Per salvaguardare l’export svizzero sono necessarie stabilità e certezze

Poche settimane fa, la classifica annuale dell’International Institute for Management Development (IMD) ha aggiudicato alla Svizzera il terzo posto nella classifica mondiale della competitività. Come si riflette ciò sull’export svizzero? Riflessioni e considerazioni sul presente e sul futuro.

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La Confederazione ha guadagnato una posizione nella classifica mondiale della competitività rispetto allo scorso anno e si è piazzata dietro Singapore e Danimarca. Il nostro Paese – ricorda l’IMD – ha un’economia vigorosa sostenuta da diversi fattori, tra i quali: ottima formazione, sanità efficiente, stabilità e trasparenza delle istituzioni politiche, solide finanze pubbliche e un’eccellente infrastruttura scientifica, che si traducono anche nella capacità di attrarre talenti dall’estero. Un tessuto produttivo agile e dinamico alimentato da sempre – si sottolinea – da un robusto commercio internazionale. Un modello di successo basato sull’innovazione continua, una forte etica d’impresa e del lavoro, e su un sistema Paese aperto al mondo che ha saputo promuovere, con un pragmatico sviluppo delle relazioni internazionali, un ruolo di primo piano della Svizzera nella rete degli scambi mondiali. Questa spiccata capacità d’intraprendere e di relazionarsi positivamente con gli altri Paesi ha trasformato una nazione di appena 8,5 milioni di abitanti e quasi del tutto priva di materie prime, in una realtà annoverata oggi tra le 20 principali potenze economiche del pianeta, all’avanguardia nella ricerca avanzata e da anni ai vertici delle classifiche sulla competitività, l’innovazione e il reddito pro capite. Purtroppo la crisi del coronavirus ha frenato bruscamente il commercio mondiale uno dei principali driver della crescita elvetica, con pesanti ripercussioni per l’export che hanno penalizzato, in particolare, le piccole e medie imprese orientate sui mercati esteri. Secondo l’ultimo sondaggio di Switzerland Global Enterprise (SGE), la pandemia ha causato il crollo del clima delle esportazioni tra le PMI. Anche il barometro delle esportazioni del Credit Suisse ha registrato un’allarmante picchiata.

Nubi sull’export

I risultati del sondaggio S-GE, effettuato tra l’inizio di maggio e i primi di giugno su un campione di 200 aziende di diversi settori produttivi, non sono per nulla rassicuranti. Alla fine del primo semestre del 2020, il 65% delle PMI segnala una contrazione delle esportazioni. Per l’81% delle imprese intervistate la pandemia ha conseguenze negative soprattutto per il crollo della domanda, la flessione nelle vendite e nel fatturato e la mancanza di aspettative affidabili nella pianificazione aziendale. Per il secondo semestre dell’anno soltanto il 39% delle PMI prevede un aumento dell’export, il 23% ipotizza una stagnazione e il 38% un’ulteriore diminuzione. Anche gli indicatori del Credit Suisse sulla domanda estera di prodotti svizzeri restano nettamente al di sotto della soglia di crescita, segnando minimi storici. Scenario altrettanto cupo nell’ultimo sondaggio di economiesuisse il 72% delle imprese esportatrici ipotizza, difatti, una riduzione delle vendite nei prossimi mesi, considerate anche le persistenti difficoltà sui principali mercati di riferimento, in primo luogo quello dell’UE. Il blocco della produzione e le misure protezionistiche adottate dagli Stati per contrastare l’emergenza sanitaria ed economica provocata dal Covid-19, hanno dissestato le catene internazionali dell’approvvigionamento e della distribuzione, innescando, peraltro, una battuta d’arresto per gli investimenti. Tanto per farsi un’idea della paralisi che ha sconnesso il flusso globale degli scambi, lo scorso maggio le grandi organizzazioni del trasporto commerciale marittimo segnalavano per il 65% dei porti europei un calo di circa un quarto del traffico merci e un aumento del 350% per le cancellazioni delle partenze di navi portacontainer dall’Asia verso l’Europa, rispetto allo stesso periodo del 2019. Un quadro preoccupante attutito solo da qualche leggero segnale di ripresa per l’export dell’industria metalmeccanica ed elettrica dei Paesi asiatici e dalle considerazioni dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), secondo cui si è riusciti, almeno per ora, a scongiurare lo scenario più catastrofico per gli scambi internazionali. Ma, per dirla come il Presidente della FED Jerome Powel, le prospettive per l’economia restano «straordinariamente incerte».

Di crisi in crisi

L’economia svizzera è riuscita a superare la crisi finanziaria del 2008, l’impatto del franco forte e gli effetti nefasti della guerra dei dazi tra USA e Cina, confermando nel 2019 una ottima tenuta delle esportazioni con un aumento del 3,9 % (import: +1,6%). Un risultato notevole, visto il clima di forti tensioni geopolitiche e con una congiuntura mondiale estremamente instabile, ottenuto grazie soprattutto alla diversificazione degli sbocchi di mercato. Strategia quest’ultima in cui si è distinto particolarmente il Ticino con una progressiva internazionalizzazione delle imprese, supportata anche da un intenso impegno della Cc-Ti con le sue missioni all’estero e l’ampia offerta di servizi di consulenza e informazione per le aziende esportatrici. Va ricordato, al riguardo, che nel 2018 l’export del Cantone Ticino era cresciuto del 14,1%, ossia quasi tre volte la media nazionale.

Ma dietro il successo delle esportazioni elvetiche c’è un paziente e sapiente lavoro di tessitura di relazioni internazionali, di accordi bilaterali e intese commerciali con gruppi di Stati, che hanno aperto alle imprese nuove frontiere per il business e reciproche opportunità negli investimenti diretti esteri. Sono ben 450mila i posti di lavoro nella Confederazione garantiti dagli investimenti stranieri. Oggi però ci si trova a fronteggiare le devastanti conseguenze della pandemia che hanno ulteriormente inasprito la guerra commerciale tra Pechino, Washington e Bruxelles. Rafforzando in quasi tutti Paesi i vecchi demoni del protezionismo, dell’isolazionismo e del nazionalismo, che rischiano di inceppare del tutto il commercio mondiale. Veleno puro per la Svizzera, nazione esportatrice per eccellenza che, non potendo neanche contare su un sufficiente mercato interno, è cresciuta e prosperata col libero scambio.

Servono stabilità e certezze

In una situazione geopolitica pericolosamente tesa, un’economia vocata tradizionalmente all’export come la nostra avrebbe bisogno di più stabilità e certezze, quantomeno nei rapporti con i suoi principali partner commerciali. Innanzitutto, con l’UE che resta ancora il mercato più importante assorbendo il 51,2% delle esportazioni (oltre 120 miliardi di franchi) contro il 15,9% degli USA, il 4,5% della Cina e il28,3% del resto degli altri Paesi. Uno sbocco vitale ha ricordato economiesuisse, per tutto il tessuto produttivo rossocrociato: dal caseificio di montagna che può vendere in ogni angolo d’Europa senza ostacoli alla start-up che può acquisire un know-how internazionale  partecipando ad un programma europeo di ricerca; dalla piccola impresa (e sono ben 96mila le PMI esportatrici) che rafforza la sua posizione nelle filiere di creazione del valore, fornendo magari solo componenti per il prodotto finale di un gruppo dell’UE alla grande azienda che ha accesso ad un mercato di 500 milioni di consumatori. Ma non si tratta solo di vendere merci e servizi, senza cui la Svizzera perderebbe tra i 37 e i 64 miliardi di franchi all’anno. Dal settore dell’export dipendono infatti 1,5 milioni di impieghi e già nel 2016, stando ai calcoli di economiesuisse, il reddito pro capite in Svizzera  era di circa 4’400 franchi in più rispetto a quanto sarebbe stato senza gli accordi bilaterali con Bruxelles. L’accesso al mercato UE, ha sottolineato la Fondazione Bertelsmann, favorisce la popolazione dei piccoli Paesi esportatori. Con un aumento del reddito annuo pro capite stimato nel 2019 in 2’914 euro, la Svizzera è la grande beneficiaria, superando il Lussemburgo (2’814 euro), l’Irlanda (1’894 euro) e davanti persino alla Germania  (1’046 euro).