Il Cantone dei paletti

L’opinione di Franco Ambrosetti, Presidente onorario Cc-Ti

“Mettere paletti alla libertà economica rende difficile fare azienda. L’imprenditore si rende conto di operare in un Cantone con livelli di fiscalità punitivi, tra i più alti in Svizzera dove pure la libera scelta dei collaboratori viene limitata, costretto a pagare tasse inique sui posteggi e subire molte vessazioni burocratiche: come dire apertamente, ragazzi andatevene, non siete graditi.”

 

Ho lasciato passare un anno prima di riprendere in mano la penna. Non che sperassi di assistere a grandi cambiamenti assai poco probabili in così poco tempo. Ma almeno l’apparire di qualche timido segnale, un barlume di risveglio a indicare una limitata, cauta, volontà di considerare le problematiche del mondo economico denunciate in modo forte e chiaro all’ultima Assemblea della Cc-Ti, questo sì. Invece è avvenuto il contrario. La libertà d’impresa è sempre più ostacolata da nuove regole, leggi coercitive, limitazioni burocratiche, ordinamenti che rendono il lavoro sempre più oneroso, più costoso e in netto contrasto con gli articoli 27 e 5a (sussidiarietà) della Costituzione federale ma soprattutto con lo spirito liberale che ne contraddistingue il preambolo.

Dal profilo politico sembra un maldestro tentativo verso forme d’indipendenza separatista con il rifiuto di regole condivise divenute ormai un cappio al collo del Ticino. L’origine di tale atteggiamento è chiara, appartiene alla subcultura populista che si esprime con “Berna non ci capisce” o “qui da noi la situazione è diversa”. In realtà la situazione diversa lo è, ma per ragioni opposte.

Prendiamo un esempio a tutti ben noto. La RSI. Siamo l’unico Cantone che riceve ogni anno centinaia di milioni dalla Confederazione che ci permettono di mantenere una struttura con oltre 1’000 dipendenti, cui si aggiunge l’indotto. Vero è pure che non siamo solo Cantone bensì una Regione che rappresenta il 6% della popolazione svizzera. Tuttavia il flusso di milioni che riceviamo va molto oltre all’importanza numerica che rappresentiamo. Si chiamano solidarietà e coesione interna, due valori irrinunciabili della nostra democrazia liberale, artefici del suo successo nel tempo e segno di rispetto verso una minoranza reputata importante.

Forse il senso di gratitudine nei confronti della Confederazione non è più di moda. Però mi pare azzardato ricambiare con sonori ceffoni come l’introduzione di misure legislative giuridicamente discutibili tipo l’albo delle aziende non ticinesi oppure la geniale pensata di sapore discriminante “prima i nostri” che in realtà vorrebbe dire “fuori gli altri”.

Questi paletti, introdotti per motivi di ordine esclusivamente politico, sono ridicoli, cozzano contro le leggi federali, creano confusione sulla certezza del diritto delegittimando, di fatto, parte dell’attività politica cantonale. Se aggiungiamo il velleitario tentativo di ridurre il traffico ormai ingestibile con la tassa sui posteggi, allora la discussione politica raggiunge livelli metafisici perché sarebbe come tassare la forza di gravità per ridurne l’effetto sulle cadute in bicicletta.

In democrazia si può discutere di tutto. Capisco che queste mie affermazioni siano contestabili a dipendenza del credo che si professa.

Meno discutibili invece sono gli effetti economici di tali misure. Mentre sul fronte della fiscalità per ora di là dalle buone intenzioni non ho ancora visto risultati anche per le numerose insidie politiche che i responsabili devono affrontare, noto con apprensione il costante degrado delle condizioni quadro generali del Cantone, oggi peggiori di quanto lo fossero una decina di anni fa.

Mettere paletti alla libertà economica rende difficile fare azienda. L’imprenditore si rende conto di operare in un Cantone con livelli di fiscalità punitivi, tra i più alti in Svizzera dove pure la libera scelta dei collaboratori viene limitata, costretto a pagare tasse inique sui posteggi e subire molte vessazioni burocratiche: come dire apertamente, ragazzi andatevene, non siete graditi.

Caricare le imprese di costi aggiuntivi e limitare la libertà di azione non è saggio. Anche se il Ticino ha tenuto meglio di altre regioni europee durante la crisi pesantissima che perdura tutt’ora, alla lunga l’erosione delle condizioni quadro colpisce la crescita, motore principale della socialità redistributiva. Non ci bastavano la sinistra nostalgica e le sue iniziative a favore di pianificazione e collettivismo in cui nemmeno la Cina comunista crede più? C’era bisogno del populismo per imporre costose interferenze stataliste che penalizzano le aziende? Margareth Thatcher diceva che “il socialismo finisce quando terminano i soldi”. Vale anche per il populismo. Per chi è duro d’orecchio significa che la redistribuzione dei redditi termina quando le aziende produttrici di ricchezza, se ne vanno altrove.

Voilà. Mi sono tolto un peso. Se ho dimenticato di insultare qualcuno come diceva Schubert, me ne scuso.