Imagine all the people…

Immaginate un ambiente di lavoro in cui si viva in un’armonia costante. Le persone non hanno bisogno di discutere, perché le loro idee sono allineate a quelle degli altri. Non vi sono discussioni e l’accordo in tutte le questioni è sempre totale.

Immaginate un mondo fatto di persone come voi. Di persone che pensano all’unisono e che si assomigliano. Di persone che parlano tutti la stessa lingua, hanno le stesse usanze, regole e culture.

Non vi sono dibattiti politici, si è facilmente allineati in un’unica direzione sociale ed economica.

Immaginate di non trovarvi mai in un dubbio amletico, in cui fra due strade, due alternative di vita, non sapete davvero cosa scegliere perché le vorreste entrambe. Oppure di non trovarvi mai a volere qualcosa, ma non avere al momento le risorse per ottenerla.

Immaginate un mondo senza conflitti e pensate se non sia un bel sogno.

Poi andate su Google e cercate “Challenger shuttle”. Avete capito bene. Sto parlando di un disastro.

La mattina del 28 Gennaio 1986, alle ore 11.39 ora di Houston, dopo 73 secondi di volo la navetta spaziale americana Challenger, con 7 astronauti a bordo tra cui un civile esplode drammaticamente in volo. È il peggior disastro spaziale americano fino a quel momento ed è accaduto perché qualcuno che era al comando della NASA pretendeva un mondo come quello che avete immaginato. Un mondo senza conflitti, un mondo di pensiero unico.

In una riunione prima del lancio due ingegneri avevano sollevato la possibilità che a causa delle basse temperature della notte, le guarnizioni di gomma dei due razzi che spingono lo shuttle avessero perso le loro qualità di flessibilità e ci fosse una fuoriuscita di carburante. Non solo non furono ascoltati, ma furono rimossi per inserire altre due persone che la pensassero come i dirigenti che volevano lanciare e dunque permettessero il lancio. La cosa interessante è che la commissione d’inchiesta avrebbe assolto tutti se ancora una volta non fosse stato per un unico diverso, caparbio, testardo e rompiballe, come il fisico e premio Nobel Richard Feynman, che denunciò al Presidente degli USA quanto accaduto e dimostrò fisicamente come la gomma delle guarnizioni avesse ceduto. Vorremmo un mondo senza conflitti e non vivere mai conflitti, ma forse dovremmo riflettere sul conflitto e sul nostro modo di affrontarlo.

Ci siamo abituati a pensarlo negativamente, perché affrontare un conflitto costa energia, fatica; non vogliamo più fare fatica e non vogliamo “stressarci”.

Perciò abbiamo imparato a dribblarlo, evitarlo, scansarlo, a temerlo considerandolo un male. Ma la questione non sta nel conflitto che essendo un dato di realtà non è in sé né negativo né positivo, ma nel modo come noi lo affrontiamo. È l’esito del conflitto, cioè il modo come ne usciamo, quello che guadagniamo o perdiamo, quello che apprendiamo o non capiamo che ne determina la positività o la negatività.

Gli ambienti senza conflitti sono ambienti piatti, incapaci di generare idee nuove, incapaci di vedere le minacce incombenti, incapaci di competere e di vincere la competizione, incapaci di capire davvero in che consiste la mia identità di uomo e di comprendere quella degli altri.

Gli ambienti dove i conflitti sono mal gestiti sono invivibili, nevrotici, malati, oppure dove il gossip, il sussurro velenoso dietro le spalle del potente, è il motore delle dinamiche aziendali.

Siamo meno attrezzati ad affrontare il conflitto di quello che erano le generazioni che ci hanno preceduto; con ciò siamo diventati meno capaci di affrontare le sfide che il mondo moderno ci pone.

Eppure, nella drammaturgia l’uomo e le sue qualità si rivelano sempre nell’affrontare i conflitti, che siano psicologici oppure con qualcosa o qualcuno.

Se infatti l’uomo non avesse sperimentato mai il conflitto fra la sua pancia bisognosa di cibo e la paura di essere ucciso da bestie feroci, se non avesse mai sperimentato il conflitto fra il desiderio di sapere cosa c’è al di là del limite e il timore di superarlo, saremmo rimasti per sempre nelle caverne.

Non potendo evitarlo, dovremmo apprendere a gestire il conflitto attrezzandoci adeguatamente.

Testo a cura di:
Andrea Abbatelli, Partner KIAI Sagl, Arzo

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