“Previdenza 2020”: occorrerebbe correggere gli squilibri – dossier tematico

a cura di Alessio Del Grande

Che riforma è una riforma che discrimina tra i pensionati di oggi e quelli di domani, che non distingue tra chi ha veramente bisogno e chi no, che impone anche ai giovani di pagare di più senza la garanzia di benefici futuri? Che senso ha tentare di salvare provvisoriamente le casse dell’AVS, per ritrovarsi tra un decennio con un deficit di sette miliardi di franchi all’anno? Quale logica di risanamento c’è nel risparmiare 1,2 miliardi portando a 65 anni l’età di pensionamento delle donne, ma spendendo 1,4 miliardi in più con l’aumento di 70 franchi dell’AVS?

Ecco perché “Previdenza 2020” non è una vera revisione del sistema previdenziale, ma solo una “riforma farsa”. Approfondiamo dunque il tema in questo testo. Potremo avere un quadro completo sulla tematica trattata, in votazione il prossimo 24 settembre.

Una storia tormentata

Settant’ anni di vita e ben 11 revisioni. L’ultima, nel 2004, è stata bocciata dal popolo. Un altro tentativo si è arenato in Parlamento nel 2010, mentre nell’autunno scorso è stata respinta dal voto popolare l’iniziativa AVSplus. Storia tormentata e irrisolta quella dell’Assicurazione per la vecchiaia e il prossimo 24 settembre si tornerà ancora alle urne per “Previdenza 2020”, la riforma del Consigliere federale socialista Alain Berset. Con un doppio voto: sul previsto aumento dell’IVA (referendum obbligatorio) e sull’insieme della nuova legge contro cui è stato lanciato un altro referendum. Di fatto, si voterà due volte sullo stesso tema. Quando nel 1948 entrò in vigore l’AVS si contavano 6,5 persone attive per ogni pensionato, oggi sono soltanto 3,4. Stando agli attuali trend demografici, tra trent’anni il numero dei pensionati svizzeri passerà da 1,5 milioni a circa 2,6 milioni e ci saranno soltanto due lavoratori attivi per un pensionato. Detto altrimenti, saranno sempre meno le persone attive che dovranno sostenere il finanziamento delle rendite pensionistiche. Secondo un recente studio di UBS, nel 2060 il numero degli over 64 sarà raddoppiato e i costi dell’AVS, assieme a quelli dell’assistenza sanitaria, saranno, al netto dell’inflazione, più che duplicati. Di fronte a queste previsioni e considerando anche altri due preoccupanti fattori, ossia i giovani che arrivano sempre più tardi sul mercato del lavoro, rispetto a quanto avveniva con le precedenti generazioni, e la discontinuità contributiva, si profilano grosse incognite per un sistema previdenziale, che nei tempi d’oro di alta congiuntura e del baby boom aveva spesso registrato buone eccedenze. I primi segnali di allarme per l’AVS ci sono stati con la recessione economica degli anni ‘70, quando cominciò a farsi sentire anche in Svizzera il calo della nascite e l’aumento degli anziani. Da allora la situazione è andata peggiorando e oggi, con la forte crescita degli ultrasessantenni e il pensionamento della generazione dei “babyboomer”, il finanziamento del primo e del secondo pilastro non è più assicurato. Che sia necessaria una revisione radicale è, quindi, fuor di dubbio, ma certamente non secondo il modello messo a punto da Berset.

Cosa prevede “Previdenza 2020”?

In sintesi i punti principali della riforma Berset, che tocca sia il primo pilastro come la previdenza professionale, sono:

  • l’aumento a 65 anni dell’età di pensionamento per le donne;
  • il pensionamento flessibile tra i 62 e i 70 anni;
  • la riduzione dal 6,8 al 6,0% del tasso di conversione con cui si calcolano le rendite del secondo pilastro;
  • l’aumento di 0,3 punti dei prelievi salariali;
  • l’incremento dell’IVA di 0,6 punti per finanziare l’AVS;
  • 70 franchi in più al mese di rendita AVS per compensare la riduzione del tasso di conversione del secondo pilastro;
  • l’aumento del tetto massimo per i coniugi dal 150% al 155%.

Di queste due ultime misure beneficeranno, però, soltanto coloro che andranno in pensione a partire dal prossimo anno.

Ci si dovrebbe confrontare con i problemi strutturali del sistema, non rinviare le soluzioni.

La revisione si propone di garantire l’equilibrio finanziario dell’AVS sino alla fine del prossimo decennio. Ma in buona sostanza si tratta di una “pseudo riforma”, come è stata definita, perché non affronta i veri nodi della previdenza e rappresenta, inoltre, una cambiale in bianco per i lavoratori più giovani, chiamati alla cassa per saldare il conto di un meccanismo di finanziamento che non garantisce né stabilità né sicurezza per il futuro. Una revisione, quindi, che invece di misurarsi con i problemi strutturali del sistema ne rinvia solo la soluzione. Ma, intanto, ne crea di altri.

Perché NO a questa riforma?

Approvata nel marzo scorso dal Parlamento con una maggioranza risicata, grazie ad un’alleanza di centrosinistra, “Previdenza 2020” potrà offrire solo una boccata di ossigeno alle casse dell’AVS, rischiando però di compromettere, col suo meccanismo espansivo e la logica dell’innaffiatoio, tutto il sistema previdenziale. Infatti, nonostante l’apporto di nuova liquidità per miliardi di franchi tramite l’aumento dell’IVA e dei prelievi sui salari, tra dieci anni l’AVS sarà di nuovo in rosso. Si stima che a partire dal 2035 mancheranno ogni anno circa sette miliardi. Per scongiurare questa voragine bisognerà, dunque, intervenire prima. Ma come? Semplice, davanti alla nuova emergenza finanziaria la sola scelta possibile sarà di portare a 67 anni, per tutti, l’età del pensionamento oppure di aumentare di altri due punti percentuali l’IVA. Intanto i cittadini sopporteranno gli effetti di una revisione iniqua che non risolve nulla, ma che penalizza in particolare i giovani che lavorano e gli attuali pensionati. I primi saranno costretti a pagare un prezzo molto alto con maggiori contributi salariali e il rincaro dell’IVA, senza avere la garanzia di poter poi godere a loro volta della previdenza per la vecchiaia. Il che rappresenta una grave lesione di quel patto tra generazioni sui cui si fonda il nostro sistema assicurativo. I secondi si troveranno di fronte ad un’AVS a due velocità. Chi oggi è già è pensionato non riceverà, infatti, i 70 franchi di aumento previsti da “Previdenza 2020” soltanto per coloro che andranno in pensione dal 2018. Una discriminazione bella e buona che viola uno dei principi fondanti dell’Assicurazione vecchiaia e superstiti, secondo cui tutti devono essere trattati allo stesso modo. Gli attuali pensionati saranno di fatto beffati: dovranno pagare un’IVA più cara per finanziare una riforma che a loro non riconosce nessun aumento, subendo, perciò, un’erosione del potere di acquisto. E ci rimetteranno pure i beneficiari delle prestazioni complementari, da cui sarà detratto ogni franco in più che riceveranno dall’AVS. Inoltre, se le prestazioni complementari sono esentasse, su quanto riceveranno in più con la rendita vecchiaia dovranno, invece, pagare le imposte. Per i socialisti e i verdi questa riforma è una rivincita dopo la sonora bocciatura popolare di AVSplus, su cui è stata ricalcata “Previdenza 2020”. Ma è anche un nuovo tentativo di fare dell’AVS una leva di quel sistema redistributivo che da sempre ispira la politica della sinistra. Un’impostazione ideologica di cui faranno le spese i pensionati di oggi e di domani.

Se la “Previdenza 2020” venisse accettata in votazione il prossimo 24 settembre, assisteremmo ad una lesione del patto generazionale su cui si fonda il nostro sistema assicurativo.

Il dossier sulla Riforma 2020 è pubblicato sull’edizione di luglio+agosto di Ticino Business.
Esso si compone di tre articoli:

“Previdenza 2020”: occorrerebbe correggere gli squilibri
Previdenza vecchiaia: non sacrifichiamo la solidarietà tra generazioni
Età di pensionamento flessibile: basta con i tabù

 

Il libero mercato è un processo in divenire

Parliamo ancora di opportunità offerte dal libero commercio, tema fondamentale per la prosperità svizzera e, di conseguenza, delle aziende del nostro territorio. Leggete anche i diversi approfondimenti di un dossier dedicato al tema, già pubblicato su Ticino Business di aprile 2017.

Che il libero mercato sia un elemento imprescindibile per garantire il nostro benessere è stato chiarito a più riprese dalle colonne di Ticino Business. Da ultimo ricordiamo l’intervento sul numero di marzo 2017  intitolato “Il protezionismo è una minaccia per la nostra economia”. È pertanto innegabile che quella che sembra ormai una diffusa tendenza globale alla chiusura preoccupa non poco, soprattutto per una nazione a forte vocazione di esportazione come la Svizzera. Quando si parla di protezionismo la Svizzera, come tutte le altre nazioni al mondo, lo applica in taluni campi sensibili, forse anche a ragione. Si cerca di tutelare le competenze presenti sul nostro territorio e anche la nostra qualità, come appunto fanno tutti, in varie misure. È evidente che la linea fra difesa degli interessi nazionali e politica protezionistica è assai sottile e può prestarsi a molte interpretazioni, più o meno legittime. E non si rimette nemmeno in discussione che l’apertura, rivelatasi sempre benefica nel corso della storia, debba spesso essere gestita per mettere qualche paletto correttivo.

La chiusura comporta delle conseguenze

È però importante rilevare che gli impeti di chiusura non sono neutrali dal punto di vista delle conseguenze. A partire dalla difficoltà di coniugare le visioni diverse fra chi, nel contesto di un tessuto economico forte perché differenziato, si dedica in buona parte all’export e deve combattere quotidianamente nell’arena globale e chi invece è prevalentemente orientato al mercato interno. Le aziende del primo gruppo necessitano di mercati senza grosse barriere, le seconde invece spesso premono per metterne a loro tutela. Nel breve periodo una protezione può essere vantaggiosa, sia per l’azienda che per il consumatore, ma alla lunga la mancanza di concorrenza potrebbe portare a meno innovazione, a minori spinte di cambiamento e quindi lentamente ad erogare un servizio o creare un prodotto meno performante, a svantaggio dei consumatori. A svantaggio quindi di tutti noi. Non fraintendiamo, la nicchia ben sfruttata o magari anche un privilegio quasi unico concesso ad una o poche aziende non è per forza negativo e ci sono molti esempi di aziende che, anche operando in queste condizioni, rimangono competitive, a vantaggio di molti, se non tutti. Ma in generale l’apertura (con i necessari correttivi) ha sempre dato risultati migliori della chiusura, anche e soprattutto in termini di benessere generale, malgrado a volte la percezione sia di segno contrario. Per questo è fondamentale che la politica svolga il suo lavoro varando o abrogando leggi, vigilandone sul rispetto, ecc., ma sempre mantenendo come obiettivo quello di un mercato il più aperto possibile.

La Cc-Ti continuerà a battersi per il libero mercato, che non significa anarchia, ma poche regole certe che danno sicurezza.

L’importanza dell’accordo per l’eliminazione degli ostacoli tecnici al commercio

In questo contesto basti pensare ai tanto deprecati Accordi bilaterali fra Svizzera e Unione europea, caratterizzati quasi solo dalla discussione sulla libera circolazione delle persone. Fondamentale è l’accordo che riguarda l’eliminazione degli ostacoli tecnici al commercio, meno famoso e scottante rispetto alla libera circolazione delle persone, ma importantissimo per le aziende perché facilita in maniera considerevole le procedure, permettendo di risparmiare molti costi e aumentandone la competitività nel contesto del fondamentale mercato europeo. La riduzione delle differenze fra le norme di omologazione e quindi una maggiore omogeneità nella valutazione di conformità dei prodotti è un tassello che facilita enormemente il lavoro delle aziende e prima di norme che possono ostacolare il commercio. Prima del 2002, senza gli accordi bilaterali, occorreva tenere conto anche di questa complessità nel fare affari con i paesi europei: senza questa difficoltà, le aziende svizzere hanno risparmiato e risparmiano centinaia di milioni, reinvestiti nei loro fattori competitivi. Chiaramente si faceva business anche senza gli accordi bilaterali ed era possibile, ma ogni norma che favorisce la semplificazione degli scambi commerciali aiuta ovviamente in maniera decisiva le nostre aziende. Senza dimenticare che in generale la politica svizzera degli Accordi di libero scambio è una carta vincente per il nostro benessere, tanto che regolarmente il nostro paese conclude tali accordi molto prima di quanto non facciano entità economiche più pesanti della nostra.

L’esempio del “Cassis de Djion”

Polemiche aveva scatenato qualche tempo fa anche l’introduzione del principio del “Cassis de Djion”. Ricordiamo che secondo tale principio i prodotti fabbricati e venduti legalmente nell’UE possono essere venduti anche in Svizzera senza particolari controlli. È prevista una regolamentazione speciale per le derrate alimentari, dato che si tratta di prodotti particolarmente sensibili. Siamo oramai ad alcuni anni di distanza dall’introduzione di questa regola e si può quindi dare uno sguardo al passato, analizzando le paure e le obiezioni espresse al riguardo prima della messa in opera di questo accordo, contestualizzandolo con quello che poi effettivamente è successo. Ed è successo poco, per la verità. In ogni caso nulla di grave, perché dopo i timori concernenti l’idraulico polacco, tale principio aveva scatenato i timori dell’invasione di yoghurt bulgari. Gli effetti sull’ “Isola dei prezzi alti” non sono forse stati così forti come auspicava il Consiglio Federale a suo tempo, ma non vi sono nemmeno stati effetti nefasti come quelli ipotizzati dai contrari, perché non si è vista un’invasione massiccia di beni europei a bassa qualità come si temeva. Insomma, questo esempio concreto mostra che, quando si parla del libero mercato, ansie e timori possono giocare brutti scherzi ma poi, a conti fatti, essi rimangono spettri quasi intangibili. Rimane il fatto che leggi e regolamenti sullo stile del “Cassis de Dijon”, con gli opportuni correttivi quando si parla di determinati elementi qualitativi, sono una buona strada da percorrere per mantenere il nostro mercato competitivo.

La tutela del libero mercato

Per fare business è ovvio che bisogna però essere almeno in due. È importante che noi ci impegniamo a tutelare il libero mercato e gli strumenti tecnici e giuridici che lo consentono (ad esempio gli accordi bilaterali o strumenti affini), ma è altresì importante avere dei partner che agiscano nella stessa maniera. Una debolezza svizzera è forse quella di voler essere quasi sempre i primi della classe, applicando pedissequamente ogni genere di accordo, mentre a volte i partner non sono così precisi. È un elemento che andrebbe riconosciuto maggiormente, non per mettere in dubbio la politica svizzera in generale, ma per evitare strumentalizzazioni politiche che, alla fine, inficiano i principi di base del libero mercato. Niente è perfetto, nessun accordo può esserlo, ma la politica di apertura economica deve continuare, indipendentemente dagli strumenti giuridici utilizzati. Un mondo aperto agli scambi è un mondo in cui il benessere può prosperare. Questo, come già detto, non significa evitare i necessari correttivi, che si chiamino misure d’accompagnamento come nel caso degli accordi bilaterali con l’UE o altro. Perché una politica di apertura economica non è inconciliabile con la difesa degli interessi nazionali o cantonali. Ma affossare qualcosa che funziona è pericoloso. Sostenere sempre che tutto va male e che dobbiamo cambiare sistema, senza peraltro indicare vie praticabili di come si vuole cambiare le cose, non è un modo di procedere costruttivo e porta a una chiusura che ottiene esattamente il contrario dello scopo che in teoria essa persegue. Illudendosi di garantire una protezione onnipresente, si chiudono sbocchi essenziali perché il paese possa prosperare. Da questo punto di vista manca probabilmente una visione di sistema che possa andare oltre le questioni individuali, certo spesso difficili e comunque da risolvere, ma che non possono essere il solo parametro per definire il funzionamento di base del paese. Purtroppo questa è una tendenza di un contesto storico e politico mondiale ostile alla globalizzazione. Alcune ragioni sono più che comprensibili perché gli indicatori mondiali di segno positivo sulla globalizzazione non interessano alle persone toccate nella loro esistenza ad esempio da una concorrenza estera a minor prezzo che ha cancellato certi posti di lavoro. La reazione umana è quella di pensare a limitare gli scambi commerciali con barriere di varia natura, ma non sempre è la decisione giusta. Correttivi sì, soppressione del libero mercato no. Purtroppo oggi è più popolare la tesi che la difesa degli interessi nazionali passa per la chiusura economica.

Nel breve periodo una protezione può essere vantaggiosa, sia per l’azienda che per il consumatore, ma alla lunga la mancanza di concorrenza potrebbe portare a meno innovazione e a minori spinte di cambiamento… A svantaggio quindi di tutti noi.

La Cc-Ti in difesa della libertà economica

La Cc-Ti continua a difendere la libertà economica e imprenditoriale e le libertà in generale, che sono tutt’altro che acquisite. Come già detto a più riprese, ciò non significa essere stoltamente bloccati su posizioni ideologiche e il nostro comportamento in questi anni lo sta a dimostrare. Mai ci siamo opposti a sanzioni per chi ignora le regole, né abbiamo combattuto i correttivi introdotti in maniera equilibrata. L’economia, malgrado quello che possono pensare taluni, non è interessata a creare tensioni sociali, perché il quadro in cui essa opera è molto più vantaggioso se caratterizzato da una situazione tranquilla (in Svizzera si chiama anche pace sociale). Opporsi a soluzioni apparentemente facili, dal grande effetto mediatico ma povere di contenuti concretizzabili non significa ignorare i problemi. Ma la difesa dei principi generali che caratterizzano il sistema liberale e la tutela degli imprenditori è essenziale per il funzionamento della nostra struttura e un’economia funzionante, sana e rispettosa del quadro legislativo e istituzionale come quella che difendiamo è la migliore tutela per il benessere di tutti i cittadini. Regole certe, migliorabili ma senza colpi di testa dettati dalle emozioni, restano essenziali per salvaguardare il principio di legalità, uno degli elementi fondanti della stabilità svizzera. Anche tale principio è assai sotto pressione alle nostre latitudini e questo non va assolutamente bene. Le leggi possono e devono essere modificate, questo è ovvio. Ma ignorare che ci sono per dare spazio a cose astruse, scientemente incompatibili con le basi legali esistenti, tanto per vedere l’effetto che fa è assurdo. Continueremo quindi a batterci per il libero mercato, che non significa anarchia, ma poche regole certe che danno sicurezza. Convinti che questo sia un modo intelligente per continuare ad avere il miglior contesto possibile in cui le aziende possano operare e prosperare, con risvolti positivi per tutti.

Da cento anni con passione e competenza

È con questo spirito che la Cc-Ti lavora da 100 anni per il territorio ticinese.

Il 2017 rappresenta per la Cc-Ti un anno cruciale: festeggiamo il nostro centenario. Per tale occasione, vogliamo trasmettere alcuni messaggi chiave per la nostra struttura, con un percorso dedicato ai nostri associati composto da eventi, formazioni e appuntamenti mediatici ad hoc. Avremo il piacere di informarvi costantemente sulle numerose prossime novità attraverso tutti i nostri canali di comunicazione (sito web, Newsletter, Ticino Business e social media). Qui sotto potrete inoltre leggere e visualizzare alcuni video su tre momenti eventistici importanti che hanno contraddistinto la nostra attività degli ultimi mesi.

Il 100° è un momento di particolare importanza per dar risalto alla solidità della nostra struttura e affermare che, oggi come allora, le sfide così come le opportunità a cui la nostra associazione deve confrontarsi, quale mantello dell’economia di tutto il territorio cantonale, sono molteplici e variate.

Sin dalla sua nascita la Cc-Ti si fa interprete delle voci delle aziende e delle associazioni di categoria, a loro tutela ed in difesa della libertà economica (che ricordiamo è sancita dall’art. 27 della Costituzione federale), ed è stata capace di adattarsi agli eventi del XX secolo, senza mai perdere di vista il proprio obiettivo: i propri soci e il loro benessere. Questo è un fil rouge che percorre trasversalmente tutti i nostri cento anni. 

Fondata sull’iniziativa privata, la Cc-Ti promuove lo sviluppo dell’economia ticinese, portando avanti iniziative, servizi e progetti in difesa della libertà imprenditoriale, spina dorsale dell’attività economica per tutto il territorio cantonale. Un dialogo franco con i nostri associati ci permette di essere costantemente “sul pezzo”, proponendo servizi innovativi costruiti sulla base delle loro esigenze. Quale interlocutore privilegiato possiamo anticipare i trend e le tematiche di stretta attualità e proporre ai soci dei momenti di aggiornamento e informazione di qualità. In questo senso identifichiamo temi, argomenti e Paesi nei quali stanno nascendo possibilità d’affari e presentiamo degli appuntamenti dove, oltre all’aggiornamento sulla tematica in questione, vi è la possibilità di un’interazione tra i partecipanti. Così facendo i membri della Cc-Ti possono disporre di molteplici occasioni di networking, per sfruttare una rete vincente e creare opportunità di business.

Su che cosa ci siamo concentrati e ci concentreremo quest’anno?

Oltre alla difesa della libertà imprenditoriale, che resta al centro della nostra costante attività, abbiamo deciso di focalizzare la nostra attenzione su 4 tematiche fondamentali per la nostra economia, che abbiamo approfondito e approfondiremo anche durante alcuni momenti eventistici. Si è parlato di internazionalizzazione (resoconto e video), di digitalizzazione (resoconto e video) e della responsabilità sociale delle aziende (resoconto e video) e durante i prossimi mesi toccheremo in modo approfondito anche il tema dello swissness – inteso nella sua accezione più larga come modo svizzero di fare impresa.

Inoltre, attraverso differenti azioni mediatiche e divulgative abbiamo deciso di evidenzierà il valore del territorio cantonale, composto da realtà aziendali importanti e forte di un sistema associativo (a livello svizzero) che rappresenta un unicum mondiale, invidiatoci da molti. Tutto ciò mostrando, con numerosi esempi positivi, la reale immagine del mondo imprenditoriale ticinese, caratterizzato da dinamismo, creatività, potenzialità e innovazione.

1 minuto e 15 secondi per conoscere meglio la Cc-Ti.
La nostra infografica!

Scopritene di più sugli eventi del centenario

Per rimarcare il traguardo del 100°, i cui festeggiamenti culmineranno durante l’Assemblea del 20 ottobre 2017, abbiamo deciso di proporre ai soci 4 momenti eventistici maggiori:

Per maggiori dettagli su questi eventi restiamo a vostra disposizione:
Tel. +41 91 911 51 11, casagrande@cc-ti.ch

 

Permessi per cittadini stranieri – Informazione alle aziende

Nessuna esigenza di domicilio per ottenere il permesso di residenza

Negli scorsi mesi ci sono stati segnalati diversi casi in cui, per il rilascio o per il rinnovo del permesso di residenza di un cittadino UE, l’autorità cantonale pretendeva che anche i famigliari della persona in oggetto trasferissero il loro domicilio in Ticino.

A seguito di un ricorso presentato proprio contro questa esigenza, il Tribunale cantonale amministrativo in una sentenza pubblicata lo scorso mese di giugno ha sancito l’illegalità di tale prassi (sentenza n. 52.2016.237).

In concreto il Tribunale ha sottolineato come:

il cittadino di una parte contraente all’ALC – come è il caso del qui ricorrente in forza della sua nazionalità italiana- dispone di un diritto a titolo originario a stabilirsi nel nostro Paese per esercitare un’attività lucrativa dipendente, ottenendo a tale scopo un permesso di dimora UE/AELS (cfr. art.2 paragrafo 1 Allegato I ALC, STF 131 II 339 consid. 2). Non vi è in effetti alcuna norma o principio giurisprudenziale sgorgante dall’ALC che faccia dipendere il rilascio di siffatta autorizzazione dalla situazione del richiedente dal profilo del suo stato civile…(omissis)…Non è quindi dato di vedere come a un cittadino che possa prevalersi dell’ALC non debba essere rilasciato un permesso di dimora per il solo fatto che il coniuge e figli continuino a vivere all’estero.

Nel caso in cui un vostro dipendente dovesse essere oggetto di una simile richiesta da parte dell’autorità cantonale, può legittimamente opporsi richiamando i principi generali di cui sopra.

Convocazione a un secondo colloquio personale

Vi segnaliamo inoltre che il nuovo Regolamento cantonale di applicazione della legge federale sugli stranieri all’art. 8 cpv. 4 prevede che l’Ufficio può esigere in ogni momento che il richiedente si presenti personalmente per fornire ulteriori informazioni, in particolare nell’ambito della procedura di rilascio, di rinnovo o di modifica del suo permesso.

Si tratta di una possibilità di incontro oltre al primo colloquio personale già previsto dalla nuova procedura per il rilascio del permesso. Su nostra specifica richiesta il Consiglio di Stato ci ha precisato che questo secondo colloquio ha carattere meramente sussidiario e che verrà quindi utilizzato dall’Autorità cantonale solo nel caso in cui il richiedente non si dimostri collaborativo e, in ogni modo, solo dopo un tentativo di raccogliere le informazioni via posta.

Infine, vi invitiamo a segnalarci tempestivamente ogni situazione concreta che non dovesse corrispondere alle assicurazioni rilasciateci dall’Autorità cantonale.

Trasformazioni fra paure e realtà

Di Luca Albertoni, direttore Cc-Ti

Al centro dell’articolo le implicazioni e opportunità della trasformazione digitale oggigiorno in corso.

Della trasformazione digitale già si è detto molto e si continuerà a dire molto per parecchio tempo. Come è giusto che sia, visto che essa rimette in discussione molti modelli che sembravano acquisiti e crea dinamiche nuove. E si sa che lo sconosciuto spesso fa paura. Reazione umanamente comprensibile e che non deve essere stigmatizzata, ma è al contempo importante non trascurare taluni fatti, indispensabili per evitare di prendere decisioni, soprattutto di ordine politico, avventate perché dettate più dai timori che da una valutazione oggettiva.

La trasformazione non è per forza negativa, ma permette sviluppi anche impensabili. Nel nostro piccolo Ticino basti pensare alla riconversione di un settore come quello della moda.

Si parla ad esempio molto spesso della deindustrializzazione in Europa, che in realtà è più una trasformazione che una fine vera e propria dell’industria.Interessante a questo proposito è un libro recentemente pubblicato da Pierre Veltz, sociologo, ingegnere ed economista francese, specialista dell’organizzazione delle aziende e delle dinamiche territoriali. Il libro, intitolato “La société hyper-industrielle” (con il sottotitolo “Le nouveau capitalisme productif”) indica come in realtà non vi sia una regressione dell’industria, ma una profonda trasformazione, soprattutto della sua organizzazione. La rivoluzione in atto e con la quale dobbiamo confrontarci non concerne tanto l’automatizzazione di taluni compiti lavorativi, quanto piuttosto la connettività derivante dalle reti di comunicazione che agevola ulteriormente la dispersione della produzione in tutto il mondo, l’inclusione dell’utilizzatore nei cicli di produzione e la ricezione costante dei dati di utilizzo grazie alle varie piattaforme di scambio di dati. Per cui Veltz ritiene che l’industria stia diventando un servizio come gli altri, mentre molti servizi si organizzano secondo criteri industriali, rendendo sempre più difficile la distinzione fra i due rami economici. E’ un brevissimo e parziale riassunto, ma fornisce comunque spunti importanti. Cioé che la trasformazione non è per forza negativa, ma permette sviluppi anche impensabili.

Nel nostro piccolo Ticino basti pensare alla riconversione di un settore come quello della moda, passato dalla fabbricazione di capi d’abbigliamento alla gestione logistica molto avanzata dei flussi della distribuzione dei prodotti nel mondo e alla cura della proprietà intellettuale legata ai vari marchi. Non è del resto un caso che si parli sempre più spesso di “reshoring”, ossia di rimpatrio in Europa di attività industriali esportate anni fa verso quelli che erano considerati paesi a basso costo di produzione. Questo è dovuto anche alla trasformazione digitale che rende talune attività economiche meno costose e quindi rilancia la competitività europea a livelli di costi e permette ad esempio di gestire a distanza il servizio post-vendita ai clienti, garantendo una qualità europea (meglio se svizzera…) oltre i processi di fabbricazione. Il discorso è ovviamente complesso e merita ulteriori approfondimenti che, per ovvie ragioni di spazio, qui non sono possibili. Ma è comunque stimolante constatare che, fra le molte opinioni espresse sul tema della trasformazione digitale in senso lato, ve ne siano parecchie autorevoli che indicano come per il mondo occidentale non vi siano solo nubi scure all’orizzonte. Pierre Veltz sottolinea anche come l’Europa abbia delle carte importantissime da giocare: il principio dell’uguaglianza che tendenzialmente evita che vi siano troppi territori abbandonati, la ridistribuzione equilibrata della ricchezza e la forte interazione fra le città e le regioni europee. Punti di forza che in Svizzera conosciamo bene e che sarebbe profondamente sbagliato abbandonare a causa solo delle paure.

L’economia del futuro è digitale – Dossier tematico apparso su Ticino Business (edizione marzo 2017)

Intervista a Luca Albertoni su influence.ch

Intervista a Luca Albertoni, direttore Cc-Ti, apparsa su influence.ch

Al centro dell’intervista, apparsa il 23.06.2017 sul portale d’approfondimento germanofono, la solidità del tessuto economico ticinese e gli importanti sviluppi di alcuni settori oggigiorno trainanti per la nostra economia, come la moda e il commercio di materie prime.

 

Das Tessin gilt als Sonnenstube der Schweiz. Stört Sie diese Bezeichnung?
Luca Albertoni: Eigentlich nicht. Das Problem ist, dass das Tessin oft aus eigenem Verschulden in der deutschsprachigen Schweiz zu wenig bekannt ist.

Wie bitte?
Das Tessin ist nicht nur ein Tourismuskanton, in dem die Sonne gerne scheint. Vielmehr ist das Tessin auch ein wichtiger Wirtschafts- und Industriestandort. So wird ein guter Fünftel des Tessiner Bruttoinlandprodukts (BIP) durch den Industriesektor erwirtschaftet. Das weiss man nicht. Man bringt uns primär mit dem Tourismus in Verbindung, der im Gegensatz zur Industrie nur 10 Prozent zur Wirtschaftsleistung beiträgt. Diese verzerrte Wahrnehmung stört mich. Wir haben es noch nicht richtig fertiggebracht, diese andere Sichtweise stärker nach Zürich und Bern zu tragen. Dadurch kennt die Schweiz unsere Trümpfe nicht.

Welches sind diese Trümpfe?
Die wichtigste Branche im Tessin ist die Pharmaindustrie, die knapp 10 Prozent unseres BIP ausmacht. Auch die Maschinenindustrie ist mit Georg Fischer oder Schindler im Tessin vertreten. Daneben gibt es zahlreiche kleinere Zulieferer für Deutschschweizer Unternehmen. Da die meisten jedoch keine eigenen Fertigprodukte herstellen und keine bekannten Marken haben, sind diese Firmen weitgehend unbekannt. Das ist häufig das Schicksal der Kleinen. Das Tessin macht punkto Bevölkerung und Wirtschaft rund 5 Prozent der Schweiz aus. Wir sind eine kleine Realität. Wir sollten mehr konstruktive Öffentlichkeitsarbeit machen, damit man uns und unsere Realität besser versteht. Bei der Diskussion um die zweite Gotthardröhre beispielsweise wusste niemand, dass für unsere Logistikbranche der Flughafen Zürich viel wichtiger ist als jener im benachbarten Mailand. In dieser Hinsicht arbeiten wir jedoch besser als in der Vergangenheit.

Ein Tessiner Bundesrat ist meines Erachtens nicht ein Muss, es ist aber klar, dass ein Vertreter der italienischen Schweiz eine andere Sensibilität einbringen und das Gremium bereichern kann.

Mit dem Rücktritt von Didier Burkhalter bietet sich nun die Chance, dass das Tessin nach Flavio Cotti wieder einen Bundesrat stellt. Wie wichtig wäre das?
Ich bin der Meinung, dass die individuellen Fähigkeiten grundsätzlich wichtiger sind als die geographische Herkunft. Ein Tessiner Bundesrat ist meines Erachtens nicht ein Muss, es ist aber klar, dass ein Vertreter der italienischen Schweiz eine andere Sensibilität einbringen und das Gremium bereichern kann.

Welche konkreten Impulse erwarten Sie von einem Tessiner Bundesrat?
Wahrscheinlich würde ein Teil der Tessiner Bevölkerung Bundesbern als weniger entfernt empfinden. Ich würde aber die konkreten Impulse wenigstens kurzfristig nicht überschätzen, denn der Bundesrat arbeitet als Gremium zuerst für die gesamtschweizerischen Interessen.

Wie werten Sie die Chancen von FDP-Mann Ignazio Cassis?
Ignazio Cassis wäre ein fähiger Bundesrat und verdient unsere Unterstützung. Er hat sich in Bern eine starke Position erarbeitet, aber ob das reicht, kann ich als Aussenstehender nicht beurteilen.

Die Achse Chiasso-Basel ist zentral. Darüber hinaus geht es darum, die Zusammenarbeit mit den Basler Kollegen und das Tessin als Logistik-Pol zu verstärken.

Eine starke Position im Tessin hat die Logistikbranche, ebenso die Mode. Möchte man diese beiden Sektoren in den nächsten Jahren ausbauen?
Sie haben sich eigentlich fast von selbst entwickelt. Früher dominierte im Tessin die Textilproduktion, die heute nahezu verschwunden ist und durch die Logistik ersetzt wurde. Traditionshäuser wie Zegna galten als Vorbilder und Magnet für andere Modehäuser, namentlich aus Italien. Kein Wunder, spricht man von einer Fashion Valley. Allerdings sind mittlerweile fast alle italienischen Unternehmen zurück nach Italien gekehrt, weil der Druck aus Rom sehr gross war.

Ein herber Verlust.
Das ist natürlich bedauerlich. Doch an deren Stelle sind französische, britische, skandinavische und amerikanische Modehäuser gekommen. Es hat sich im Laufe der Jahre ein wichtiger Cluster gebildet.

Weil diese Firmen einen steuerlichen Sonderstatus geniessen?
Nein. Das mag in der Anfangszeit so gewesen sein, ist heute aber nicht mehr der Fall. Diese Firmen sind grundsätzlich ordentlich besteuert. Wesentlich wichtiger ist die liberale Gesetzgebung der Schweiz, was für ausländische Unternehmen sehr attraktiv ist. Leider wird die Tessiner Logistikbranche zu wenig wahrgenommen. Deshalb sind wir Mitglied des Logistik Cluster Basel geworden.

Weshalb?
Die Achse Chiasso-Basel ist zentral. Darüber hinaus geht es darum, die Zusammenarbeit mit den Basler Kollegen und das Tessin als Logistik-Pol zu verstärken.

Ein Sektor, der seit der Finanzkrise mächtig gelitten hat, sind die Banken und Vermögensverwalter. Hat sich das Tessin von diesem Schock erholt?
Neben dem Stellenabbau haben die Kantone und Gemeinden stark unter den weggebrochenen Steuererträgen gelitten. Es war ein grosser Schock für die Wirtschaft, den Abzug der Banken mitzuerleben. Doch dieser Verlust ist, wenigstens was die Steuererträge anbelangt, fast vollständig wettgemacht worden durch andere Unternehmen, insbesondere aus der Rohstoffbranche, die sich im Tessin niedergelassen haben. Lugano gehört mittlerweile im Stahlhandel zur Weltspitze. Nach Genf und Zug sind wir Nummer drei der Schweiz, nur knapp hinter Zug. Allerdings ist es ein Nachteil, dass der Finanzplatz Tessin im Zuge der Finanzkrise geschwächt wurde. Die Politik der Grossbanken besteht darin, ihre Finanzdienstleistungen, namentlich die komplexeren, in Genf oder Zürich zu zentralisieren. Die fehlenden finanztechnischen Kompetenzen sind eine grosse Herausforderung für die Rohstoffbranche und die übrige Wirtschaft.

Die Tessiner Wirtschaft ist heute robuster und stärker diversifiziert.

Wie gut geht es der Tessiner Wirtschaft?
Die Wirtschaftsfaktoren zeigen, dass wir im Schweizer Durchschnitt liegen. Die Tessiner Wirtschaft ist nicht mehr so schwach wie vor 20 oder 25 Jahren mit den damals hohen Arbeitslosenzahlen. Sie ist heute robuster und stärker diversifiziert. Das zeigt sich darin, dass sie die Finanzkrise und die beiden Währungsschock relativ gut überstanden hat. Im Empfinden der Leute sieht das aber etwas anders aus. Sie reagieren sensibler und haben ein Gefühl der Unsicherheit. Arbeitsplätze bei den Banken gingen verloren, ebenso bei der Post, Armee und SBB. Diese Unsicherheit ist nicht nur im Tessin zu beobachten, sondern in der ganzen Schweiz und auch weltweit. Denn der Wettbewerb, die Konkurrenz und der Druck sind grösser geworden.

Das Empfinden der Bevölkerung im Tessin stimmt nicht mit der wirtschaftlichen Realität überein.
Der Wettbewerb ist intensiver geworden. Die Arbeitskräfte aus der Lombardei sind eine Realität. Doch dem Tessin geht es wirtschaftlich gut. Die Zahlen sind eindeutig.

Fühlt sich das Tessin isoliert?
Die Schweiz und Europa sind für die Wirtschaft kein Fremdwort, sondern gelebte Realität. Doch empfinden die Tessiner Bern als weit entfernt und Italien als aggressiv. Und für sie entspricht Italien der EU. Diese Empfindung ist stark im Bewusstsein der Bevölkerung verankert. Da klaffen die Realität der Wirtschaft und jene der Gesellschaft auseinander. Wenn ein Tessiner Arbeitnehmer durch einen italienischen ersetzt wird, hat man mehrheitlich keine gute Meinung über die bilateralen Verträge, Brüssel und Bern. Deshalb ist es für mich als Vertreter der Handelskammer nicht immer ganz einfach, hier eine Scharnierfunktion wahrzunehmen und beide Sichtweisen unter einen Hut zu bringen.

Kann der neue Tunnel durch den Gotthard eine Deblockade bewirken?
Für uns Wirtschaftsvertreter ist der Tunnel genial. Wir sind viel schneller in Zug, Zürich oder Basel an Sitzungen. Die Deutschschweiz liegt nun praktisch vor der Haustüre. Man darf nicht vergessen, dass die Deutschschweiz und Nordeuropa für die Tessiner Wirtschaft überlebensnotwendig sind – mehr als Italien. Ob die Bevölkerung das auch so sieht, muss sich weisen. Es wäre schön, wenn das Tessin mehr wäre als ein Durchgangskorridor zwischen Zürich und Mailand und sich als eigenständiger Wirtschafts- und Tourismusstandort mit Top-Lebensqualität positionieren kann. Für mich ist eine Öffnung wie der Gotthardtunnel immer eine Chance.

Wie werben Sie für den Wirtschaftsstandort Tessin?
Unsere Trümpfe sind die gleichen wie in der übrigen Schweiz: eine liberale Gesetzgebung, keine allzu grosse Bürokratie, ein einfacher, guter, persönlicher Zugang zur öffentlichen Verwaltung und eine moderate steuerliche Belastung. Vielleicht helfen auch das Tessiner Klima und die zentrale Position zwischen Mailand und Zürich. Die Vernetzung mit der Neat und der zweiten Gotthardröhre werden das Tessin für die Schweizer Wirtschaft noch wichtiger machen.

Wo steht Ihr Kanton in zehn Jahren?
Wir haben eine gute Dynamik, haben die schwierigen 1990er-Jahre endgültig hinter uns gelassen. Dank der breiten Diversifizierung hat es viele Freiräume für Neues. Darauf müssen wir aufbauen, das Positive sehen und fördern – und endlich aufhören zu nörgeln. Das bringt uns definitiv nicht weiter.

Gespräch: Pascal Ihle

Intervista a Luca Albertoni del Tages – Anzeiger

Intervista a Luca Albertoni, direttore Cc-Ti, da parte del Tages – Anzeiger

Al centro dell’intervista, apparsa giovedì 27.06.2017 sul noto quotidiano germanofono, il possibile scenario di un prossimo/a Consigliere federale ticinese.

Wie wichtig wäre ein Bundesrat tatsächlich für das Tessin?

Das ist eine zwiespältige Frage. Natürlich wäre es wichtig für den Bundesrat, wenn jemand aus dem Tessin eine gewisse kulturelle Sensibilität für den Kanton in das Gremium tragen würde. Gleichzeitig haben wir immer gesagt, auch bei den letzten Kandidaturen aus dem Tessin, dass die Person und ihre individuelle Fähigkeiten wichtiger sind als die Herkunft. Es muss nicht um jeden Preis ein Tessiner im Bundesrat sein. Für unseren Kanton ist das nicht überlebenswichtig.

Ist ein Bundesrat aus dem Tessin vielleicht wichtiger für die Schweiz als Ganzes als nur für Ihren Kanton? Es geht hier ja auch um Symbole.

Das könnte durchaus sein. Vielleicht muss man es so anschauen, um auch den Druck aus der ganzen Diskussion zu nehmen. Viele glauben heute, es werde direkte Effekte für den Kanton geben, wenn ein Tessiner im Bundesrat sitzt. Das ist Wunschdenken.

Aber verständliches Wunschdenken.

Ein Bundesrat ist kein kantonaler Vertreter. Erst kürzlich hatte ich eine Diskussion mit einer Journalistin aus der Romandie. Sie hat erzählt, wie wichtig es sei, dass der Bundesrat das internationale Genf verteidige. Da spielt die Herkunft des Bundesrats doch keine Rolle! Das kann auch jemand aus dem Appenzell. Genau das gleiche gilt für das Tessin. Als Flavio Cotti noch im Amt war, hat er geschaut, dass mehr Tessinerinnen und Tessiner in der Bundesverwaltung angestellt werden. Das ist eine realistische Einflussmöglichkeit eines Bundesrats aus dem Tessin. Alles, was darüber hinaus geht, sind überrissene Erwartungen. Ein Bundesrat kann keine Wunder wirken in der Schweizer Politik.

Ist es vielleicht sogar besser, wenn man einen nationalen Parteipräsidenten hat, der aus dem Kanton kommt, oder einen Fraktionschef im Bundeshaus wie aktuell Ignazio Cassis?

Ob es besser ist, vermag ich nicht zu sagen. Man darf diese Funktionen einfach nicht unterschätzen – dort kann man ganz konkret politische Ideen einbringen. Aber so etwas geht in der aktuellen Diskussion im Tessin leider völlig unter.

Weil ein Tessiner im Bundesrat zur Existenzfrage stilisiert wird?

Exakt. Seit Jahren klagen wir über die zu grosse Distanz nach Bern. Jetzt soll diese endlich kleiner werden. Das Problem dabei: Wenn unser Tessiner Bundesrat den ersten Entscheid fällt, der nicht wirklich tessinfreundlich ist, wird das Theater wieder losgehen: Der hat sich an die Deutschweiz verkauft! Darum sollte man von Beginn an nicht zu grosse Erwartungen aufbauen und auf dem Boden der Realität bleiben.

Woher kommt denn diese Vehemenz in der Diskussion?

Weil viele Probleme im Tessin kausal mit Versäumnissen des Bundes erklärt werden. Weil uns der Bund ignoriert, haben wir Probleme mit den bilateralen Verträgen, mit der Personenfreizügigkeit, etc. Daher kommen auch die enormen Erwartungen: Wenn wir es bei dieser Konstellation nicht schaffen, einen in den Bundesrat zu bringen, dann ist alles aus. Dann wird es richtig dramatisch. Was für eine absurde Übertreibung!

Viele glauben heute, es werde direkte Effekte für den Kanton geben, wenn ein Tessiner im Bundesrat sitzt. Das ist Wunschdenken.

Wenn es jetzt nur nach den Fähigkeiten geht: Wäre Ignazio Cassis ein fähiger Kandidat?

In meinen Augen schon. Er ist offen für verschiedene Anliegen der Wirtschaft und hat uns schon einige Male geholfen. Die Revision des Mehrwertsteuergesetzes, das vor allem Firmen im Tessin benachteiligt hat, haben wir via Ignazio Cassis in Bern eingebracht. Erfolgreich. Gleich war es bei den schwarzen Listen für Schweizer Firmen in Italien, bei denen uns Cassis aktiv geholfen hat. Er kennt auch seine Fähigkeiten ziemlich genau: Fühlt er sich bei einem Thema nicht wirklich sattelfest, überlässt er den Lead anderen. Das ist eine seltene Fähigkeit für einen Politiker.

Sein grosser Vorteil ist allerdings ein anderer: Ihn kennt man im Bundeshaus. Die mögliche Gegenkandidatin Laura Sadis nicht.

Ja, wer die Mechanismen des Bundeshauses etwas kennt, der weiss: Für Frau Sadis wird es eher schwierig.

Ob Cassis oder Sadis: Rettung wird offenbar erwartet. Dabei geht es dem Kanton doch eigentlich gar nicht so schlecht, wenn man sich Statistiken anschaut.

Das ist ein grosses Problem. Es gibt eine Kluft zwischen wirtschaftlicher und politischer Realität. Die Debatte dreht sich immer nur um das Tessin als Problemfall. Dabei sagen die Zahlen etwas ganz anderes. Fast alle wirtschaftlichen Indikatoren sind positiv. Die Arbeitslosigkeit ist mit 3,1 Prozent auf einem historischen tiefen Niveau.

Und das glaubt man ihnen nicht?

Nein. Die Arbeitslosenzahlen werden schweizweit nach dem gleichen Prinzip erfasst – hier aber gelten sie als Fake News. Jede Statistik wird einfach einmal bestritten. Deshalb vermeiden wir inzwischen bestimmte (Wirtschaftsthemen) Themen und öffentliche Auftritte. Wir sprechen lieber über Positivbeispiele und greifen ein, wo Falschbehauptungen herumgeboten werden. Aber manche Debatten haben schlicht keinen Sinn.

Sie gehen schwierigen Diskussionen aus dem Weg?

Wir bestreiten ja nicht, dass es in gewissen Bereichen Lohndumping gibt. Deshalb sind wir auch für flankierende Massnahmen und Kontrollen. Aber dass es im Tessin auch eine dynamische industrielle Wirtschaft auf hohem Niveau gibt, wird von vielen hier totgeschwiegen. Lieber senden sie nach Bern die Botschaft, dass alles hier eine einzige Katastrophe sei. Das ist einfach falsch. Wir hatten hier zum Beispiel kaum Massenentlassungen in den vergangenen Jahren.

Wie entstand diese Kluft zwischen Realität und gefühlter Realität?

Seit Jahren heisst es, die Bundesbehörden interessierten sich nicht für das Tessin. Jede Arbeitsmarktstatistik des Seco wird stets als falsch dargestellt. Eine objektive Diskussion ist so nicht mehr möglich. Natürlich begann diese Anti-Bern-Welle mit der Lega. Aber inzwischen ist diese Haltung längst Mainstream geworden. Zu viele Italiener, zu tiefe Löhne, ein soziales Desaster: So heisst es ständig.

Tatsache ist doch aber auch, dass viele Tessiner Unternehmen lange lieber Grenzgänger zu Tieflöhnen anstellten statt Einheimische.

Die Verfügbarkeit von vielen italienischen Grenzgängern ist für hiesige Firmen natürlich eine grosse Versuchung. Das ist so. Aber es hat auch ein Umdenken gegeben. Nur wird das in der öffentlichen Meinung nicht honoriert. Stattdessen beklagt man, dass es jetzt viel mehr Teilzeitstellen gebe. Dabei ist das auch politisch gewollt, um mehr Frauen in den Arbeitsmarkt zu bekommen. Statt darüber zu diskutieren, jammert man lieber.

Das Tessin gilt inzwischen als Jammerkanton schlechthin.

Dabei haben wir nichts zu bejammern! Wenn wir in den vergangenen Jahren ein Problem in Bern deponierten, fanden wir offene Türen vor im Parlament und in der Verwaltung (auch im Bundesrat)– vorausgesetzt, unsere Anliegen waren gut abgestützt und begründet. Da haben es Kollegen aus anderen Regionen nicht einfacher.

Alles blendend also im Tessin?

Nein, das auch nicht. Aber wir befinden uns im Schweizer Durchschnitt. Das war vor zwanzig Jahren noch ganz anders. Unsere Entwicklung ist eine positive.

Perché i conti non tornano mai

di Alessio del Grande

Inutile girarci attorno, sino a quando lo Stato continuerà a spendere più di quanto incassa, non ci sarà mai un vero risanamento delle finanze cantonali. Anzi, per sostenere gli aumenti continui di spesa s’inasprirà, sotto varie forme, la pressione fiscale su cittadini e imprese. Con il preventivo 2017 si è assistito al rituale tormentone di una classe politica che invoca sì risparmi, ma allo stesso tempo è avvezza a sollecitare nuove spese, e soprattutto incapace di affrontare quei nodi strutturali che impediscono di perseguire un reale rigore finanziario.

La situazione resta, infatti, molto critica. Con il consuntivo del 2016 non c’è stato un vero miglioramento: se il bilancio dello scorso anno si è chiuso con un deficit di 47, 4 milioni di franchi, anziché di 88, ciò è dovuto alle entrate fiscale superiori a quanto preventivato. Senza questi maggiori introiti, il consuntivo si sarebbe chiuso in rosso per 104 milioni.

Si conferma, insomma, la costante che da troppi anni sta logorando le finanze cantonali: le uscite aumentano più delle entrate. Anche nel 2016 la spesa ha registrato un’ulteriore crescita di 16 milioni. Certo, il pareggio del conto della gestione corrente per il 2019 è un obiettivo raggiungibile, ma servirà a ben poco se non si risolve il problema di fondo: la crescita inarrestabile della spesa pubblica. L’unica strada per farlo è di mettere mano, una volta per tutte, alla riforma dei compiti dello stato.

Una riforma di cui si parla da almeno un ventennio, ma mai avviata perché richiede una diversa cultura politica che sinora è mancata. Senza questa cultura capace di ragionare non solo in termini di entrate e uscite, di spendi e tassa, ma nei termini invece di un differente rapporto tra stato e cittadini, amministrazione pubblica e società civile, tra pubblico e privato, non si uscirà mai dal cul de sac dei deficit ricorrenti e di un debito pubblico ormai vicino ai 2 miliardi di franchi.

Riforma dei compiti dello stato significa innanzitutto passare ai raggi X tutto il funzionamento dell’amministrazione cantonale e i servizi offerti alla collettività (un lavoro del genere, rimasto purtroppo lettera morta, era stato fatto quando in governo c’era Marina Masoni), ma significa anche saper guardare alla società civile, alle risorse e alle idee di un’articolazione sociale a cui lo stato potrebbe delegare non poche attività. Qui non si sta facendo l’elogio del privato a scapito di uno stato che si ritiene inefficiente, si sta invece parlando di un’equilibrata complementarietà tra prestazioni e servizi che deve necessariamente garantire lo stato e quelli di cui si può far benissimo carico il mercato, secondo una logica condivisa di ripartizione delle responsabilità tra pubblico e privato.

Riforma dei compiti dello stato significa innanzitutto passare ai raggi X tutto il funzionamento dell’amministrazione cantonale

Soltanto questa radicale innovazione istituzionale permetterà di risanare strutturalmente le finanze del cantone e di liberare le risorse necessarie per affrontare le sfide di quella grande trasformazione generata dall’economia digitale e dalla robotica. Un cambiamento che, inevitabilmente, produrrà scompensi economici e sociali. Tanto più un cantone dove la politica sociale è alle corde per mancanza di mezzi e dove le imprese da 12 anni non beneficiano di sgravi fiscali.

Vanno ripensati l’attuale Welfare statale, troppo improntato sulla statalizzazione della solidarietà più che sulla autopromozione individuale, e la politica fiscale per imprese e cittadini se si vuole che garantiscano sempre entrate adeguate per l’erario. Per farlo bisogna, però, avere risorse finanziarie sufficienti, il che è possibile solo rendendo meno costosa, ma più efficiente, la macchina dello stato.

La nostra economia non è più a rimorchio

L’economia ticinese non è più a rimorchio delle altre economie svizzere, anzi, si colloca a un buon livello di competitività nel contesto nazionale e internazionale.

Intervista a Luca Albertoni, Direttore Cc-Ti, pubblicata sul Giornale del popolo

“L’andamento economico ticinese segue le evoluzioni svizzere.”

Secondo un recente studio condotto da 6 banche cantonali romande e l’Istituto di ricerche congiunturali CREA, il PIL ticinese dal 2000 al 2015 è cresciuto del 30,4%, posizionando il nostro Cantone al quarto posto tra le regioni più prospere d’Europa. Qual è la sua prima reazione di fronte a questo dato?

Sulle classifiche ho sempre qualche riserva, ma al di là della collocazione precisa nella graduatoria, non sono per nulla sorpreso di un risultato positivo. E il fatto che siano le banche cantonali romande a dirlo, che non hanno nessun interesse a elogiare il Ticino, conferisce un valore particolare alla cosa. Da anni constatiamo, nel confronto diretto con i colleghi delle Camere di commercio e dell’industria degli altri cantoni, che l’andamento economico ticinese segue le evoluzioni svizzere, cosa che non si verificava venti anni fa. La forte diversificazione del nostro tessuto economico, la grande espansione delle esportazioni e l’aumento della vocazione all’internazionalizzazione sono elementi che hanno permesso un’evoluzione positiva della nostra economia e che ci collocano su un buon livello di competitività nel contesto nazionale e internazionale. Poi si può discutere a lungo cosa sia la prosperità e se il PIL costituisca l’unica unità di misura da considerare, ma è un fatto che noi quotidianamente sul terreno rileviamo che il “gap” che una volta esisteva rispetto alle altre regioni svizzere non c’è più. Non è del resto un caso che, malgrado le note trasformazioni legate ad esempio alla piazza finanziaria e tre crisi pesanti (finanziaria nel 2008 e valutaria nel 2011 e nel 2015), Il Ticino abbia saputo contenere gli effetti negativi, mantenendo sempre livelli ragguardevoli. Cosa non verificatasi in altre regioni come l’arco giurassiano o la Svizzera orientale che hanno perso migliaia di posti di lavoro, soprattutto a seguito della crisi del 2015. Questi sono fatti.

Negli ultimi 15 anni, sempre secondo questo studio, il nostro Cantone ha aumentato, e di parecchio,complessivamente la propria ricchezza, eppure la percezione nel Paese sembra essere diversa, quasi opposta. Qual è la sua opinione al riguardo?

La percezione non va mai sottovalutata ed è giusto tenerne conto, anche perché rispecchia una reazione molto umana. E’ chiaro che sono sparite molte certezze, da quella della piazza finanziaria praticamente inaffondabile alla presenza rassicurante delle regie federali. E’ quindi abbastanza normale che vi siano timori, anche perché un’economia più diversificata e dalle dinamiche certamente più complesse è meno “tangibile” e quindi foriera di maggiori insicurezze. Ed è innegabile che la concorrenza sia cresciuta in tutti gli ambiti, compreso il mercato del lavoro. Fenomeni di per sé non negativi, ma che, in quanto relativamente nuovi per la nostra realtà, creano disagi. Che umanamente comprendo, ma il mio compito è di far capire anche i vantaggi legati a questa nuova situazione, intervenendo al contempo con grande disponibilità per correggere le distorsioni di cui non ho mai negato l’esistenza. Cerco così di dare il mio contributo nella discussione pubblica non per relativizzare le paure, ma per dare quella che a mio avviso è la giusta proporzione ai vari fenomeni di cambiamento che stiamo vivendo.

Quali sono, a suo giudizio, le strade da percorrere a più livelli (politico, sociale e strategico) per riallineare, posto che è possibile, le percezioni del Paese con i dati economici, per una convivenza il più possibile pacifica tra economia e società?

Non sono molto ottimista, se consideriamo che sui dati non si discute più confrontandosi in maniera oggettiva, ma definendoli semplicemente taroccati quando non dimostrano le proprie tesi. Questo purtroppo non serve a risolvere i problemi. Penso sia importante che i vari dati ufficiali pubblicati siano presentati in maniera dettagliata e non solo “sparati” senza distinzioni. Solo così si può dibattere in maniera costruttiva. Poi è ovvio che le aziende devono avere comportamenti corretti, ma su questo lavoriamo quotidianamente e la disponibilità è ampia.

Commercio e turismo: qualche cifra e una riflessione

Testo a cura di Luca Albertoni, direttore Cc-Ti

La Cc-Ti, quale associazione-mantello dell’economia cantonale rappresenta molte realtà. Diamo pertanto spazio ai vari rami economici con alcune indicazioni su quello che essi rappresentano. Iniziamo dai settori del commercio e del turismo, molto legati non solo dal punto di vista dei rilevamenti statistici, ma anche perché strettamente connessi sul fronte dei servizi agli ospiti del nostro territorio.

Il settore del commercio e turismo strettamente connessi

Il commercio, i servizi di alloggio e di ristorazione e il turismo rappresentano circa il 20% del PIL in Ticino, quindi oltre 5 miliardi di franchi. Parliamo di quasi 10’000 aziende attive, che impiegano oltre 35’000 collaboratrici e collaboratori (si tratta dei posti equivalenti al tempo pieno). Interessante è sottolineare che, per quanto riguarda il commercio al dettaglio, spesso considerato anello debole dell’economia e con poche ricadute sul territorio, esso conta circa 3’700 aziende, impiegando 12’000 persone (in equivalenti a tempo pieno). E le relative imprese versano 38 milioni di franchi di imposte. Le imposte pagate dagli impiegati di questo specifico settore ammontano a oltre 46 milioni di franchi, nel contesto di una massa salariale erogata di circa 650 milioni di franchi.

Il commercio, i servizi di alloggio e di ristorazione e il turismo rappresentano circa il 20% del PIL in Ticino, quindi oltre 5 miliardi di franchi. Parliamo di quasi 10’000 aziende attive, che impiegano oltre 35’000 collaboratrici e collaboratori.

Molte cifre per sfatare qualche mito che vuole queste aziende staccate dal territorio ticinese perché facenti parte di gruppi nazionali. Senza dimenticare gli investimenti negli stabili che superano agevolmente i 100 milioni di franchi annui e gli oltre 40 milioni destinati ad aziende locali per le attività pubblicitarie, nonché gli acquisti della stessa entità circa effettuati presso i produttori locali. Cifre non da poco, derivanti da fonti ufficiali, di cui si dovrebbe tenere maggiormente conto quando si parla di aziende e territorio e si ipotizzano misure di vario genere per risolvere problemi veri o presunti. L’interconnessione evidente fra il settore del commercio e quello dell’albergheria e della ristorazione è resa evidente dal fatto che, secondo le stime delle associazioni di categoria, i turisti generano in Ticino un volume di acquisti di oltre 400 milioni di franchi annui.

Cambiamenti importanti in questi rami economici

I cambiamenti in atto in questi rami economici sono sotto gli occhi di tutti. Franco forte, digitalizzazione, acquisti all’estero e su internet, ecc. sono concetti ormai espressi ogni giorno e che non necessitano ulteriori spiegazioni per illustrarne gli effetti, da tempo dibattuti. L’andamento altalenante dei settori in questione può però probabilmente trovare un equilibrio attraverso un maggiore coordinamento, perché un’offerta più coordinata non va a beneficio unicamente dei turisti, ma anche e soprattutto del territorio ticinese, come dimostrano ampiamente le cifre menzionate in precedenza. Comprensibili e condivisibili quindi gli appelli in tal senso giunti in particolare dall’ambito degli esercenti nelle ultime settimane, perché il legame fra commercio al dettaglio, servizi alberghieri e ristorazione è un elemento di successo di molti territori, anche in Svizzera. Basta dare un’occhiata agli orari di apertura, anche domenicale, dei negozi di stazioni turistiche importanti come Zermatt o Saas-Fee, dove il discorso di accoglienza è affrontato in maniera globale. Non vi sono motivi perché una formula di questo genere, sulla quale il Ticino sta comunque lavorando, non possa essere la chiave di volta per affrontare i molti cambiamenti strutturali che toccano anche il nostro cantone.