La responsabilità sociale oggi – dossier tematico

Un recente studio della Supsi ha evidenziato una crescente attenzione delle aziende ticinesi per la responsabilità sociale delle imprese. Una consapevolezza sempre più diffusa perché la Rsi è vista dagli imprenditori come un fattore competitivo e non come un costo. Un valore aggiunto che permette all’azienda, ha sottolineato la ricerca della Supsi, di acquisire indubbi vantaggi: migliorare la sua immagine pubblica, essere più in sintonia con la sensibilità dei clienti, accedere più facilmente al credito, attirare più talenti e profili qualificati, avere personale più motivato e maggiore creatività da parte dei collaboratori. Col risultato anche di una più efficiente gestione dei rischi e dei costi.

Di Rsi si è parlato ancora nel convegno organizzato lo scorso maggio dalla Camera di commercio, che ha offerto la significativa esperienza di due importanti imprese del cantone: la Hugo Boss che si è soffermata sull’impegno di un grande marchio della moda per la tutela dell’ambiente e dei lavoratori anche in Paesi dove questi valori sono poco rispettati, e la Rapelli che ha proposto l’interessante modello adottato dall’impresa alimentare per il risparmio energetico e la drastica riduzione dell’impatto ambientale.

Ma cos’è la Rsi?

Quando si parla di responsabilità sociale delle imprese non si intende solo l’impatto ambientale delle attività produttive, ma anche le condizioni di lavoro dei dipendenti, il rispetto dei diritti umani, la trasparenza e altre garanzie che valorizzano la tradizionale funzione sociale delle imprese in un determinato territorio. In sostanza si tratta di tutte quelle misure che un imprenditore adotta volontariamente, al di là delle prescrizioni della legge, per migliorare la reputazione sociale dell’impresa e la soddisfazione dei suoi collaboratori. Da noi non mancano di certo le imprese che spontaneamente hanno orientato la loro strategia sulla tutela ambientale, il risparmio energetico, la mobilità sostenibile, sulle misure per conciliare meglio lavoro e famiglia o su prestazioni sociali e formative che premiano l’impegno del personale. Elemento fondamentale di questa vocazione sociale è la libera scelta, volontaria, dell’imprenditore e non imposta dallo stato, è una consapevolezza che deve diffondersi dal basso e non essere prescritta dall’alto. Tantomeno si può elevare la Rsi a criterio distintivo di un’azienda la cui valutazione selettiva di virtuosità spetta allo stato, con tutti i rischi che ciò comporta. Altrimenti si scade nelle regolamentazioni invasive, nell’intervento intrusivo dello stato che può pregiudicare la libertà d’impresa e mettere in pericolo la capacità stessa di un’azienda di fare profitti, ossia le basi della sua sopravvivenza. E, purtroppo, è quello che sta accadendo in Ticino.

Elemento fondamentale di questa vocazione sociale è la libera scelta, volontaria, dell’imprenditore e non imposta dallo stato, è una consapevolezza che deve diffondersi dal basso e non essere prescritta dall’alto.

Salvaguardare le imprese

Nel nostro cantone la Rsi è ormai una definizione a largo spettro, per cui dalle aziende si pretende di tutto e di più. Si pretende che esse suppliscano alle mancanze o ai fallimenti della politica: non ci sono sufficienti asili nido, e a prezzi accessibili, per favorire l’impiego di madri che vorrebbero lavorare e, allora, dovrebbero essere le aziende a dotarsi di asili nido; le strade sono intasate dal traffico anche perché, contro ogni logica pianificatoria, sono rimaste quelle di trent’anni fa, ma si puniscono le imprese con una tassa sui posteggi che dovrebbe spingerle a ripensare la mobilità dei dipendenti; se in Ticino il costo della vita è troppo alto perché la struttura dei prezzi, come dappertutto in Svizzera, è irrigidita da accordi cartellari e da esosi costi obbligatori, si vorrebbe che gli imprenditori pagassero salari non inferiori ai 3700- 4000 franchi, a prescindere dalle capacità e dalla produttività del dipendente; ci sono troppi disoccupati e allora non si può assumere chi si vuole, chi serve davvero all’impresa, ma i senza lavoro indicati dagli uffici di collocamento; se in assistenza ci sono tante persone sole con figli o con una scarsa formazione, dovrebbero essere le aziende a farsene carico e non lo stato che dovrebbe, invece, offrire loro altre opportunità di formazione e percorsi diversi per il reinserimento nel mondo del lavoro; un’azienda per essere ritenuta innovativa non basta che migliori processi produttivi e prodotti, che investa per essere competitiva, non basta che abbia successo sul mercato, no, prima di tutto, deve rispettare alcuni criteri fissati dallo stato. Ci si lamenta per la disoccupazione, ma si rifiutano o si bloccano importanti insediamenti industriali, per centinaia di posti di lavoro, perché qui le fabbriche devono essere tutte high-tech per decreto.

Tutto ciò è la prosecuzione con altri mezzi di quella strisciante criminalizzazione delle imprese che nel cantone ha suscitato sentimenti di manifesta ostilità per le attività imprenditoriali. È il frutto velenoso della mancanza di una vera cultura liberale su cui si è innestato il devastante “primanostrimo”. Quel pensiero politico e sociale ormai dominante che si è autoalimentato per anni con insistenti campagne su una presunta emergenza disoccupazione. Un martellamento continuo, a furia di ribadirla, ripeterla, sottolinearla questa emergenza è diventata una verità autoreggente, che resiste persino alla prova inconfutabile dei fatti, che indicano invece una netta diminuzione della disoccupazione e una espansione della base occupazionale. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che il Ticino si collochi oggi al quarto posto tra i cantoni per la crescita del Pil dal 2000 al 2015, che negli ultimi dieci anni i posti a tempo pieno siano aumentati del 15,7%, e non sono certo tutti per i frontalieri, che siano anche cresciuti quelli qualificati, passando da 1 impiego su 5 a 1 su 3, e che la disoccupazione, sia che la si misuri coi dati Seco che con quelli Ilo, è nettamente regredita.

Ci si lamenta per la disoccupazione, ma si rifiutano o si bloccano importanti insediamenti industriali, per centinaia di posti di lavoro, perché qui le fabbriche devono essere tutte high-tech per decreto.

La vera responsabilità sociale delle imprese

Il dilagante primanostrismo ha però prodotto una falsa rappresentazione della realtà che è diventata percezione collettiva, innescando nella politica un riflesso condizionato, per cui si sostiene qualsiasi proposta, persino le più balorde, per blindare il mercato del lavoro e proteggere la manodopera indigena.

In questo clima ci si è appropriati di un concetto quale la Rsi, per stravolgerlo e utilizzarlo come un piede di porco per scardinare quel che resta della libertà e economica e della libertà d’impresa. Dimenticando che le aziende sono la fonte principale dello sviluppo e dell’occupazione e che se esse affondano, affonda tutta la società.

Le imprese non sono “vacche da mungere” con tasse e imposte o da impastoiare con compiti e obblighi che nulla hanno a che fare con la loro funzione naturale, che è quella di creare profitto fornendo beni e servizi richiesti dal mercato. Perché solo se un’azienda crea profitto è in grado di investire per restare competitiva, di salvaguardare i posti di lavoro, di crescere assumendo nuovi dipendenti, di pagare i salari ai suoi collaboratori e le imposte allo Sato. Il profitto non è, dunque, solo il giusto premio per l’imprenditore che rischia il suo capitale, ma è ricchezza per tutti.

Fare profitti è questa la prima e vera responsabilità sociale delle imprese, che andrebbe tutelata e incoraggiata e non ostacolata con vincoli e imposizioni d’impronta statalista che snaturano la sua missione originaria. Perciò, la Rsi come autentica strategia di valorizzazione aziendale e sociale è un obiettivo che riguarda non solo gli imprenditori ma tutti, dipendenti, consumatori, classe politica e sindacati, e che può essere concretizzato attraverso il partenariato sociale e non imponendolo per legge.

Le imprese non sono “vacche da mungere” con tasse e imposte o da impastoiare con compiti e obblighi che nulla hanno a che fare con la loro funzione naturale, che è quella di creare profitto fornendo beni e servizi richiesti dal mercato.

Per approfondire il tema della sostenibilità, qui di seguito trovate diversi contenuti quali approfondimenti tematici.

Dossier responsabilità sociale 2017 completo
La responsabilità sociale non si impone per legge
La sostenibilità deve essere parte del modello di business
È inevitabile trovare l’equilibrio tra sostenibilità ed economia
Dare più senso al lavoro
La responsabilità sociale delle imprese non è una moda ma un comportamento
I diritti dell’uomo un compito dello stato
Responsabilità sociale d’impresa e strategia aziendale