Centrare la formazione

Carenza di manodopera e ruolo della formazione

Il tema della carenza di manodopera, soprattutto qualificata, è ormai di dominio pubblico e lamentato praticamente da tutti i settori. Va detto subito, a scanso dei soliti equivoci che vogliono il Ticino in ritardo su tutto, che si tratta di un problema generale, non solo can-tonale, ma nazionale e internazionale, che tocca moltissimi paesi. Questo va sottolineato in maniera chiara, altrimenti si rischia come spesso accade alle nostre latitudini, di discutere partendo da premesse errate.

Preoccupazione, ma per le aziende…

La carenza di manodopera sembra avere, paradossalmente, anche qualche effetto “positivo ”. In effetti, in un contesto di grandi tensioni internazionali (guerra, problemi energetici, materie prima rare e care, protezionismi dilaganti, supply chain fragili), attualmente nel barometro delle preoccupazioni della popolazione quella per l’impiego si posizionino in maniera quasi marginale. Ovviamente si tratta di un parametro che può cambiare abbastanza velocemente, ma tutto sommato in linea con quanto emerso dalla nostra annuale inchiesta congiunturale, dalla quale è emerso chiaramente che nelle intenzioni delle aziende ticinesi per il 2023 vi è un chiaro intento di mantenere l’effettivo di personale, malgrado le previsioni sull’andamento economico risultino meno buone rispetto al 2022. Un chiaro segnale dato al valore delle risorse umane. Pertanto, è certamente un caso che sul mercato del lavoro si stia rivalutando la posizione dei lavoratori più anziani (e magari già pensionati), come pure dei disoccupati di lunga durata, che riescono a reinserirsi nel mondo del lavoro con maggiore facilità. Ciò spiega, almeno in parte, come la disoccupazione sia fortunatamente ai minimi storici in tutta la Svizzera, senza che vi sia stata un’esplosione (anzi) dei casi di assistenza, come taluni vogliono far credere quando le statistiche non confortano certi messaggi tendenziosi. Non è raro che attualmente le aziende si “rubino” il personale “di profilo ottimale”, mettendo così in difficoltà il sistema, che avrà sempre un per-dente, ben oltre il normale gioco della concorrenza .

Penuria improvvisa?

Resta aperta la questione di capire come mai vi sia “improvvisamente” questa penuria e dove siano finiti lavoratrici e lavoratori mancanti. Di primo acchito sembrerebbe che vi sia stata una profonda modifica strutturale nella fase post-pandemica. Possibile, ma è solo uno dei tanti aspetti da considerare. In realtà, la prima causa di diminuzione della manodopera disponibile è molto più “banale”: la maggior parte di coloro che sono “spariti” dal mercato del lavoro sono stati pensionati. Al netto di quelli che sono problemi strutturali noti in settori come ad esempio la sanità, la ristorazione e l’informatica, l’ondata di pensionamenti dei cosiddetti “baby-boomer ” (cioè i nati fra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni sessanta) è ormai una realtà importante e non ha ancora raggiunto l’apice. Si pagano dunque anche delle scelte politiche (pensiamo ai numeri chiusi che si continua ostinatamente a prevedere per formazioni di basilare importanza), che si accavallano con l’evoluzione demografica. Esco-no dal mercato molte più persone di quelle che vi entrano, anche tenendo conto dell’immigrazione. Vari studi condotti negli anni scorsi da Credit Suisse e UBS segnalavano del resto già l’imminente arrivo di situazioni di penuria di manodopera a causa di questo saldo negativo, che raggiunge le centinaia di migliaia di unità.

Quale evoluzione?

Difficile a oggi valutare l’evoluzione della situazione nel contesto di un possibile rallentamento della congiuntura, chiaramente temuto da molti operatori economici. I pensionamenti compenseranno un potenziale aumento della disoccupazione? Si può “auspicarlo”, ma nessuno può saperlo. Del resto, non in tutti i settori, basti pensare alla sanità, il personale è facilmente intercambiabile e nemmeno l’immigrazione, basta a coprire il fabbisogno di personale. Automazione, robotizzazione e, più in generale, digitalizzazione sono spesso citati come elementi alternativi, ma la loro evoluzione è meno lineare e più lenta di quanto spesso auspicato.

Rimediare con la formazione?

Un’ulteriore difficoltà del tema è rappresentata dalla difficile identificazione di tutti i risvolti del fenomeno. Tutti ne parlano, ma la cosa sembra rimanere astratta e anche le soluzioni ipotizzate sono più declamazioni di carattere generico, lanciate nella discussione sperando che qualcuno (sempre gli altri, di solito) trovi una soluzione. Per questo motivo, la Cc-Ti ha varato una sorta di monitoraggio costante e che sarà regolarmente aggiornato, lavorando a stretto contatto con associazioni ed esponenti delle varie categorie, per capire alcuni punti chiave: quanti e quali profili professionali mancano? Per quali motivi? L’attrattività delle professioni (remunerazione, possibilità di “fare carriera”, ecc.) oppure i limiti strutturali del nostro mercato (comunque di dimensioni ridotte e non paragonabili a grandi regioni come quella zurighese)? Vi è una formazione adeguata in Ticino? Se no perché? Vi sono i numeri per realizzarla? Tutti quesiti che meritano risposte più precise di quanto si è letto fino a oggi, anche perché, secondo il nostro tradizionale spirito propositivo, non ci limitiamo a rivendicare che lo Stato faccia qualcosa, ma vogliamo capire prima come il privato possa contribuire a trovare soluzioni al problema, con proposte concrete, cercando nello specifico la collaborazione con l’ente pubblico preposto alla formazione sulla base di indicazioni attendibili. Con informazioni sempre più attualizzate, sarà forse più semplice intervenire, laddove possibile, sia a livello di orientamento che di creazione di percorsi formativi adatti alla nostra realtà. Dai nostri primi rilevamenti emerge comunque un fatto chiaro, forse scontato, ma che va ribadito. Non vi sono soluzioni miracolose a breve termine. È piuttosto necessario un approccio sistemico che tenga conto di più fattori, perché le cause della carenza di manodopera in Ticino sono molteplici. Alcune meritano di essere già evidenziate, nell’attesa di ulteriori approfondimenti:

  • Scarsa conoscenza del settore, a torto considerato troppo duro o poco interessante
  • Scarso interesse verso l’apprendistato o verso interi settori
  • Settori che si promuovono troppo poco oppure su cui non vengono orientati i giovani
  • Ridotta competitività con alcune altre regioni svizzere, ma non sempre per le differenze salariali, ma soprattutto per le diverse dimensioni che offrono maggiori diversità di impiego e maggiore mobilità fra le aziende
  • Massa critica insufficiente per prevedere formazioni in Ticino
  • Riluttanza a seguire formazioni fuori dal Ticino
  • Ecc .

A ogni settore spetterà il compito di sviluppare i dettagli delle rispettive problematiche, ma appare già chiaro che il problema è molto complesso e va affrontato con grande capacità analitica e di differenziazione. Impresa non facile, visti i tempi che corrono e i messaggi ingannevoli che portano a credere che vi siano soluzioni facili, come chiudere le frontiere. Che equivarrebbe a un “suicidio”, basti vedere cosa sta capitando nel Regno Unito a seguito della Brexit.