Multinazionali e falsi miti

Le votazioni federali sulla tassa di bollo e sull’imposta preventiva hanno riportato alla ribalta tutta l’ostilità verso le aziende multinazionali, presenti in Svizzera, accusate di essere all’origine di molti mali.

Un articolo dello scorso 15 agosto pubblicato nell’”Agefi” da Xavier Comtesse offre spunti interessanti, in risposta ad alcune voci invocanti una minore dipendenza della Svizzera dalle multinazionali, con maggiore attenzione rivolta alle PMI.

Intento assolutamente lodevole e sul quale, in teoria, non vi è nulla da obiettare, soprattutto per la parte di maggiore attenzione verso le PMI. Il problema è che la realtà, come spesso accade, è ben più complessa.

Già più volte abbiamo sottolineato come una delle forze della Svizzera sia proprio la diversificazione del tessuto economico, fatto di piccole, medie e grandi aziende. Negare questa interdipendenza è pericoloso e prigioniero di cecità ideologica.

È un fatto che le PMI siano in buona parte dipendenti dall’attività delle grandi. Come fornitori diretti o di servizi (fiduciari, legali, alberghieri, di ristorazione, immobiliari, artigianali, ecc.). Le grandi società (per definizione quelle che impiegano più di 250 persone) giocano quindi un ruolo essenziale. Siano esse multinazionali o “solo” nazionali: precisazione importante perché “grande” non è sinonimo di “multinazionale”.

Come giustamente indica Comtesse nel suo contributo, il 99% (approssimativamente) delle imprese svizzere è costituito da PMI, ma è rilevante il fatto che l’89,7% è fatto di microimprese (con meno di tre impiegati), fortemente dipendenti dalla presenza di aziende di dimensioni più grandi.

Secondo studi attendibili, le grandi imprese producono una parte importante del valore aggiunto del PIL nazionale lordo (36%) e le 250 più grandi aziende svizzere pagano il 51% dell’imposta federale diretta e rappresentano il 29% degli impieghi in Svizzera. Comprendendo anche gli impieghi indiretti si arriva a circa i 2/3 dei posti di lavoro in Svizzera.

Comtesse trae pertanto tre conclusioni che meritano attenzione:

  1. La struttura delle economie territoriali è complessa e implica una forte interdipendenza fra i vari attori. Vale anche per il Ticino, ovviamente. Come dimostrano le difficoltà dei molti fornitori diretti e indiretti delle aziende che negli ultimi anni hanno lasciato il nostro cantone fra i fischi e le penose manifestazioni di giubilo di taluni esponenti politici. Esponenti molto meno giubilanti una volta accortisi dei buchi lasciati da queste imprese (tutt’altro che a basso valore aggiunto) anche nel gettito fiscale di Comuni e Cantone. Esigenze diverse fra aziende di grandi dimensioni e le altre non significa incompatibilità. Le conseguenze di eventuali chiusure aziendali colpiscono tutti sul territorio, senza eccezioni.
  2. Una seconda tesi di Comtesse è provocatoria, ma non per questo meno interessante. Egli sostiene che, essendo l’89,7% delle aziende microimprese fortemente dipendente da altri, sarebbe più corretto parlare di imprese medie, piccole e micro e non solo di PMI. Tesi in parte condivisibile, più che altro per prendere coscienza della complessità della situazione e delle varie realtà del territorio, sia svizzero che ticinese. Il mutamento del lessico non porterà forse a mutamenti sostanziali, ma permette forse di operare qualche distinguo di sostanza, soprattutto per contrastare la tesi che vuole indistintamente (tanti) cattivi da una parte e (pochi) buoni dall’altra.
  3. La Svizzera non è paese di PMI ma di microimprese e due terzi degli impieghi dipendono dalle aziende di grandi dimensioni. Lapidario ma corretto, soprattutto per la conclusione concernente i posti di lavoro.

“Food for thought” direbbero gli anglofoni.