche per eventi di networking, di associazioni economiche, cocktail, e vernissage. Ricevere un invito è – in ogni caso – un segno di riconoscimento nei vostri confronti da parte della persona o dell’istituzione che ha scelto di condividere con voi un’occasione d’incontro, attribuendo una particolare rilevanza ad una partecipazione personale.

Ecco, infine, come formulare un rifiuto in termini generali/formali: “Egregio Signor Rossi, grazie per il suo gentile invito. Purtroppo, sarò assente il … (in vacanza, a un seminario fuori sede, ecc.) e non potrò quindi partecipare. Grazie per la sua comprensione! Spero che l’evento sia un successo e mi auguro di rivederla presto. Con i miei più cordiali saluti”.

Per concludere: la cortesia e il rispetto verranno sempre letti e ricevuti come valore aggiunto della vostra persona.


Una decisione certa, nell’incertezza?

Quando non c’è nulla di certo come decidere? Nella confusione esistono delle strategie per sapere in quale momento procedere, prendere tempo per analizzare, mantenere un punto o cambiarlo. In un tempo storico che vede guerre in grado di cambiare gli equilibri in poche ore, anzi secondi, la strategia di compiere scelte più che mai corrette, è imposta dalle contingenze.

Attendere o esitare può produrre conseguenze importanti e vedere finestre di opportunità chiudersi inesorabilmente e velocemente. Ovviamente quando il clima di confusione sovrasta la realtà, decidersi diventa impegnativo, ma non impossibile.

E allora come comportarsi? Pragmaticamente per arrivare a decidere nel migliore dei modi, il nostro approccio deve smettere di essere deterministico e optare per una linea probabilista, e osservare con attenzione come il ventaglio di probabilità potrebbe evolversi. Uscire dalla narrazione bianco o nero e “permettersi” di cambiare idea, porta verso una decisione certamente più pertinente.

Si tratta basare le decisioni come se ci si trovasse davanti a più possibili condotte: una via da seguire in caso di confusione, ma almeno due vie quando la confusione è veramente imponente. La seconda variante promuove l’opportunità fondamentale di poter fare “marcia indietro” e prendere in considerazione “l’altra” alternativa, con uno sforzo relativamente basso e non appena il contesto lo imponga. In altre parole, possiamo affermare che non bisogna seguire semplicemente le nostre intuizioni, ma “testare” le nostre intuizioni.

Siccome siamo inclini a credere a ciò che vogliamo credere, dovremmo guardare agli indizi opposti, proprio quelli in grado di farci eventualmente cambiare idea.

Questa “filosofia” da acquisire si può attuare semplicemente anche all’interno dalla propria impresa, costituendo, in un clima di collaborazione e integrazione, un gruppo di colleghi ai quali ci rivolgiamo con la richiesta di esprimere, in base alle nostre considerazioni generali e puntuali, di trovare punti deboli, difetti o forza. Proprio sul loro riscontro rivalutiamo, quindi, più precisamente la situazione e le sue derivazioni.

In questo modo saremo facilitati nel rivedere i fatti con maggiore flessibilità e testare davvero la nostra intuizione. “Dipanare” il processo in atto aiuta, a poco a poco, a gestire la confusione.

In un contesto geopolitico ed economico instabile, di fronte a sfide complesse e inedite, gestire la propria impresa non può riconoscere posizioni di certezza. Le crisi recenti, pandemia, guerra in Ucraina e i loro effetti collaterali continuamente mutevoli, sono un invito chiaro a mettere in atto tutti gli strumenti nelle nostre disponibilità che possano portarci a prendere le migliori decisioni.

Come Voltaire scriveva già nel 1767 al Re di Prussia, Federico II: “il dubbio non è una sensazione gradevole, ma la certezza è assurda”.

L’atto di fare una scelta cambia il modo in cui ci sentiamo riguardo alle nostre opzioni.

Per approfondire: Prof. IMD di Losanna, Arnaud Chevallier autore di “Strategic Thinking in Complex Problem Solving” – Oxford University Press – e recentemente di “Solvable: A Simple Solution to Complex Problems” coautore Albrecht Enders – Pearson Education Limited –.

Fonte: Testo Fanny Oberson, CVCI, “Demain”, nr. 04.2022, traduzione e adattamento Cc-Ti

Normative diverse in vigore dal 2023

Una panoramica in merito



GUIDA PRATICA PER LE PMI – AGGIORNATA AL 1° GENNAIO 2023

Come valutare la gestione del rischio in una PMI

La gestione del rischio è un importante fattore di successo, che permette alle aziende di raggiungere gli obiettivi prefissati in maniera consapevole, identificando in maniera sistematica e costante rischi ed opportunità.

Intraprendere un’attività imprenditoriale comporta l’assunzione di rischi, i quali potrebbero verificarsi a tutti i livelli della catena della produzione del valore. La capacità dell’imprenditore di successo è appunto quella di sapere tenere monitorati i propri rischi e di conseguenza potersi concentrare sulle attività fondamentali dell’azienda anziché rincorrere le urgenze.
È questo il tema che è stato affrontato nell’evento di networking della Cc-Ti, tenutosi il 7 settembre 2022 presso la Cc-Ti davanti ad una trentina di associati.

È importante comprendere l’esatta definizione di rischio in termini aziendali, infatti questo sostantivo può assumere molteplici accezioni nei più svariati contesti. A livello aziendale per rischio si intende una serie di eventi o di azioni che possono portare ad uno scostamento dagli obiettivi aziendali prefissati, questi possono essere di carattere positivo (up side risk), definiti opportunità, oppure negativi (downside risk), definiti in senso stretto pericoli.

Per “tenere sotto controllo” questi eventi (rischi) è fondamentale conoscerli, ma soprattutto classificarli. È utile a tal fine una categorizzazione in rischi interni, originati da azioni e decisioni interne all’azienda, e rischi esterni, per i quali invece non può essere imputata responsabilità alcuna al management dell’azienda stessa.
Procedendo ad un’ulteriore sotto classificazione dei rischi i rischi interni possono ulteriormente essere suddivisi in rischi derivanti dall’erogazione di prestazioni, rischi economico-finanziari e rischi derivati dalla gestione e organizzazione. Per gestire e controllare i rischi interni, generalmente, è sufficiente attuare misure operative che l’azienda può intraprendere in maniera autonoma. Di fondamentale importanza è la sensibilizzazione e il coinvolgimento del personale riguardo ai rischi che potrebbero ricadere nella loro sfera di competenza e conferire anche a loro responsabilità in merito.

I rischi esterni possono essere a loro volta sotto classificati secondo: rischi di mercato, di concorrenza e congiunturali, rischi tecnologici e legali e rischi ambientali. Non essendo possibile influire in maniera diretta su questa tipologia di rischi, le aziende possono contrastarli modificando la strategia aziendale in considerazione degli stessi, oppure stipulando una copertura assicurativa mirata.

Una gestione professionale dei rischi non si limita ad occuparsi dei rischi assicurabili, ma è un compito strategico dirigenziale di centrale importanza volto ad evitare qualsiasi scostamento dagli obiettivi aziendali stabilendo l’eventuale impatto e quantificando le eventuali conseguenze.
Questo processo avviene nell’ambito della definizione degli obiettivi aziendali, al fine di garantire in tutti i casi la sopravvivenza dell’azienda, garantendone il successo e riducendo i costi di rischio.

La gestione del rischio contribuisce ad incrementare la produttività e migliorare l’efficienza aziendale, facendo sì che i principali rischi cui un’azienda è esposta siano: riconosciuti ed individuati, valutati, affrontati e monitorati in modo mirato.

Nell’ambito della gestione del rischio, una parte importante è il trasferimento alla compagnia assicurativa. Oltre alle coperture standard presenti sul mercato assicurativo, negli ultimi anni vi è stata una grande esigenza per delle soluzioni specifiche. Una di queste è sicuramente l’assicurazione cyber; oggigiorno è più probabile rimanere vittima della criminalità informatica che di un semplice furto con scasso. Negli ultimi dieci anni su internet è raddoppiato anche il numero di reati come le offese e le calunnie.

I criminali sfruttano i timori delle persone per entrare in possesso di dati sensibili e password: milioni di utenti in tutto il mondo lo scorso anno sono stati vittime di phishing o di hacking. A tal riguardo i criminali informatici utilizzano tra l’altro dei mittenti di posta elettronica falsificati, spacciandosi per dipendenti della Posta o dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Basta cliccare sul link di una mail di phishing e i dati sul computer privato o aziendale o del proprio smartphone finiscono per cadere in mani sbagliate. Un attacco informatico comporta, nella migliore delle ipotesi, un notevole dispendio di tempo e denaro, nella peggiore, ingenti costi e stress emotivo.

Un’altra importante soluzione a è l’assicurazione protezione giuridica; le controversie giuridiche sono estenuanti e spesso costose. Eppure, la probabilità di ritrovarsi coinvolti in un contenzioso non è mai stata così alta. Nel 2020 più di una persona su sette è stata trascinata in una causa – e la tendenza è al rialzo. Un’assicurazione di protezione giuridica presta assistenza in caso di questioni e controversie legali e protegge dai rischi finanziari qualora una lite finisca in tribunale.

Commercio comporta sempre un rischio d’impresa e anche la liquidità è sottopressione. Tramite l’assicurazione crediti, se vengono effettuate forniture di merci o prestazioni di servizi in conto aperto, sussiste il rischio che i clienti non saldino le fatture. Un mancato pagamento non solo causa preoccupazioni e seccature nell’attività quotidiana, bensì può anche mettere a rischio la liquidità di un’azienda a lungo termine. L’assicurazione crediti aiuta le aziende ad evitare delle perdite e risarcisce il danno se un committente non paga.


Articolo a cura di Davide Pilotti, AXA, Agente generale esperto in assicurazione, e Stefano Tommaso Pelli, AXA, Risk Consultant.

Illusione o prospettiva?

Settimana lavorativa ridotta a quattro giorni ma con salario invariato, maggiore produttività e tutti felici e contenti. È davvero così? Il tema lanciato in Ticino in occasione del 1° maggio e ripreso con sempre più insistenza dalla parte sindacale anche nelle ultime settimane non è nuovo e la Cc-Ti se ne è già occupata più volte negli scorsi mesi. In Svizzera la discussione ha avuto origine lo scorso anno dopo la pubblicazione di uno studio islandese che magnificava i risultati dell’esperimento della durata di tre anni svolto all’interno dell’amministrazione pubblica. Ecco le riflessioni sul tema del Presidente Cc-Ti Andrea Gehri.

La proposta di ridurre l’orario lavorativo settimanale mantenendo inalterato lo stipendio dei dipendenti è indiscutibilmente una prospettiva allettante basata su buone intenzioni e nobili principi. Nulla da eccepire!

Ma, come spesso accade in situazioni del genere, le buone idee possono rivelarsi spesso non ottimali e illusorie, come ben dicono i francofoni con l’espressione “une fausse bonne idée”. È evidente che il mondo del lavoro ha conosciuto e sta conoscendo profonde trasformazioni, basti pensare allo sviluppo del telelavoro durante il periodo pandemico. Tuttavia, un’attenta analisi della questione della settimana di quattro giorni a salario invariato mette chiaramente in risalto gli aspetti più ostici e l’effettivo costo dell’eventuale provvedimento.

“Risultati sorprendenti” e “successo travolgente” in termini di salute e rendimento, queste le espressioni usate da alcuni ricercatori in merito all’esperimento islandese che ha coinvolto circa 2’500 lavoratori i cui orari d’impiego sono stati ridotti a parità di retribuzione tra il 2015 e il 2019. Esiti positivi, rivisitazione dei modelli esistenti, ecc..

Partiamo da una riflessione che è un fatto. lo studio ha valutato solo il settore pubblico, le cui peculiarità non sono certamente migliori né peggiori dell’economia privata, ma senza dubbio molto, ma molto differenti. Basti solo pensare che il pubblico non è ovviamente confrontato con la logica di mercato e della concorrenza e pertanto il costo del lavoro non rappresenta un criterio di confronto fortemente rilevante.  Quindi poco probante, tanto più, e qui vi è un secondo punto critico, che la struttura economica della repubblica nordica (basata in modo preponderante sulla pesca) difficilmente può fungere da diretto confronto per la Svizzera.

Se è vero che diverse nazioni stanno seguendo la scia di sperimentazioni analoghe, ogni caso va giudicato in maniera individuale. Evitiamo di prendere ad esempio la Francia, che dall’introduzione delle 35 ore settimanali obbligatorie ha dovuto inventarsi artifici legislativi per gestire in modo differente quelle che sono diventate numerose ore supplementari (con costi maggiorati per le aziende e una burocrazia spaventosa). Citiamo la Spagna, che ha adottato il progetto pilota delle 32 ore, ma per incentivare le imprese a parteciparvi lo Stato interviene assumendosi parte dei costi. Non propriamente una idea brillante!

In alcuni Paesi, fra cui anche la Svizzera, la settimana di quattro giorni è stata introdotta da singole aziende o determinate categorie di professioni. Qui sta il punto. Chi può adottare nuovi modelli di lavoro creativi lo fa senza esitare. È il caso di un ufficio di progettazione di software svizzero, sempre citato quale esempio, ma che per la natura della sua attività e del suo prodotto può permettersi una settimana di quattro giorni senza riduzione di salario. Anche perché i margini di guadagno e il valore aggiunto generato lo permettono, aspetti questi non scontati per altri settori economici.

Ipotizzare quindi un obbligo generalizzato è semplicemente fuori dalla realtà economica. Ognuno deve avere la facoltà di decidere, tenendo conto della realtà in cui opera. Le molte considerazioni su benessere, produttività e competizione con datori di lavoro più attrattivi ecc., vanno lasciate alle singole imprese o eventualmente alle categorie. Un diktat statale non avrebbe alcun senso e illuderebbe i lavoratori a pensare che lavorando meno si guadagna di più. Tutt’altro, lavorando meno si spenderebbe di più, senza peraltro averne le necessarie risorse o maggiorate.

Questo non significa assolutamente sminuire l’importanza del fattore salute e benessere sul posto di lavoro. Anzi! È sempre più un fattore di competitività e pragmatismo.

Ma la questione è ben più complessa e delicata di quanto alcuni abbiano interesse a dipingerla e il rovescio della medaglia poco positivo. In sostanza, misure generalizzate non sono applicabili a tutte le realtà professionali e il rischio poi che si vada incontro ad una riduzione dei giorni lavorativi ma non delle ore settimanali complessive è altrettanto elevato. Il già citato esempio francese è illuminante, visto che il cospicuo numero di straordinari rendono di fatto le 35 ore d’impiego una mera clausola formale, senza peraltro aver generato il benessere auspicato. Inoltre, la maggiore flessibilità cercata oggi da molte persone non è necessariamente legata ad uno schema fisso come quello offerto dalla settimana lavorativa ristretta. Senza dimenticare che il mantenimento intatto della rimunerazione a fronte di un tempo d’impiego ridotto porta inevitabilmente all’insorgere di un problema di costo del lavoro e al bisogno di assumere personale aggiuntivo, fattore non banale data l’attuale e ormai cronica carenza di manodopera qualificata.

Non dobbiamo poi dimenticare le origini del benessere costruito in Svizzera nel corso dei decenni, bene che tutti ci riconoscono e che molti Stati prendono come esempio. Il successo del modello svizzero è senza dubbio costituito da principi sacrosanti quali, passione nel lavoro, attitudine al sacrificio, serietà e dedizione. Vogliamo veramente metter in dubbio principi che hanno favorito il benessere generale di cui la nostra società beneficia?

Grazie alla proverbiale attitudine positiva al lavoro e alla capacità di creare valore aggiunto della sua economia, la Svizzera non teme confronti al mondo e assicura una ridistribuzione della ricchezza equilibrata e capillare a sostegno delle fasce della popolazione meno fortunate.

È quindi fondamentale lasciare ad ogni azienda la libertà di scelta in base alle proprie esigenze e disponibilità piuttosto che imporre indistintamente un rigido piano che non tiene conto minimamente delle situazioni individuali e per il quale pagheremmo tutti conseguenze importanti, al momento non quantificabili.

L’illusione della settimana lavorativa di 4 giorni con il miraggio di una maggiore produttività, migliore qualità di vita e benessere psicologico si scontra inevitabilmente con la realtà dei fatti.

Il costo del lavoro aumenterebbe sostanzialmente attraverso l’assunzione di maggior personale (ammesso che lo si trovi) e l’azienda si troverebbe inevitabilmente confrontata con costi di produzione che, in un mercato come il nostro, rischierebbe di penalizzarla fatalmente.

Se le aziende non integrassero nuovo personale, perché non ne hanno le risorse, il rischio consisterebbe nella riduzione delle attività e servizi offerti, che applicando un nuovo ritmo di lavoro si tradurrebbe in un maggiore carico di lavoro per i dipendenti, favorendo l’insorgere di ansia, stress e rischio di burnout. L’esatto contrario di quanto atteso.

Dulcis in fundo …. Il mondo d’oggi, non solo per le aziende che affrontano un mercato globale, richiede, flessibilità disponibilità e reperibilità continua, indipendentemente dall’orario. L’aspettativa del cliente si scontra innegabilmente con una settimana lavorativa ridotta, soprattutto quando viene richiesta l’interazione con un unico referente. Lavorare meno e guadagnare di più è quindi una pia illusione!

Energia: consultazione sulle misure previste in caso di penuria di gas

Nella sua riunione del 31 agosto 2022 il Consiglio federale ha preso visione del piano di gestione da attuare in caso di penuria di gas. Sono previste due ordinanze che introducono limitazioni d’utilizzo e divieti nonché misure di contingentamento per gli impianti a monocombustibile. I progetti di ordinanza saranno oggetto di una consultazione di tre settimane presso i Cantoni, le associazioni e altre cerchie interessate.

Fino al 22 settembre 2022 il Dipartimento federale dell’economia, della formazione e della ricerca (DEFR) terrà una consultazione su due progetti di ordinanza: si tratta dell’ordinanza concernente divieti e limitazioni dell’utilizzo di gas e dell’ordinanza sul contingentamento del gas. Entro la fine di ottobre 2022 il DEFR presenterà al Consiglio federale un rapporto in merito. La consultazione ha lo scopo di informare tempestivamente gli attori coinvolti sui loro compiti e sui loro doveri nel caso in cui si verifichi una penuria di gas e di permettere alle cerchie interessate di presentare le loro richieste.

La procedura non si svolge conformemente alla legge sulla consultazione; infatti, nel caso in cui in inverno si verifichi una penuria, che alla luce della situazione geopolitica attuale non può essere esclusa, le ordinanze verrebbero adattate sulla base degli ultimi sviluppi e poi poste in vigore. Le misure verranno adeguate nella loro portata a seconda della gravità della penuria e in base all’evolversi di quest’ultima sarà possibile attuarle in maniera scaglionata.

Negli scorsi mesi il Consiglio federale si è adoperato in vari modi per rafforzare l’approvvigionamento di gas in vista del prossimo inverno. Il settore del gas costituisce riserve di gas fisiche nei Paesi limitrofi e acquista opzioni per ulteriori forniture di gas non russo. Se ciononostante dovesse verificarsi una penuria, la Svizzera, che non dispone di una propria produzione di gas naturale né di impianti per lo stoccaggio, potrebbe intervenire sulla domanda. Un intervento in questo senso servirebbe a impedire un peggioramento della situazione dell’approvvigionamento e a evitare che si rendano necessarie misure di più ampia portata. Si tratterebbe di misure limitate nel tempo che verrebbero revocate il prima possibile.
L’Approvvigionamento economico del Paese (AEP) può ricorrere ai seguenti strumenti:

  • appelli al risparmio in caso di penuria imminente;
  • commutazione degli impianti bicombustibili al sopraggiungere di una penuria;
  • limitazioni e divieti dell’utilizzo del gas per determinati impieghi;
  • introduzione, tramite ordinanza, di contingenti per i clienti non protetti e inasprimento delle limitazioni e dei divieti.

Perdite a livello di comfort

Le limitazioni dell’utilizzo e i divieti si traducono innanzitutto in perdite a livello di comfort. Beni e servizi d’importanza vitale non devono essere compromessi. In primo piano vi sono diminuzioni della temperatura ambiente e della temperatura dell’acqua, soprattutto nei luoghi di lavoro. Le riduzioni della temperatura potrebbero essere estese anche agli ambienti abitativi. In Svizzera le economie domestiche private consumano più del 40 per cento del gas. Escluderle vorrebbe dire rinunciare a cospicui risparmi sui consumi di gas.

Clienti protetti e cessione di contingenti

Se le suddette misure dovessero rivelarsi insufficienti, è possibile ridurre il consumo di gas assoggettando al contingentamento gli impianti a monocombustibile. Anche in questo caso i provvedimenti verrebbero introdotti tramite ordinanza. Il contingentamento progressivo riguarda tutti i consumatori ad eccezione di quelli protetti, ovvero le economie domestiche private e i servizi sociali di base, cioè gli ospedali, le case per anziani e le case di cura, la polizia e i pompieri, l’approvvigionamento di acqua potabile e di energia, la depurazione delle acque di scarico, lo smaltimento dei rifiuti e la pulizia degli scambi ferroviari per evitare l’accumulo di neve o ghiaccio. Il Consiglio federale stabilisce il tasso di contingentamento al momento dell’emanazione dell’ordinanza, in base alla gravità della penuria. In linea generale il periodo di validità della misura è di un mese.

L’Organizzazione d’intervento in caso di crisi (OIC) è responsabile dell’esecuzione e del controllo del contingentamento e comunica eventuali anomalie al settore specializzato Energia dell’AEP. Le aziende interessate dal contingentamento possono scambiarsi contingenti non utilizzati mediante un pool comune. Sarebbe così possibile contenere i danni economici. L’organizzazione del commercio di contingenti è di competenza dell’economia.

Durante la consultazione verrà visionato anche il testo dell’ordinanza sulla commutazione degli impianti bicombustibili. Vista la situazione attuale, l’Esecutivo ha delegato al DEFR la messa in vigore dell’ordinanza. La commutazione degli impianti bicombustibili ad altri vettori energetici dovrebbe consentire di ridurre in tempi brevi il consumo di gas del 15-20 per cento.

Scarica la Scheda informativa
Link al Comunicato stampa del Consiglio federale