Dazi USA: primi effetti

Aziende ticinesi sotto pressione

Da settimane i rapporti commerciali con gli Stati Uniti occupano le prime pagine e le agende di imprese e istituzioni. La decisione americana di imporre un dazio del 39% sulle merci di origine svizzera rappresenta un provvedimento tanto gravoso quanto difficile da comprendere nelle sue motivazioni.
E non facilmente “aggirabile”, perché è bene ribadire, con chiarezza, che il criterio discriminante per l’applicazione dei dazi è l’origine doganale della merce: non contano altre variabili o stratagemmi spesso descritti con eccessiva leggerezza come “vie d’uscita” o soluzioni miracolose.
Non siamo di fronte a un tecnicismo burocratico: l’origine della merce costituisce un elemento centrale della disciplina commerciale internazionale e, di conseguenza, un fattore determinante per le autorità di tutto il mondo e per le strategie aziendali.

Le imprese elvetiche si trovano attualmente a dover prendere decisioni rapide in un contesto che offre pochissime garanzie di stabilità. A oggi i dazi applicati alle merci europee sono ad esempio inferiori del 24% rispetto a quelli gravanti sui prodotti svizzeri, ma resta aperta la domanda: per quanto tempo questa disparità durerà? L’accordo tra Stati Uniti e Unione europea è stato pubblicato da pochi giorni e su diversi punti pesa, comunque, ancora l’incertezza quanto a interpretazione, conseguenze, ecc.
Nei nostri recenti interventi abbiamo più volte sottolineato la complessità del quadro generale. Parlare di delocalizzazione come risposta immediata non è realistico, perché trasferire anche solo una parte di un’attività produttiva richiede tempo, capitali e analisi approfondite. E una volta delocalizzata l’attività non si può fare marcia indietro a piacimento. Lo stesso vale per l’apertura di nuovi mercati. Un percorso che le imprese svizzere intraprendono in modo sistematico da anni, spesso indipendentemente da situazioni di crisi. Non è infatti da vedere come una mossa “disperata” dettata da necessità contingenti, bensì di un lavoro continuo, che comporta investimenti, valutazioni di rischio, ricerca di partner affidabili e tempi fisiologici di consolidamento.
Vale la pena sottolineare che questa attenzione costante delle aziende svizzere alle misure da intraprendere non è una novità. È una realtà che si è manifestata più volte anche in passato, quando il nostro tessuto imprenditoriale ha dovuto fronteggiare crisi di grande portata – dalla crisi finanziaria internazionale al franco forte, fino alla pandemia. Esperienze che hanno dimostrato la resilienza e la capacità di adattamento del sistema produttivo, pur all’interno di scenari difficili e spesso imprevedibili.

Il peso del mercato USA

Al tempo stesso, occorre ricordare che, nel caso specifico, il mercato statunitense non è facilmente sostituibile. Le sue dimensioni, la capacità di spesa e il grado di apertura a beni ad alto valore aggiunto lo rendono un interlocutore quasi imprescindibile. Ogni ipotesi di riduzione della presenza svizzera negli USA deve dunque essere valutata con estrema cautela, poiché implica conseguenze economiche e strategiche non paragonabili a quelle di altri mercati.
Per avere un quadro più preciso e fondato su dati concreti della situazione attuale, la Cc-Ti ha interpellato un campione rappresentativo di aziende associate attive a livello internazionale, appartenenti a settori differenti, per avere un primo rilevamento indicativo delle conseguenze per il tessuto economico ticinese.
In totale, hanno partecipato al sondaggio una sessantina di aziende prevalentemente attive nei comparti MEM (che costituiscono la quota principale), Logistica & Trasporti (14%), Farma/ Medtech/Biotech (7%) e Alimentare & Bevande (7%). Oltre la metà appartiene al settore industriale manifatturiero. Due terzi delle imprese hanno tra 1 e 49 dipendenti, mentre un terzo si colloca nella fascia 50-249.
Per una buona parte delle imprese, l’export verso gli Stati Uniti rappresenta meno del 10% del fatturato. Tuttavia, nel settore MEM la quota cresce in maniera significativa, raggiungendo in alcuni casi anche il 50%. È interessante rilevare come quasi la metà delle aziende dichiari di subire anche effetti indiretti – attraverso clienti o fornitori – e non solo un impatto diretto. Soltanto una minoranza afferma di non essere colpita.
Fra chi è esposto, il peso del dazio risulta tutt’altro che marginale: per il 36% delle imprese l’impatto stimato arriva fino al 25% del fatturato, mentre per il 9% supera tale soglia.
In sostanza, il sondaggio evidenzia che oltre l’84% delle aziende risulta direttamente o indirettamente esposto ai dazi USA. L’impatto più forte colpisce la redditività: quasi la metà delle imprese segnala effetti negativi rilevanti sui margini, mentre oltre il 42% teme cali di fatturato. Le ripercussioni
occupazionali, pur meno marcate, restano significative, con quasi un’azienda su tre che ipotizza riduzioni di organico se la situazione attuale dovesse perdurare.
Dal punto di vista strategico, la delocalizzazione produttiva viene valutata da circa il 23% come un’opzione di lavoro concreta
, mentre quasi un quinto individua nell’automazione un possibile correttivo per mitigare l’effetto dei dazi e rilanciare la competitività.
Nonostante ciò, le strategie di risposta al nuovo regime dei dazi appaiono ancora parziali e non strutturate, come è normale che sia in una situazione del genere.
Prevale un certo attendismo che però deve essere combinato con valutazioni strategiche molto avanzate. Un dilemma all’insegna dell’incertezza che complica notevolmente il lavoro. Le ipotesi di compensazione su altri mercati o di ricorso al lavoro ridotto emergono, ma la quota di indecisi dimostra che prevale, appunto, l’attesa. Molte imprese stanno avviando confronti diretti con i partner americani per valutare una condivisione del peso dei dazi. In alcuni casi i maggiori costi possono essere trasferiti ai consumatori finali, in altri – specie in settori sensibili al prezzo – questo non è possibile.


Accordi bilaterali III fra Svizzera e Unione europea (UE)

Nel giugno del 2025 il Consiglio federale ha approvato gli accordi con l’UE e ha avviato la procedura di consultazione, che durerà fino alla fine di ottobre. Per la fase che va dalla fine del 2024 all’’entrata in vigore del pacchetto, la Svizzera e l’UE hanno definito disposizioni transitorie relative al livello di partenariato e di cooperazione.
L’adozione del messaggio all’attenzione del Parlamento è prevista per il primo trimestre del 2026. Solo l’Accordo sui programmi UE (EUPA) dovrebbe essere firmato dal Consiglio federale già verso la fine dell’autunno 2025. Tale firma consentirà alla Svizzera di partecipare retroattivamente come Stato associato ai programmi Orizzonte Europa, Euratom ed Europa Digitale dal 1° gennaio 2025.

I nostri ospiti, che rappresentano il mondo politico, economico, sindacale e accademico, aiuteranno a comprendere la rilevanza della posta in gioco.

Vi diamo appuntamento il prossimo 19 settembre 2025, dalle ore 18.00, presso il Teatro sociale di Bellinzona, per questo importante momento di confronto che prevede il seguente programma:

  • Saluto introduttivo di Luca Albertoni, Direttore della Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del cantone Ticino e di Jon Pult, Consigliere nazionale e Presidente dell’Associazione svizzera di politica estera
  • Intervento del Consigliere federale Ignazio Cassis, Capo del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE)

Seguirà una discussione con

  • Vania Alleva, Presidente nazionale del sindacato UNIA
  • Monika Rühl, Presidente della Direzione generale di economiesuisse
  • Giovanni Merlini, Avvocato e Presidente della Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI)

La discussione sarà moderata da Pietro Bernaschina, Responsabile attualità TV della Radiotelevisione Svizzera di lingua Italiana (RSI).

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