UNA chiusura, TANTE chiusure

La mancata attività di un settore trascina inevitabilmente con sé centinaia di realtà, microimprese e piccole aziende, spesso a conduzione famigliare, che di fatto stanno perdendo una fetta del loro mercato più importante e che non sanno più come fare quadrare i conti.

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Solo poche settimane fa l’Interprofessione della Vite e del Vino aveva lanciato un SOS a nome di tutta la filiera dell’agroalimentare: allevatori, contadini, alpigiani, panettieri, macellai e tante altre categorie produttive che, anche se non toccate direttamente dal semi-confinamento, sono in sofferenza per la prolungata chiusura dei loro clienti abituali (ristoranti, bar, banchettistica, eventistica, ecc.). In crisi c’è tutta una filiera dimensionata direttamente sul territorio che assicura peraltro anche buoni sbocchi occupazionali nelle valli e nelle zone rurali. Un settore che, abbinato al turismo, rappresenta il marchio dell’identità territoriale, con un potenziale di crescita notevole, tant’è che sin dal 2008 è stato inserito nei Programmi di attuazione della politica regionale del Cantone. L’agroalimentare è, per esempio, una componente strategica di un’altra filiera fondamentale per l’economia, quella dell’industria delle vacanze: hotel, garni, campeggi, B&B, ristorazione, bar, negozi, musei, ritrovi, offerta culturale e d’intrattenimento, servizi per il tempo libero, trasporti e agenzie di viaggio, sono gli anelli della catena del turismo che rappresenta una delle più importanti voci del PIL cantonale. Molti albergatori in questi mesi si sono ritrovati col deserto attorno e, fatti quattro conti, hanno deciso, ragionevolmente, di chiudere temporaneamente per evitare il totale fallimento. Se si pensa che su un buon albergo gravitano in media 300 attività indotte, tra fornitori e servizi esterni che sono pure rimasti con le mani in mano, si può immaginare quanto possano essere ingenti le perdite per tutti.

La chiusura di bar e ristoranti, fermi ormai dalla fine del novembre scorso, si ripercuote su tutto un tessuto economico e sociale, poiché il modello della filiera presuppone per sua natura l’interazione e la sinergia tra una molteplicità di operatori, con benefici e vantaggi reciproci. Se la serrata degli esercizi pubblici dovesse protrarsi, compromettendo con la Pasqua anche l’avvio della nuova stagione turistica, le conseguenze sarebbero catastrofiche. Avevamo già citato anche alcune cifre significative dell’importanza anche dei club sportivi
per l’economia cantonale, osservando i numeri dell’hockey su ghiaccio e calcio della stagione 2018-2019: 66 milioni di franchi di cifra d’affari, 440 collaboratori sotto contratto (indeterminato o determinato), 350 collaboratori esterni, 1’200 fornitori esterni, 402’000 spettatori paganti, oltre 1’700 ragazzi e ragazze dei settori giovanili in formazione. L’azienda “sport in Ticino” si è dimostrata strettamente legata e correlata al nostro territorio e ogni limitazione anche in questo campo ha ripercussioni fortissime sui diretti collaboratori ma anche su centinaia di fornitori. Abbiamo la fortuna di avere un tessuto economico diversificato, per cui spesso le difficoltà di un settore sono compensate da altri. Ricordiamo, ad esempio, che durante il lockdown primaverile l’industria fortunatamente aveva potuto continuare a lavorare, seppure a ritmi ridotti, in tutta sicurezza, rivelandosi fondamentale per il mantenimento di un sostenibile andamento economico generale. Ma, nel caso concreto, se non si riuscirà a far continuare a funzionare il sistema economico con troppe limitazioni, non si potranno più limitare i danni. È ovvio che in un meccanismo complesso e interconnesso come quello economico, ogni piccolo ingranaggio che si blocca ha conseguenze su molti altri. Vale per tutti i settori, nessuno escluso.

L’emergenza sanitaria ha innescato, parallelamente, un’emergenza economica e sociale, la cui portata reale non è ancora ben definita, ma che certamente avrà un notevole impatto anche negli anni a venire. Quando per di più ci troveremo confrontati anche con le profonde trasformazioni strutturali generate dall’accelerazione digitale. Tutta l’economia sta subendo pericolosi scompensi. La liquidità delle aziende è andata prosciugandosi, riducendo così anche le possibilità d’investimento e d’innovazione, mentre sulle filiere produttive locali, nazionali e internazionali pesano i ripetuti lockdown, la contrazione dei mercati di riferimento e il crollo della produzione a livello mondiale. Pensiamo, ad esempio, agli investimenti, fondamentali per rimanere competitivi e quindi anche assicurare l’occupazione. È un peccato perché le aziende ticinesi, negli scorsi anni, avevano dimostrato una grande propensione agli investimenti, spesso superiore alla media degli altri cantoni. Ma in queste condizioni diventa, oggettivamente, molto difficile.

I lockdown destabilizzano le catene globali

A soffrire sono anche tante imprese direttamente orientate sull’export o che lavorano da terziste per grandi gruppi attivi sul mercato nazionale o mondiale. Un comparto che negli ultimi decenni ha conosciuto una notevole espansione grazie alla progressiva internazionalizzazione del nostro sistema produttivo. Ma gli stop and go che, tra confinamenti totali o parziali, stanno facendo sussultare l’economia in tutti i Paesi avanzati e la crisi dei mercati, hanno destabilizzato le filiere produttive nazionali e globali.
L’industria orologeria ticinese, ad esempio, con una trentina di aziende e circa 3000 addetti, è una “multinazionale tascabile” distribuita sul territorio che produce tutte le parti necessarie alla fabbricazione degli orologi. Ogni anno assembla milioni di pezzi (oltre il 30% della produzione nazionale) per un valore che supera i 450 milioni di franchi, esportando in Europa, Asia, India, Medio Oriente e Usa. Nonostante gli aiuti della Confederazione (crediti COVID e lavoro ridotto), alcune aziende sono state costrette a chiudere. Altre hanno dovuto licenziare. Tutte lottano per sopravvivere stringendo i denti, risucchiate nel crollo dell’orologiera svizzera che nel 2020 ha registrato un calo delle esportazioni di quasi il 22% e la perdita di oltre 1500 posti di lavoro. Ha resistito, più meno bene, solo qualche casa prestigiosa, mentre la Swatch, il simbolo stesso del rilancio e dell’innovazione dell’orologeria elvetica che raggruppa ben 18 marchi, con 36mila dipendenti in tutto il mondo, a causa della chiusura dei negozi, le restrizioni nei viaggi e la paralisi del turismo, ha subito una perdita di 53 milioni di franchi. Precipitando nelle cifre rosse per la prima volta da quasi 40 anni.
Non meno difficile è la situazione per molte imprese del cantone che lavorano per conto terzi in alcune filiere globali: nel settore tessile per le grandi griffe della moda, nella metalmeccanica e meccanica di precisione per l’aeronautica o l’automotive che ha già visto in Ticino la chiusura della sede di un’importante industria nazionale a seguito della crisi che ha investito il mercato automobilistico. Il settore automotive è un modello illuminante delle filiere produttive globali che attraversano il mondo intero. In ogni auto confluisce, infatti, il lavoro delle maestranze, dei centri di ricerca e di progettazione di una quindicina di Paesi diversi. Una grande rete transcontinentale nella quale anche il nostro piccolo Cantone gioca la sua parte fornendo diverse componenti.

Dovremmo sempre tenere a mente che i numeri sono solo una semplificazione della realtà

In Svizzera lo scorso gennaio, secondo le stime dell’Ufficio federale di statistica, erano quasi 445mila i lavoratori (l’8,5% di tutti gli occupati) coinvolti nelle chiusure o nelle restrizioni alle attività economiche imposte dal Consiglio federale per contrastare la pandemia. Limitazioni che hanno interessato ben 83’056 imprese (il 12% del totale delle aziende). In Ticino queste misure hanno colpito 21’433 lavoratori (il 9,1% del totale) e 4’701 aziende. Nell’aprile del 2020 col lockdown della prima ondata pandemica erano rimaste ferme in tutta la Confederazione più di mezzo milione di persone. Da un confinamento all’altro, c’è un volume immane di lavoro, di attività, di produzione di ricchezza e di opportunità di crescita sottratto al Paese, con un rallentamento generale di tutto il sistema economico. Un malessere, anche sociale, sempre più diffuso che solo da poco in Svizzera si sta cominciando ad indagare con i primi studi scientifici.

L’economia non cerca compassione, ma certamente rispetto.


Evidente, dunque, che quando si parla di salute è assai riduttivo fermarsi solo al rischio del contagio del coronavirus. I prossimi mesi metteranno ancora a dura prova la realtà del nostro Paese. Quanto faticosamente raggiunto e assicurato nei tanti mesi di pandemia già trascorsi rischia di essere nuovamente messo in discussione. Il mondo intero si muove intorno a noi con misure e modalità nuove e non sempre facilmente sostenibili per le aziende più piccole. Abbiamo imparato a reinventarci, a lavorare duramente per mantenere gli accordi e la qualità che ci rappresentano da sempre, stiamo costruendo una nuova realtà nell’interesse di tutti i settori per restare concorrenziali e presenti sui mercati.
Eppure, c’è chi vorrebbe incartare il dibattito pubblico nello scontro tra i cosiddetti rigoristi che insistono per prolungare, se non per inasprire del tutto, le attuali restrizioni per il timore di una terza ondata pandemica e chi invece chiede la riapertura per scongiurare il pericolo di una catastrofe economica e sociale. Restando così sempre incagliati nell’ingannevole dilemma se valgono di più le ragioni della salute o quelle dell’economia.

La Cc-Ti sostiene, da sempre, che si può e si deve, trovare invece un ragionevole punto di equilibrio avvalorando una discussione costruttiva su come pianificare una graduale riapertura, intensificando la campagna di vaccinazione e mantenendo ovunque le fondamentali misure di protezione individuale. Ma altrettanto urgente è aprire un dibattito su come affrontare il dopo pandemia che rappresenta una sfida non meno cruciale. Si parla anche di possibile effetto rimbalzo, cioè una forte crescita dei consumi quando la situazione sul fronte della salute si calmerà. Pensiamo sia più un auspicio che una certezza.
Il vaccino non sarà comunque la panacea di ogni male, purtroppo. Le persone e le aziende saranno ancora, per tanto tempo, chiamate a fare la differenza. E il comportamento individuale di tutti farà ancora la differenza. Non viene menzionata la grande responsabilità individuale che non accetta limiti personali, ma pretende limiti sugli altri. Troppo spesso non si comprende che, chiudendo il cerchio, ogni limite sarà un caro prezzo da pagare per tutti.
La Cc-Ti continua a battersi per promuovere il dialogo tra le parti sociali e il mondo politico a favore della crescita del Paese, tenendo conto delle componenti sanitarie, sociale ed economiche. Non siamo irresponsabili, come qualcuno vuol far credere.